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Lo sviluppo economico italiano
Lo sviluppo economico italiano segue per certi versi quello tedesco, anche se l'Italia aveva degli svantaggi ulteriori, nonostante fino al Rinascimento fosse una delle zone più avanzate d'Europa. I limiti allo sviluppo industriale più influenti erano la lenta crescita della popolazione e la mancanza di materie prime, come carbone e ferro che stavano alla base dei nuovi settori trainanti. A cui si aggiungevano le caratteristiche e la conformazione geografica del paese; il terreno della Penisola era poco fertile, solo per metà arabile e le condizioni climatiche lo rendevano ancora più inadatto alla coltivazione. Le grandi distanze tra nord e sud e le difficoltà di collegamento a causa degli Appennini tra le due coste, ostacolavano la creazione di un sistema di trasporti efficiente, aggravata dalla necessità di costruire nuove strade e alla mancanza di una rete interna di vie d'acqua. La frammentazione politica alimentava quella
economica e il circuito dell'accumulo dell'arretratezza. Le barriere doganali tra i vari stati e l'assenza di un mercato unico avevano approfondito il divario regionale tra nord e sud: la parte settentrionale continuò il suo sviluppo grazie agli stabili rapporti commerciali e all'industria, anche se era poco sviluppata, mentre il Mezzogiorno rimaneva legato all'agricoltura e al latifondo. In più, i prodotti italiani non risultavano concorrenziali sui mercati esteri e quello interno era ristretto a causa dell'agricoltura di sussistenza e alla scarsa disponibilità di capitali da destinare agli investimenti, perché i pochi profitti disponibili venivano impiegati per l'acquisto di terre o titoli di stato. Il processo di unificazione politica voluto dall'alto nel 1861 era avvenuto mentre gli altri stati si preparavano già ad affrontare la seconda rivoluzione industriale, caratterizzata da grandi imprese e nuove tecnologie.più costose attività. In Italia, il sistema economico era caratterizzato dall’agricoltura come attività prevalente, che tra il 1750 e il 1850 sperimentò un aumento significativo nella produzione, soprattutto quella cerealicola, attraverso gli investimenti al nord; mentre dalle altre parti, dove questi erano limitati si fece ricorso al lavoro dei contadini, tramite contratti di mezzadria al centro e allo sfruttamento nei latifondi al sud, ma questo piccolo incremento non fu in grado di porre le basi per una rivoluzione agraria. Il nuovo Regno si poneva come la sesta potenza europea, ma l’assenza di capitali aumentò il divario tra il centro-nord, più progredito e il meridione. In ogni caso, la produzione industriale era più arretrata dell’agricoltura e le attività continuavano ad essere svolte da artigiani e da lavoratori a domicilio, gli stabilimenti di tipo capitalistico erano molto rari. L’industria cotoniera fu
La prima a adottare il sistema di fabbrica grazie agli investimenti svizzeri, anche nel settore della lana furono introdotte le prime macchine, ma queste attività dovevano importare la maggior parte delle materie prime per soddisfare la domanda interna, risultava già chiaro che questo settore non avrebbe mai potuto rappresentare un traino per l'economia. Dopo la costruzione delle prime strade ferrate, iniziò a crescere anche il campo meccanico, soprattutto nelle zone di Torino, Napoli e Milano, per la produzione di carrozze e macchine ferroviarie. L'industria siderurgica era quasi inesistente a causa della mancanza di carbone fossile. Al sud, invece, le poche imprese che erano nate avevano continuato ad andare avanti fino all'unificazione, grazie al protezionismo pattuito con il governo borbonico.
20 E. DE SIMONE, Storia economica. Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica, Franco Angeli, Milano, Parte II, Cap VIII 24
Con l'unificazione
del paese, anche se pur incompleta perché ne restavano fuori il Lazio, il Veneto e il Trentino, si trovava al governo la destra storica che attuò una politica incentrata sul sostegno all'agricoltura. Furono estese a tutto il paese l'amministrazione e la legislazione del Piemonte nel 1865 e unificati il sistema bancario e la moneta, utilizzando la lira e il sistema bimetallico. Dopo un lungo dibattito politico tra industriali protezionisti e liberoscambisti, si arrivò alla conclusione che l'Italia non potesse essere un paese manifatturiero, a causa del ritardo nell'innovazione, alla carenza di materie prime e di capitali, essa non poteva colmare il divario con i paesi industrializzati. Prevalse così una legislazione commerciale liberista, che portò all'unificazione doganale attuata molto rapidamente, per istituire un mercato nazionale più ampio e uniforme, che avrebbe avuto un peso positivo sullo sviluppo del paese. Unanalisi a posteriori chiarifica che questo processo fu condotto e guidato dall'alto, dalla classe dominante settentrionale e finì per peggiorare le condizioni delle regioni meno sviluppate, che in un mercato unico dovettero affrontare la concorrenza dei prodotti del nord e l'incremento della pressione fiscale, dovuto al debito pubblico elevato del nuovo stato. La storia economica dello sviluppo e della crescita industriale fino alla Grande Guerra può essere diviso in tre fasi. Il primo è il ventennio successivo all'Unità, dal 1861 al 1880 in cui la Destra storica attuò una politica economica di libero scambio, basata sulla costruzione di infrastrutture ma senza pesare sul debito pubblico, già elevato. Per quanto riguarda il liberismo economico, questo fu sfruttato per sostenere l'agricoltura e l'esportazione dei suoi prodotti, dove l'incremento di produttività fu raggiunto grazie all'impiego di un maggiorNumero di lavoratori e di terreni coltivabili, non tramite gli investimenti. Questa politica evidentemente crea benefici ai grandi proprietari terrieri, coloro che all'epoca componevano la classe dirigente, tuttavia danneggiò fortemente il fragile settore industriale che necessitava di una protezione statale dalla concorrenza. Lo stato fece grandi sforzi nel tentativo di modernizzare il paese tramite investimenti e opere pubbliche, svolgendo il ruolo di fattore sostitutivo dello sviluppo cercando di sostenere le attività creando domanda. Si cercò di diffondere ovunque il telefono per aumentare i mezzi di comunicazione e di incrementare la viabilità grazie alla costruzione di strade, anche se l'impulso più forte fu rappresentato dalla costruzione delle ferrovie. Questo progetto consentì una crescita importante, in soli venti anni ne venne triplicato il chilometraggio e contribuì allo sviluppo dell'industria siderurgica e meccanica.
Benché non raggiunse le aspettative desiderate: le strade ferrate furono costruite troppo presto rispetto allo sviluppo dei settori complementari. Nel 1885 l'intera rete ferroviaria fu affidata in gestione dallo stato a tre società private per due decenni, tuttavia vi era la possibilità che questa concessione non venisse rinnovata, causando una diffusa incertezza che pose un freno agli investimenti di queste compagnie. Infatti, nel 1905 Giolitti nazionalizzò definitivamente le ferrovie. L'incremento del trasporto ferroviario innescò lo sviluppo in altri settori e fece da stimolo agli investimenti, rinforzando anche l'unificazione politica e del mercato.
L'enorme progetto di costruzione ferroviaria fu portato avanti con una politica di pareggio di bilancio, introdotta dal ministro Sella. Essa si basò principalmente sull'aumento della pressione fiscale sui cittadini per colmare il debito ed ebbe effetti negativi sul mercato.
E sui consumi. Il potere d'acquisto del popolo era stato fortemente ridotto e in ogni caso le entrate non erano sufficienti a colmare il deficit, portando così all'introduzione nel 1868 della tassa sul macinato, che diede luogo a non poche proteste. Inoltre, per finanziare la terza guerra d'indipendenza fu istituita l'inconvertibilità della moneta, abbandonando il gold standard, che provocò una forte inflazione e la svalutazione della moneta. Il dualismo iniziale risultò accresciuto, vi erano un numero limitato di industrie moderne a cui si accompagnavano molte piccole imprese arretrate e un settore agricolo molto esteso, anche se indebolito dalla forte pressione fiscale.
Negli anni Settanta l'Europa fu colpita da una forte crisi agraria provocata dal crollo dei prezzi dei prodotti cerealicoli, dovuta all'ingente aumento di offerta di grano da parte di Stati Uniti e Russia. L'Italia avvertì la crisi in ritardo.
Perché era più isolata dal mercato internazionale, ma anche grazie al circolo forzoso, cioè la non convertibilità in oro della lira, che aveva provocato una svalutazione della moneta incrementando le esportazioni. A causa della recessione fu varata dunque una politica economica protezionistica per supportare l'industria. La crisi agraria e la crescita del settore secondario avevano dato la speranza che l'Italia potesse aspirare alla modernizzazione. Nel 1776 vinse le elezioni politiche la Sinistra storica, che fin da subito si attivò per attuare varie riforme progressiste in diversi campi. Furono introdotte nuove tariffe doganali, volte a proteggere le produzioni già esistenti, quali grano, tessile e siderurgica. La nuova fase si svolse dal 1881 fino al 1896 e fu caratterizzata dalla crisi agraria e dal sostegno alle imprese già affermate, attraverso il protezionismo. Lo stato si impegnò molto nel creare da zero una forte
industria pesante con delle protezioni tariffarie e altre forme di assistenza per questo settore, dirottando le poche risorse in una politica estera aggressiva che tuttavia investiva improduttivamente negli armamenti. L'istituzione di una nuova tariffa protezionistica nel 1887 portò alla rottura commerciale con la Francia, aggravando molto la situazione italiana soprattutto del sud. L'anno successivo il paese fu scosso anche da una profonda crisi economica e bancaria che perdurò fino al '94, provocata dalle speculazioni edilizie sui capitali confluiti dall'estero dopo il ritorno alla convertibilità della moneta. Le imprese coinvolte furono sostenute dalle banche durante il boom edilizio soprattutto a Roma, che diventata capitale doveva ospitare tutte le strutture statali. Anche a Napoli ci fu un forte finanziamento da parte degli istituti di credito, poiché qui stava proseguendo il risanamento edilizio dopo l'epidemia di colera, ma
quando l'espansione si arrestò molte società fallirono e con esse anche le banche. Il culmine della crisi finanziaria fu nel 1893 con lo scandalo della Banca Romana che aveva emesso banconote oltre il limite consentito, non possedeva la copertura aurea adeguata e