TRANSCULTURALE ALLE TEORIE DI DEVEREUX
L’etnopsichiatria è una disciplina che sorge dalla convergenza d’interessi e d’informazioni culturali
provenienti dalle aree di confine tra discipline come la Medicina, la Psicologia, la Pedagogia
interculturale, l’Antropologia, la Sociologia.
Secondo Beneduce, etnopsichiatra e coordinatore del Centro Franz Fanon di Torino, cercare di
definire l’Etnopsichiatria può essere fuorviante da un punto di vista concettuale: è difficile, infatti,
delineare una definizione di una disciplina che è per sua natura “pluriforme, di frontiera, nomade.
Sarebbe più corretto parlare di etnopsichiatrie, diverse quanto diverse sono le culture a cui esse si
appoggiano” (Beneduce in De Luca). Beneduce (2000) sostiene che “nel voler rintracciare l’origine
dell’etnopsichiatria ci si può perdere in un meandro di definizioni, interrogativi, distinzioni”.
I primi usi del termine sono individuabili a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo
con personaggi quali Crapanzano, che usò tale termine nel ’73, Devereux nel 1961, Field nel 1960,
Carothers nel 1953 e prima altri ancora nel 1935. Il problema diventa intricato in quanto ciascuno
utilizza la definizione di etnopsichiatria come meglio crede (Beneduce 2000).
L’incontro tra le due discipline collaboranti per la sua formazione (antropologia e psichiatria) ha
preso il nome di psichiatria comparativa (Murphy), psichiatria transculturale (termine coniato dal
gruppo della Mc Gill University di Montréal, che pubblica ancora adesso una delle riviste di lingua
inglese più antiche e specializzate di questo settore, la Transcultural Psychiatric Research Review),
psichiatria culturale (del gruppo di Harvard riunito intorno a Kleinmann), alcuni autori del mondo
anglosassone parlano anche di New Cross-cultural Psychiatry (Tumiati 2008).
Le radici della disciplina etnopschiatrica si trovano nel passato colonialista europeo: il termine
etnopsichiatria, in genere attribuito a Georges Devereux, sembra sia stato coniato da Carothers,
psichiatra inglese di origine sudafricana che prestò la propria opera al fianco di militari e missionari
nell’organizzazione della vita delle colonie (Beneduce 2004). L’interesse per il disagio psichico
nelle popolazioni native mirava alla convalidazione delle categorie nosografiche (nell’ottica
dualista presenza/assenza di malattia) della psichiatria classica occidentale tramite il confronto tra
diverse realtà cliniche. Il metodo utilizzato era appunto quello comparativo e da qui nacque la
definizione di psichiatria transculturale, cross-culturale o comparativa, da cui gli etnopsichiatri
contemporanei oggi ne prendono le distanze, consapevoli della non assoluta validità dei propri
riferimenti culturali e degli strumenti operativi solitamente utilizzati. “L’orientamento della prima
psichiatria transculturale considerava le sindromi psichiatriche esotiche come una variante più
semplice e povera di quelle riscontrate in occidente: in esse, inoltre, i fattori culturali costituivano
dei meri ostacoli all’efficace riconoscimento delle patologie secondo la nosografia psichiatrica
occidentale. L’elemento culturale veniva preso in considerazione e studiato solo in vista di una sua
rimozione al fine di svelare i modi universali della sofferenza umana” (da Ielasi 2007: 6). L’idea era
quindi trovare un’eguale forma di disturbo mentale, universale, sebbene i contenuti si potevano
differenziare a seconda della cultura (Littlewood in Ielasi 2007).
In letteratura, dunque, può accadere che termini come etnopsicoanalisi, etnopsichiatria, psichiatria
transculturale vengano utilizzati come sinonimi, mentre in verità corrispondono ad ambiti culturali
e applicativi diversi. In genere mentre i primi due sono soliti riferirsi a quanto elaborato da Georges
Devereux e attualmente da Tobie Nathan, il terzo termine viene utilizzato in riferimento
all’esperienza anglosassone sopra citata. L’obbiettivo principale della psicologia transculturale
rimane quello di costituire una disciplina scientifica comparativa che riesca a mettere in relazione il
comportamento umano con le variabili di ordine sociale e culturale e a verificare l’ipotesi di validità
universale delle sue teorie psicologiche. Il fine è descrivere e comparare quanto scoperto nei
laboratori occidentali, con quanto rilevato presso popolazioni di altre culture (da Profita 2004). “Gli
studi di psichiatria transculturale rivolgono la propria attenzione ai temi della malattia e della cura,
ai modelli eziologico-terapeutici tradizionali e cercano di estendere la loro attenzione all’intero
pianeta. In ciò è anche rintracciabile la necessità di giudizio che la Gran Bretagna prima e gli Stati
Uniti successivamente, ma anche la Francia, hanno incontrato nelle loro conquiste coloniali, non
appena a confronto con una diversità culturale radicale” (Profita 2004: 183).
Il termine che verrà usato in questa tesi é etnopsichiatria, che fa riferimento a Georges Devereux,
etnologo e psicoanalista considerato oggi il padre della moderna etnopsichiatria, per il quale
etnopsicanalisi e etnopsichiatria erano parole praticamente sinonimi. Tobie Nathan, allievo di
Devereux, esplicitamente oppone l’etnopsichiatria del suo maestro (quella che egli stesso pratica)
alla psichiatria culturale. Nathan afferma che la psichiatria transculturale è, dal punto di vista
metodologico il contrario dell’etnopsichiatria. Si ritiene una psichiatria ‘culturalmente illuminata’
ma sempre è una psichiatria che utilizza l’antropologia, per rendere la psichiatria possibile con
popolazioni che hanno pratiche diverse. In realtà tale psichiatria consacra un legame con
l’antropologia per ottenere da questa il sapere che gli permette di penetrare le difese che la
popolazioni oppongono alle pratiche psichiatriche, (Nathan 2001). Nathan definisce lo psichiatra
transculturale come colui che dopo aver compiuto il giro del mondo, torna a casa, apre la sua
valigia e tira fuori dizionari souvenir e oggetti esotici che sistema come ricordi espositivi.
L’etnopsichiatra che fa il giro del mondo quando torna non ha più la sua valigia, porta invece
sottobraccio dei testi sacri in lingue sconosciute, è vestito altrimenti e soprattutto non trova più la
sua casa. È costretto a pensarne e costruirne un’altra che non può essere che collettiva (Nathan
2001).
L’etnopsichiatria nasce dai luoghi dell’incontro con l’altro: dai lavori di E. de Martino, che svolse le
sue ricerche nell’Italia meridionale; di Fanon, medico psichiatra antillese che lavorò nei manicomi
dei coloni in Algeria; Devereux che collaborò con i Mohave in Nordamerica e i Sedang Moi
inVietnam; Collomb, che fu responsabile di un ospedale psichiatrico in Senegal durante l’epoca
coloniale e Nathan, che ha creato il Centro Georges Devereux a Parigi VIII, nel quale ha inaugurato
la moderna etnopsichiatria della migrazione (Beneduce 2007).
I termini che compongono la parola etnopsichiatria (etno-psiche- iatria) devono essere ben
compresi nella loro accezione specifica:
la dizione etno dal greco ‘etnos’, designa la tribù, la stirpe, la famiglia, ma anche la
provincia, il territorio e indica la dimensione locale, particolare rispetto ad un tutto,
sottolinea l’approccio clinico sul collettivo e sul gruppo (Coppo 2003) e “funziona come
marcatore della differenza culturale che costituisce anche la chiave di accesso privilegiata
alle peculiari dimensioni storiche e mitiche da cui originano ed entro cui vivono i pazienti”
(Inglese 2001 : 68). Scrive Piero Coppo, neuropsichiatra e psicoterapeuta,: “Nonostante
alcuni antropologi si siano adoperati per decostruire il concetto sostenendo che le etnie
sono fabbricate da chi da fuori le osserva e nomina, esse sono anche il risultato del
riconoscersi popolo da parte di un gruppo, unito attorno ad un’identità comune. Mantengo
dunque a ragion veduta l’uso del prefisso, nell’ampio spettro semantico dell’ethnós greco,
che indica ‘la stirpe, la tribù, il popolo’ ma anche la ‘provincia’, dunque insieme la
dimensione locale, territoriale e quella collettiva del gruppo” (Coppo 2003: 206-207).
Psichè equivale a soffio, respiro, vita, spirito, anima e sottolinea l’attenzione alla storia
psicologica del singolo. L’uso di questa parola va precisata: Coppo ne dà una definizione
molto vicina al significato che gli attribuivano i greci, soffio vitale, spirito. In realtà a
partire dal XVII secolo i filosofi la studiarono come ‘funzione mentale’, attualmente la
psichiatria, la psicologia e la psicoanalisi, pur avendo divergenze sulle proprie teorie,
concordano sul fatto di considerarla come funzione di un organo, il cervello, come un
apparato. Secondo Coppo è importante riferirsi a psiche nel suo significato antico, e tuttora
ampiamente condiviso: forza vitale, componente immateriale dell’individuo, che gli
permette di essere umano in relazione con altri umani. In questa accezione diviene anche
evidente la forte continuità di sostanza tra psiche e cultura: la prima è un’incarnazione
particolare della seconda, la seconda è costruita dal concorso delle espressioni particolari
della prima (Coppo 1996). Quindi “il termine non coincide meccanicamente con l’apparato
psichico di Freud, ma è un concetto intermediario che riconosce l’esistenza, nei più diversi
contesti culturali, di un principio impalpabile che rende umano l’individuo, una sorta di
‘soffio’ vivificante che può arrivare a coincidere con l’anima, intesa come parte
immarcescibile della persona cha va incontro a infinite trasformazioni di stato rimanendo
all’interno del corpo, dislocata nei suoi organi nobili o a esso sopravvivendo distribuendosi
nel mondo ambiente, nel cosmo, nell’aldilà” (Inglese 2001 : 69).
Iatria che vuol dire “cura medica, in quest’accezione specifica una funzione sociale
essenziale rivolta al trattamento delle persone e alla soluzione di problemi di adattamento
degli individui nelle proprie nicchie sociali, e indica l’arte di prendersi cura in senso più
ampio, inglobando modi differenti di guarire non necessariamente coincidenti con quelli
praticati da coloro che hanno un titolo medico o psicologico conferito da una formazione
universitaria” (Inglese 2001: 69).
“L’etnopsichiatria è, quindi, definibile come l’area disciplinare in cui interagiscono tra loro i diversi
saper-fare e che tende a considerare le individualità all’interno dei contesti e dei gruppi ai quali
appartengono. Il prefisso ‘etno’ che radica l’etnopsichiatria nella dime
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
-
Riflessione d'onda Effetto Doppler
-
Enzimologia alimentare - Appunti e domande riflessione
-
Riflessione linguistica tra cinquecento e settecento
-
Risposte tracce modulo A riflessione linguistica e abilità di scrittura