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(MODA E FASCISMO)
Q uando Salvatore Ferragamo torna in Italia, nel 1927, ad accoglierlo
c’è una situazione che dal 1922 è dominata dal fascismo e dal potere di
Benito Mussolini. La politica mussoliniana invade anche il settore
moda, tentando di condizionare e imprimere una forte impronta fa-
scista all’abbigliamento femminile.
Negli Anni Venti la Francia era il punto di riferimento mondiale della raffinatez-
za e dello chic. Nonostante in Italia ci fossero importanti sartorie, i giornali
di moda erano focalizzati esclusivamente su Parigi, dove si riforniva tutta la
clientela europea. Contemporaneamente, a causa del crollo di Wall Street
del 1929, si abbatté un’ondata di crisi, facendo salire la disoccupazione e provo-
cando licenziamenti e riduzioni salariali. Nonostante ciò, in Italia la classe agia-
ta continuava a vestirsi in modo elegante. I matrimoni principeschi, in partico-
lare quello di Umberto II e Maria Josè del Belgio del 1930, i ricevimenti, le prime
teatrali e le usanze del bel mondo, erano costantemente sulle prime pagine delle
riviste che ignoravano completamente la vita povera e i problemi del resto della
Nazione.
Mussolini detestava le ostentazioni, gli eccessi e aveva ben chiaro il suo ideale
femminile: contadine di stazza robusta e di fianchi prolifici; e finché poté cercò di
trasformare le ricalcitranti signore italiane in massaie rurali. Attraverso “Il gior-
nale della donna”, “Camerate a noi”, “Il popolo d’Italia”, provò invano a instillare
nelle donne il rifiuto dello stile parigino, la disciplina, l’amore per i prodotti no-
strani. Lo sport femminile fu incentivato e si lanciarono le Olimpiadi della
Grazia, che si svolsero a Firenze con la partecipazione di undici nazioni europee.
Nel 1935 fu fondato l’Ente Nazionale della Moda, con sede a Torino, che
sostituiva quello precedente, sempre voluto dal fascismo, e che aveva come scopo
22 la diffusione di una nuova moda nazi-
onalista. In questo clima d’Italia fas-
cista, si sviluppò l’autarchia: l’idea di
autosufficienza giuridica ed economica
in tutti i settori, in cui non sono presen-
ti relazioni commerciali con l’estero e il
sistema non è influenzato dalle tenden-
ze internazionali.
La causa principale dell’autarchia fu-
rono le sanzioni economiche imposte
all’Italia dalla Società delle Nazioni per
l’invasione dell’Etiopia. Vennero quindi
a mancare rifornimenti e materie prime
ma si invitava il popolo a rifiutare tut-
to quello che proveniva dall’estero, a
meno che non si trattasse di prodotti
provenienti dalle colonie italiane.
Si arrivò perfino a modificare la lingua
escludendo qualsiasi parola straniera
ed esortando a parlare latino piutto-
Agenda della Massaia Rurale, 1935 sto che inglese e francese. La moda in
particolare era sollecitata a realizzare creazioni esclusivamente “italianissime”,
come certificato dal primo articolo costitutivo dell’Ente, che obbligava a garan-
tire la produzione italiana di ogni modello.
Negli Anni Trenta i couturier parigini si erano fatti promotori di una linea affu-
solata, estremamente femminile, con la vita sottile e messa in evidenza, la gonna
al polpaccio, il corpo sottolineato e risaltato da sete fruscianti che catturavano la
luce, con ampie scollature sulla schiena. Coco Chanel, Madeleine Vionnet
ed Elsa Schiapparelli, erano al centro dell’attenzione internazionale. Ormai
la filosofia dell’abito femminile era pensata per una donna moderna ed emanci-
pata, che aveva superato la Prima Guerra Mondiale svolgendo ogni tipo di lavoro
sul fronte interno e non aveva inoltre paura di sfoggiare la sua sensualità.
Questa idea era rispettata sia nei modelli di Coco Chanel: regolari, semplici, co-
modi e neutri, sia nelle folli creazioni della visionaria Elsa Schiapparelli.
Anche per lo stile da mare, il corpo era molto scoperto e si cominciavano a indos-
sare i primi pantaloni, prendendo come ispirazione lo stile mascolino di Mar-
lene Dietrich e Greta Garbo
Erano di moda i vestiti stampati a fiori, il plissé, le arricciature, i merletti e i
ricami. Le giacche e le mantelline si abbinavano a una gonna fantasia, i bottoni
e le fibbie erano in forme curiose come acrobati o cagnetti, in materiale come il
legno, la pelle, l’osso e la madreperla. I guanti erano d’obbligo come i cappellini,
e solo le donne del popolo uscivano a testa scoperta. 23
Il fascismo promuoveva l’idea che “l’eleganza è nettamente sfavorevole alla
fecondità”. Tentava di riportare le donne tra le mura domestiche e cercava di
convincerle persino a ingrassare, sempre perseguendo l’ideale mussoliniano della
massaia rurale. Guardava con orrore “le manichine”, ossia le indossatrici magre,
detestava i “gagà” e le “gagarine”, ossia le persone alla moda.
I figurini e le fotografie di moda voluti dal regime, riproducevano infatti belle
ragazze robuste, suggerendo che la modella perfetta avrebbe dovuto essere alta
1,56/1,60, e pesare 55/60 chili.
Il regime puntava inoltre su abiti che si rifacessero alla tradizione popolare ita-
liana, al Medioevo e al Rinascimento, mentre con la conquista dell’Albania ci
si ispirò al suo folklore per costumi colorati e ricamati, che furono propagandati
da Maria Josè di Savoia.
Si realizzarono anche pudicissimi modelli di ispirazione religiosa, sulla scia
della riconciliazione col Vaticano attraverso i Patti Lateranensi.
Ovviamente il regime attaccava duramente i pantaloni, contrari alla decenza e
alla maternità, e il trucco che imitava sfacciatamente le dive di Hollywood.
Le donne italiane non si curarono della filosofia e della propaganda fascista, con-
tinuando a seguire la dieta per tenersi in forma, copiando i modelli francesi e
guardando con estremo interesse le dive dei “Telefoni bianchi” che rifiutavano di
uniformarsi al modello proposto dal fascismo.
Uno dei primi problemi conseguenti all’autarchia, fu la mancanza delle materie
prime e il divieto di importare ogni tipo di prodotto dall’estero. Seta e lino si
coltivavano facilmente nella penisola, mentre per il cotone – che sarebbe dovuto
provenire dall’Etiopia – gli industriali italiani non erano stati capaci di ottenere
quantità soddisfacenti; la lana delle pecore abruzzesi non poteva competere per
qualità e abbondanza con quella inglese.
In mezzo a tali difficoltà, il Duce affermò che bisognava sostituire le fibre
mancanti con altre naturali e artificiali: la canapa, il fiocco di ginestra,
l’ortica, il raion. La lana fu invece sostituita dal “Lanital”, una fibra derivata
dalla caseina contenuta nei residui di latte di capra, con cui si ottenevano maglie
che cedevano e che si ingrossavano se inumidite. Per le pellicce di volpi argentate,
di astrakan, di ermellino, i cincillà, i visoni, le stole, le giacche, si dovette ricor-
rere ai conigli nostrani, spesso ritinti.
Ferragamo, al ritorno dall’America nel 1927, scelse Firenze come sede della
sua impresa artigianale di calzature da donna. Forte della sua esperienza e pro-
fonda conoscenza del mercato americano, vide nella città toscana il luogo idea-
le per sviluppare il proprio estro creativo, intuendo prima di ogni altro le po-
tenzialità dell’immagine evocativa della città italiana culla della civiltà e della
tradizione artigianale rinascimentale.
A Firenze esisteva da secoli un’importante tradizione manifatturiera del pellame.
Nel corso degli anni Venti il numero dei laboratori e delle case di moda in città
era notevolmente aumentato, a testimonianza del consumo crescente di capi di
24 abbigliamento e accessori, e soprattutto di una nuova cultura della moda, che si
stava progressivamente diffondendo anche attraverso le pubblicazioni fiorentine
specializzate, come “Almanacco della donna italiana” (1920) e “La moda d’oggi”
(1923). All’epoca le attività più note nel campo della pelletteria in città erano
quelle di Gherardini (fondata da Garibaldo nel 1885 e specializzata in astucci
e borsette da donne) e di Guccio Gucci (nata nel 1921 e rinomata per articoli
da viaggio e da selleria).
Era stato fondato l’EAT (Ente Arti Toscane) e, nel 1923 e 1924, si erano tenute
le Fiere dell’Arte, con lo scopo di dare risalto alle arti decorative e all’artigianato
in genere.
Inoltre, nella Firenze di quegli anni aveva una certa importanza l’unione armonica
delle cosiddette “arti sorelle” all’interno del Regio Istituto d’Arte, situato
a Porta Romana. Sotto l’iniziale supervisione dello scultore Libero Andreotti, i
giovani artisti erano guidati nella creazione di progetti e oggetti, anche per le
grandi iniziative nazionali. I loro lavori riusciranno infatti a conquistare diverse
copertine della celeberrima “Domus”.
La produzione delle ditte e dei laboratori di moda fiorentini aveva una clientela
principalmente locale, a differenza di Ferragamo, le cui calzature erano realiz-
zate esclusivamente per il mercato estero, soprattutto americano. Le calzature
Ferragamo iniziarono ad essere esportate in America e anche nei principali centri
europei di Londra, Parigi e Berlino, eleggendo Salvatore come un pioniere e un
artefice del Made in Italy.
Le sue ideazioni degli anni Venti risentirono del clima culturale e artistico
dell’epoca, come le tomaie ‘patchwork’, che traevano ispirazione dalle realizza-
zioni di abiti e copriletti di Sonia Delaunay e dai tessuti della tradizione
americana, mentre i sandali dorati con il tacco sfaccettato a piramide si rifaceva-
no alle recenti scoperte archeologiche in Egitto. Non mancarono le invenzioni
ardite frutto delle competenze tecniche acquisite durante il soggiorno america-
no, legate all’utilizzo di materiali inusuali come la pelle di pesce, di dentice e di
leopardo marino.
Nel 1932 partecipò alle presentazioni della Mostra della Moda, insieme ad
alcune delle più celebri sartorie fiorentine. L’allestimento delle sfilate aveva come
obiettivo proporre al pubblico fiorentino una prima vetrina delle creazioni delle
case di moda locali, riallacciandosi al più generale progetto mussoliniano di pro-
mozione di una moda di origine nazionale, come forte simbolo di italianità. 25
SECONDO CONFLITTO MONDIALE
E NASCITA DELLA MODA ITALIANA
C on l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, l’attività
dell’azienda di Ferragamo, che nel 1939 contava 400 addetti, e una pro-
duzione di 200 paia di calzature al giorno, si ridusse drasticamente.
Dal 1941 entrarono in vigore le tessere per l’abbigliamento e si
dovette ricorre