Il concetto di insight in diversi modelli di psicoterapia
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terapia. Nell’articolo di Schooler e colleghi, in particolare, viene indagata
l’ipotesi che la richiesta di verbalizzazione dei propri pensieri e strategie
che si stanno utilizzando interferisce con la soluzione corretta dei problemi
perché si sovrappone all’applicazione di processi non riportabili
insight
verbalmente, ipoteticamente associati a tali problemi. Gli esperimenti 1 e 2
studiano se la verbalizzazione disturba il problem solving tramite insight
esaminando l’effetto della verbalizzazione retrospettiva diretta, cioè i
soggetti erano interrotti mentre risolvevano il problema insight e sondati
riguardo alle strategie che stavano usando. Gli esperimenti 3 e 4 esaminano
l’effetto della verbalizzazione sulla soluzione di problemi insight usando la
verbalizzazione concorrente non diretta. Ne risulta che, in tutte le
condizioni sperimentali, i soggetti a cui è chiesto di verbalizzare hanno una
performance peggiore e ciò accade per i problemi insight, ma non per quelli
di altro tipo. Inoltre l’effetto di disturbo è mantenuto anche quando ai
soggetti è suggerito che potrebbero essere in un particolare setting mentale
e potrebbe essere necessario cambiare la loro visione del problema.
Anche in psicoanalisi si è affermato l’uso della parola inglese insight,
l’atto di vedere dentro una
indicante nel linguaggio comune il potere e
situazione, l’atto di afferrare l’intima natura delle cose (Webster’s, 1970).
Tuttavia prima veniva usato il corrispondente tedesco Einsicht che nel
linguaggio comune significa esame, accorgimento, giudizio, comprensione,
cioè un tipo di conoscenza che ha a che fare essenzialmente con le funzioni
intellettive nell’ambito di un atteggiamento vigile e raziocinante.
In psichiatria l’insight assume un significato diverso da quello della
psicologia e della psicoterapia, essendo definito come consapevolezza
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(Lewis, 1934) che il paziente ha del proprio disturbo psichico ed
eventualmente della sua origine da attribuire a motivazioni intrinseche a sé.
L’assessment dell’insight è un aspetto informativo dello stato mentale del
paziente e, sia che sia esplicito o implicito, è cruciale per il processo di
diagnosi, specialmente quando interessa la psicosi.
Il termine insight in psichiatria fu usato da Bleuler (1911), da Kraepelin
(1913) e da Jaspers (1913). Bleuler (1911) considerava espressione
dell’insight il fenomeno del doppio binario, per cui “nello schizofrenico le
manifestazioni patologiche non avvengono in luogo di quelle sane, ma
collateralmente ad esse” (p. 56), cioè i pazienti possono avere
consapevolezza delle caratteristiche deliranti delle loro idee. Kraepelin
(1913) osservò che alcuni pazienti mostravano consapevolezza della
morbosità del loro stato precocemente, ma che questa li lasciava col
progredire della malattia. In seguito commentò che un certo insight per lo
stato di malattia è frequentemente presente nei pazienti con la forma
catatonica di dementia praecox. Jaspers (1913) riteneva che i pazienti
psicotici non avessero questa capacità di insight e perciò non accettassero
la loro condizione di malattia.
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla
Lo studio pilota
schizofrenia in diverse culture (1973) confermava la visione di Jaspers
(1913) il quale affermava che “Nella psicosi non c’è insight duraturo né
completo” L’insight, considerato presente se c’era
(p. 421). qualche
consapevolezza di “malattia emotiva” e assente se il paziente negava
vigorosamente che era disturbato, mancava nel 97% del campione. Lo
studio fu condotto con casi a insorgenza recente, mentre un altro studio di
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68 pazienti schizofrenici cronici ha rilevato che solo un terzo ha negato
qualsiasi malattia mentale (Brooks, Deane, Hugel, 1968). Quindi lo stadio
della malattia in cui si valuta l’insight è chiaramente importante (Heinrichs,
Cohen, Carpenter, 1985). Sviluppi successivi hanno invece dimostrato che
la possibilità di insight è presente anche nei pazienti psicotici e in quelli
appartenenti allo spettro borderline (Kernberg, 1996).
A partire da questa definizione è stata elaborata una teoria in cui si
distinguono tre componenti dell’insight nella malattia psichiatrica (David,
1990): capacità di riconoscersi malato, compliance al trattamento e capacità
di correlare eventi mentali abnormi, per esempio allucinazioni e deliri, a un
fenomeno patologico. Riconoscersi malato richiede che una persona veda
la propria esperienza oggettiva soggettivamente (Jaspers, 1913) e qualsiasi
consapevolezza di questo tipo richiederebbe standard di conoscenza di sé
più alti del normale, dato l’inevitabile affidamento per tale compito
sull’apparato mentale che è per definizione difettoso. Ciò implica una
modularità della mente (Fodor, 1983) in cui una facoltà o modulo, in
questo caso adibito all’osservazione, può rimanere funzionante mentre
un’altra facoltà è malfunzionante. In pratica, molti pazienti sono
consapevoli della loro malattia nonostante importanti disturbi psichiatrici.
Per quanto riguarda la compliance al trattamento, uno studio dimostra che
sebbene l’insight sia correlato, ne è uno scarso predittore (van Putten,
Crumpton, Yale, 1976). Da un altro studio (Heinrichs, Cohen, Carpenter,
1985) è emerso che l’insight aiuta chiaramente la compliance, ma i pazienti
possono non avere insight per la malattia, pur traendo beneficio dai
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farmaci. I due aspetti vanno perciò considerati come separati, sebbene
sovrapposti che contribuiscono all’insight.
siano costrutti
La capacità di insight pare correlata ad un esito positivo della malattia (Mc
Evoy, Freter, Everett et al., 1989) e ad una migliore qualità di vita, anche se
alcuni la ritengono dannosa perché esporrebbe il paziente psicotico a
fenomeni depressivi e suicidari (Beck-Sander, 1998). Anche Zilboorg
(1952) afferma che nella cartella clinica dei pazienti era indicato se fossero
stati ricoverati con o senza insight. Si assumeva che il comportamento
normale del paziente era chiaro e noto al soggetto stesso e la conoscenza di
ciò che non era normale era sufficiente a guidarlo, o almeno dava un
grande vantaggio terapeutico. Così i pazienti schizofrenici erano
considerati in condizioni migliori se dicevano di sapere che tutti i loro
strani pensieri erano “pazzi”, che le voci che sentivano non erano reali. I
pazienti maniaco-depressivi erano in condizioni migliori se e quando
ammettevano a loro stessi che il loro umore era altalenante in modo
l’origine di ciò e scelto le soluzioni
anomalo; avrebbero poi riconosciuto
appropriate. Il problema con questo tipo di ottimismo clinico, che diventò
tradizione e per un certo periodo routine, è che il paziente, quando è nel
periodo fuori dalla malattia, ammette facilmente che le voci che sente non
sono reali, ma quando inizia un’altra fase acuta dei sintomi ride del suo
precedente insight o sembra averlo del tutto dimenticato o insiste sul fatto
che tutto ciò che ha detto nel periodo lucido era vero ma che in questo
momento è completamente diverso. 36
Capitolo 2. L’insight nella psicoanalisi e nelle terapie
psicodinamiche
1. L’insight nella psicoanalisi freudiana
L’insight è stato a lungo considerato un processo di cambiamento
centrale, se non il più importante o esclusivo. Il termine si riferisce al
processo grazie al quale il paziente diventa consapevole del significato e
dello scopo della sua attività psichica inconscia (Erwin, 2002). Questo
apprendimento è di tipo specifico, cioè il paziente diventa consapevole di
alcuni desideri, emozioni, motivazioni, fantasie o ricordi che influenzano la
sua vita mentale in modi nascosti, ma potenti.
Il primo articolo analitico che include il termine insight nel titolo fu scritto
da French (1939) che studiò le vicissitudini dell’insight nei sogni di un
paziente e suggerì di differenziare lo stadio della presa di coscienza del
conflitto inconscio, da quello della soluzione pratica, che implica una
riorganizzazione psichica in accordo con l’acquisita comprensione della
situazione.
L’insight completo contiene anche l’ingresso nella
definito
consapevolezza, quindi la comprensione, la scoperta, dei modi in cui il
paziente si manteneva nell’inconsapevolezza (resistenze, difese, inibizioni
e tratti caratteriali). 37
L’insight qualche volta avviene spontaneamente quando il paziente associa
liberamente in presenza del terapeuta. Più spesso, invece, segue alcune
interpretazioni offerte dallo psicoanalista, in cui al paziente viene
raccontato il contenuto del conflitto inconscio, le sue radici storiche e le
manifestazioni attuali. Un’interpretazione accurata porta al riemergere di
ricordi, all’arousal affettivo, alla consapevolezza di sentimenti nascosti,
desideri e percezioni di sé e degli altri. A questo segue un decremento
dell’ansia, della colpa, della vergogna o di altri correlati di questi stati
interni. Se l’insight avviene con regolarità durante la terapia, il paziente si
libera dalle difese, dai sintomi e dai comportamenti disadattivi che limitano
la sua vita intrapsichica.
Dagli anni ’50 in poi molti autori psicoanalitici, scrivendo del processo
terapeutico, assumono che l’insight è critico nell’effettuare il cambiamento
terapeutico (Eissler, 1953). Essi vedono il raggiungimento dell’insight
come un obiettivo superordinato della terapia psicoanalitica, un ideale che
va oltre il sollievo dai sintomi (Kris, 1956). Lavori più recenti nel campo
hanno notato che l’aumento dell’insight nei pazienti è un effetto del
trattamento psicodinamico, un’indicazione che un qualche tipo di
cambiamento è avvenuto.
Il termine insight con valore di fattore terapeutico appartiene, quindi,
alla psicoanalisi. Freud, il padre della teoria e della tecnica psicoanalitica,
non adoperò però mai il termine insight nel senso moderno di processo
psicologico che ristruttura cognitivamente ed emotivamente gli eventi
connotandoli di un nuovo significato, ma lo usò solamente in maniera
colloquiale nella prefazione della terza edizione americana
38
dell’Interpretazione (Freud, 1900), nella frase “Insight
dei sogni such as
this falls to one’s lot but once in a lifetime” (p. XXXII), riferendosi alla sua
scoperta dell’inconscio.
Freud, invece, usò la parola tedesca Einsicht nel significato tedesco
comune di “comprensione”, ma non lo elevò a statuto di concetto
psicoanalitico e non lo usò quasi mai nei suoi scritti, dove anche i
riferimenti all’interpretazione, intesa come sforzo dell’analista per
promuovere l’insight del paziente rispetto a sentimenti, pensieri e
comportamenti, sono scarsi e limitati per la maggior parte a un saggio sulla
tecnica psicoanalitica (Freud, 1914). Freud intende col termine Einsicht la
perspicacia che è essenzialmente intellettuale, come citato in un passo
dell’Introduzione alla psicoanalisi (Freud, 1917) dove si minimizza
l’importanza dell’ insight intellettuale del paziente in analisi, che lo fa
ripiombare nella rimozione, rispetto a quella del suo rapporto col medico
“Il paziente è disposto a
come fattore di superamento delle resistenze:
discutere, ci sollecita continuamente a informarlo, a istruirlo, a
contraddirlo, a guidarlo in letture che possano approfondire la sua cultura
(…) Tuttavia noi riconosciamo in questa brama di sapere una resistenza,
una deviazione dai nostri compiti specifici” (p. 450).
Si suppone che il termine fu mutuato da Freud dalla psichiatria (Sandler,
Holder, Dare, 1973), il cui convenzionale assessment dello stato mentale
dell’insight
include la valutazione per la malattia, cioè la consapevolezza
del paziente di avere un problema.
Tuttavia il raggiungimento dell’insight sul funzionamento della mente
e il desiderio di trasmettere le sue scoperte agli altri furono l’obiettivo del
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lavoro di Freud per tutta la sua vita. Condividere i suoi stessi insight e
incoraggiare quelli dei suoi pazienti era al centro del suo sforzo, anche se
non lo disse mai così esplicitamente. Con i suoi pazienti spesso parlava in
modo didattico, cercando di portarli a vedere quale senso avevano dato ai
loro problemi. Infatti in Freud era già presente l’idea che, per una effettiva
guarigione, dovevano essere simultaneamente presenti la componente di
consapevolezza cognitiva e la componente emotivo-abreativa (Breuer,
Freud, 1892-1895), cioè in termini moderni dovevano esserci sia un insight
“I singoli
cognitivo o intellettuale che un insight emotivo: sintomi isterici
scomparivano subito e in modo definitivo quando si era riusciti a ridestare
con piena chiarezza il ricordo dell’evento determinante, risvegliando
insieme anche l’affetto che l’aveva accompagnato e quando il malato
descriveva l’evento nel modo più completo possibile esprimendo
verbalmente il proprio affetto” (p. 178).
L’abreazione o catarsi avviene quando un paziente, che è in uno stato di
tensione, ha l’opportunità di fidarsi pienamente ed esprimere i propri
sentimenti ed emozioni ad un terapeuta fidato e ciò può portare ad una forte
scarica emozionale con conseguenze positive.
L’origine del focus psicoanalitico sull’insight può essere ritrovata anche nel
fatto che i primi pazienti di Freud furono donne isteriche, per le quali
l’insight sull’origine traumatica delle loro sofferenze risultava
apparentemente terapeutico (Horowitz, 1991) e permetteva la remissione
dai sintomi. Inoltre i meccanismi che causano l’isteria, cioè repressione e
dissociazione, possono essere ridotti integrando cognizione e affetti
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attraverso l’insight, nel contesto di una relazione sicura, quale quella
terapeutica.
Nel corso della sua carriera e dello sviluppo della sua teorizzazione e
pratica psicoanalitica, Freud modificò il suo modo di intendere ed usare
l’insight All’inizio (Freud, 1894)
con i pazienti. suggeriva che ogni
desiderio, memoria o motivazione repressa poteva essere la fonte della
nevrosi che affliggeva il paziente e che il compito del trattamento era
l’abreazione, cioè il rilascio, dell’affetto che accompagnava tali contenuti
“All’interno delle funzioni psichiche va distinto come
cognitivi inconsci:
– importo d’affetto, somma di eccitamento –
qualcosa che ha tutte le
proprietà della quantità (…) un qualcosa suscettibile di aumento,
diminuzione, spostamento e scarica, e che si propaga sulle tracce mnestiche
delle rappresentazioni” (p.134) .
L’insight, o riconoscimento cosciente di questi contenuti, era il precursore
necessario a questa esperienza.
Più tardi, Freud (1905) mise enfasi esclusivamente sulla consapevolezza
del paziente dei desideri sessuali infantili repressi e dell’ansia associata,
“Nel corso dello sviluppo talune delle
che era il risultato di quei desideri:
componenti dotate di forza eccessiva subiscono il processo della rimozione
(…) Gli eccitamenti vengono regolarmente prodotti, ma l’intoppo psichico
impedisce loro di raggiungere la meta e li spinge su molteplici vie diverse
finchè si manifestano come sintomi” (p. 541).
Freud riteneva che l’insight e il ricordo fossero equivalenti e spesso si
riferiva al compito della psicoanalisi come quello di colmare i buchi nella
memoria del paziente. Ciò che doveva essere ricordato, però, non era ciò
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che successe realmente, ma piuttosto quei piaceri sessuali che erano stati
desiderati, avevano spaventato ed erano stati ripudiati nei primi stadi di vita
L’insight
(Freud, 1914). è così equiparato alla modificazione e al
superamento delle resistenze verso il completo richiamo dei desideri erotici
“L’analizzato ripete invece di ricordare, sotto
infantili: le condizioni
impostegli dalla resistenza (…) La riconciliazione col rimosso testimoniato
dai sintomi è avviata fin dall’inizio (…) Si deve lasciare all’ammalato il
tempo di immergersi nella resistenza a lui ignota, di rielaborarla, di
superarla (…) Solo quando la resistenza è giunta a tale livello è possibile
scoprire i moti pulsionali rimossi che la alimentano” (pp. 357-361).
Se avviene l’insight e i desideri sono riscoperti, integrati e abbandonati, la
persona può lasciarli e muoversi verso la sessualità matura.
La concettualizzazione di Freud del ruolo terapeutico dell’insight cambiò
nuovamente quando la sua teoria fu espansa ad includere un focus sul
carattere, le resistenze alla scoperta del materiale inconscio e il transfert
sull’analista, diventando strettamente un precursore degli scritti dei
moderni psicoanalisti. Oggi, infatti, la psicoanalisi ha espanso la sua
comprensione della vita mentale inconscia a includere quei fenomeni come
la rappresentazione del sé e degli altri e delle relazioni interiorizzate con
persone significative del passato. Questi contenuti psichici diventano
accessibili alla consapevolezza attraverso il trattamento psicoanalitico,
favorendo l’insight nel paziente.
Poiché Freud non ha discusso l’insight per sé nei sui scritti teoretici, non ha
mai definito il termine. Se lo avesse fatto probabilmente lo avrebbe
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interpretato in termini di sostituzione di desideri inconsci e conflittuali, di
motivazioni e di fantasie con la comprensione conscia e razionale.
A volte Freud mise in dubbio il ruolo terapeutico dell’insight nel
risolvere le nevrosi causate da pensieri, emozioni o desideri repressi,
perché i pazienti presentavano pattern ripetitivi tali per cui anche a seguito
di un insight in terapia, il materiale inconscio riemergeva in modo
problematico in momenti successivi, come accadde nel caso emblematico
1
dello psicoanalista Theodor Reik (Reik, 1949) .
2. L’insight secondo la psicologia dell’Io e la teoria delle relazioni
oggettuali
Il passaggio nella teoria freudiana dal modello topografico al modello
ha dato inizio alla psicologia dell’Io. Freud e i
strutturale (Freud, 1922)
suoi successori avevano capito che era più utile per i pazienti lavorare con
le loro difese contro l’ansia, piuttosto che lavorare direttamente con il
materiale di cui erano presumibilmente ansiosi. Il nuovo paradigma si
indirizza quindi all’Io, la struttura che opera i meccanismi di difesa, più che
all’Es.
1 Reik aveva descritto un insight, un riconoscimento del suo desiderio di morte verso
ma nell’intervallo di trentasei anni tra questo articolo e la sua
Ella, la moglie malata,
autobiografia ha spinto questo insight fuori dalla consapevolezza. Nella seduta
psicoanalitica con Freud tale pseudo-insight, fu riprodotto come insight vero e proprio,
per il fatto di aver sperimentato attualmente il sentimento di volere che Ella morisse ed
emerse solo quando Reik fu emotivamente pronto a lasciare Ella e fu capace di sentirsi
supportato da Freud in questa decisione. Tuttavia il valore curativo di tale insight è
dubbio, perchè i desideri inconsci di morte riemersero di nuovo nel matrimonio di Reik
con Maria, la ragazza per cui aveva la sciato la prima moglie.
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Il modello topografico descriveva che durante l’insight i pensieri e i
sentimenti diventavano consci o preconsci appena si superava il
meccanismo di repressione, mentre il modello strutturale indica che
l’insight coinvolge l’integrazione nell’Io di alcuni aspetti dell’Es: “La
psicoanalisi è uno strumento inteso a rendere possibile la conquista
progressiva dell’Es da parte dell’Io” (p. 517).
quindi durante la psicoanalisi l’insight
In questo senso genera
un’espansione dell’Io, grazie ai processi di auto-osservazione, recupero
della memoria, partecipazione cognitiva e ricostruzione di un vissuto
affettivo in un nuovo contesto.
Gli psicologi dell’Io sostengono che l’insight arriva al paziente
attraverso le interpretazioni fornite dal terapeuta. James Strachey (1934) è
noto per aver articolato la prima teoria psicologica di guarigione dell’Io in
cui l’insight è implicitamente centrale. In un articolo sull’azione terapeutica
della psicoanalisi, infatti, coniò il termine interpretazione mutativa, cioè
che interrompe il circolo vizioso nevrotico del paziente, rendendolo
consapevole , o generando un insight, della differenza tra il comportamento
arcaici fantastici, buoni o cattivi, e quello dell’oggetto reale
dei suoi oggetti
che ora si trova davanti, cioè l’analista, su cui egli tende a proiettare le
stesse emozioni che provava verso gli oggetti infantili. L’autore fa quindi
notare la superiorità degli interventi che integrano affetto e cognizione
rispetto a quelli che ingaggiano solo le facoltà cognitive.
La funzione sintetica dell’Io (Nunberg, 1931) è essenziale per lo
sviluppo dell’insight. Con questo concetto si intende la tendenza dell’Io a
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connettere, unire e legare elementi isolati nella mente in una nuova
organizzazione dell’Io stesso.
La funzione sintetica dell’Io lega e connette e permette l’assimilazione
all’interno dell’Io. Tuttavia, rimane sotto l’influenza delle forze libidiche e
quindi può portare a resistenze e alla formazione di nuovi sintomi. Diverso
è ciò che Hartmann (1939) chiama funzione organizzativa dell’Io, che usa
l’energia naturalizzata, cioè libera dalle influenze della libido e che Kris
(1956) definisce col termine “funzione integrativa” dell’Io.
Nei suoi scritti Kris si riferisce continuamente alla funzione di insight e non
all’insight come esperienza o come prodotto finale. Infatti l’insight cambia
continuamente durante l’analisi, poiché ogni interpretazione e ogni
ricostruzione offerta al paziente è solo un passo che porta a una nuova
interpretazione e perfezionamenti nella ricostruzione, fino ad arrivare alla
fine dell’analisi con una nuova stabilità strutturale, una struttura dell’Io
riorganizzata. dell’insight
Secondo Kris (1956) il raggiungimento è possibile solo dopo
l’integrazione armonica di tre funzioni dell’Io. Nella regressione
temporanea e parziale controllata succede che l’Io sospende parte delle sue
censure permettendo al materiale inconscio di emergere; questo
è una delle parti centrali della funzione integrativa dell’io, che
meccanismo
include la capacità dell’Io di limitare le sue stesse funzioni (Hartmann,
1939). Quando al paziente viene fornita un’interpretazione, si attiva uno
in cui l’Io
stato di auto-osservazione distaccata, osserva se stesso o il suo
funzionamento. La terza funzione dell’Io che contribuisce allo sviluppo
dell’insight analitico è il controllo sugli affetti agiti.
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infine, contesta l’affermazione che l’insight
Kris (1956), non è un fattore
ma l’evidenza della guarigione (Alexander, French, 1946),
curativo,
sostenendo che senza altri cambiamenti dinamici l’insight non sarebbe
emerso, ma senza l’insight e i traguardi dell’Io che permettono il suo
raggiungimento, la terapia stessa rimane limitata e non conserva il carattere
Tuttavia, la complessità delle funzioni dell’Io che
di psico-analisi.
partecipano al processo di raggiungimento e uso dell’insight può spiegare
la grande variazione dell’impatto dell’insight sui casi singoli.
Zilboorg (1952) afferma che, per essere veramente utilizzabile in
psicoanalisi, il concetto di insight dovrebbe essere specificato in modo tale
da servire come guida generale nel valutare il successo terapeutico e lo
stato di guarigione. Egli infatti concepisce l’insight come uno stato di
personalità o del funzionamento dell’Io, paragonabile alla nevrosi. È perciò
il modo di essere di una persona, uno stato mentale globale, quello maturo
o normale, contrapposto allo stato nevrotico o psicotico della personalità.
di un individuo è quello dell’insight,
Se il modo di essere automaticamente
questo è anche inconscio, poiché nell’inconscio c’è sempre una conoscenza
valida delle proprie esperienze, e in un altro modo di essere non si può
parlare di nessun insight. Perciò secondo Zilboorg (1952) il concetto di
riflette semplicemente un’organizzazione psichica e cioè l’ottimale
insight
funzionamento dell’Io. Sottolinea inoltre che l’insight è un aspetto dello
all’attività
sviluppo personale non legato in maniera lineare e immediata
interpretativa dell’analista, come invece sostenevano i primi psicologi
dell’Io. 46
I terapeuti delle relazioni oggettuali vedono invece l’insight come il
prodotto di una mutua scoperta, che origina dalla relazione significativa che
tra il paziente e il terapeuta e non come un evento con un’unica
si sviluppa
direzione dal terapeuta verso il cliente. Entrambi infatti hanno importanti
idee da condividere che portano il paziente a un nuovo modo di pensare la
sua vita.
La prima autrice a sviluppare una teoria delle relazioni oggettuali fu
Melanie Klein, la quale fondò una nuova prospettiva che provocò una
scissione interna alla Società britannica di psicoanalisi, poiché la sua teoria
dello sviluppo si contrappose a quella di Anna Freud (1927).
Melanie Klein ha adoperato spesso, dagli anni Trenta in poi, il termine
insight come sinonimo di integrazione psichica (1952) e quindi come
un’esperienza strettamente legata alla posizione depressiva e associata ai
rispettivi conflitti di ambivalenza e agli stati mentali di sofferenza e
“dai progressi nell’integrazione e nella sintesi deriva una
solitudine:
maggiore capacità dell’Io di riconoscere la sempre più dolorosamente
conturbante realtà psichica” (p. 473); “.
Gli autori kleiniani, successivamente, collegano il vero insight alla
posizione depressiva e lo pseudo-insight o mancanza di insight alla
posizione schizoparanoide.
Il termine posizione usato da Klein indica un modo di mettersi in relazione
d’amore o odio con gli altri. La posizione depressiva è uno stato
psicologico acquisito dal bambino nella seconda metà del primo anno di
vita, quando si rende conto che l’oggetto buono e l’oggetto cattivo sono in
realtà lo stesso oggetto e deve fare i conti con il senso di colpa per aver
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precedentemente attaccato e distrutto, nella posizione schizoparanoide, il
oggetto d’amore. L’angoscia dominante è quella depressiva, che
proprio
riguarda le paure per il destino degli altri, esterni e interni, messi in
pericolo dalle fantasie di distruzione e di possesso create dal bambino. Il
passaggio alla posizione depressiva è centrale per lo sviluppo del senso di
insiste sul fondamentale aspetto dell’insight
realtà, infatti Klein (1957) che
“Una delle
consiste nel mettere insieme realtà interna e realtà esterna:
nel progresso verso l’integrazione nasce quando il paziente dice –
difficoltà (…) I nostri
Io posso capire quanto lei mi sta dicendo ma non lo sento-
tentativi di portare il paziente all’integrazione possono essere convincenti
solamente se siamo in grado di mostrargli, nel materiale sia attuale che
passato, come e perché egli ripetutamente operi una scissione di parti del
suo Sé” (p. 103). dell’insight
Questa caratteristica è in comune con il processo creativo
nell’arte e nella scienza (Sacerdoti, Spacal, 1985).
la psiche può funzionare secondo il registro schizoparanoide o
Nell’adulto,
depressivo, provocando così una patologia più o meno grave e portando
alla capacità o meno di acquisire insight, cioè, nel linguaggio kleiniano,
integrazione.
In un suo articolo Joseph (1983) riprende le intuizioni di Klein e ne
analizza le conseguenze sulle tecniche psicoterapeutiche. Afferma che gli
analisti dovrebbero approcciare la questione di comprendere il paziente in
modo diverso in base al fatto che opera più nella posizione schizo-
paranoide o più in quella depressiva. Quest’ultima categoria infatti
comprende i pazienti che non sono in grado di riferirsi a se stessi come
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persone integre e percepire quindi delle responsabilità per i loro stessi
a relazionarsi all’analista come a una persona
impulsi e non riescono
completa. Tutti i pazienti arrivano in terapia per acquisire una
comprensione, ma come sperano di farlo varia in base alla posizione che
hanno acquisito, intesa nel linguaggio kleiniano. La natura delle difese
della posizione schizo-paranoide lavora contro la comprensione. Solo i
pazienti che hanno acquisito la posizione depressiva possono usare la
comprensione intesa come discussione, poiché hanno la capacità di stare
fuori, a margine del problema e soprattutto di considerare le spiegazioni,
aiutati dal terapeuta. Nei pazienti bloccati nella posizione schizo-paranoide,
invece, la parte dell’Io che potrebbe giungere alla comprensione e portare a
progressi per la persona è divisa e proiettata nell’analista attraverso il
transfert, perciò non è maneggiabile. Con questi pazienti è difficile
raggiungere la comprensione se l’attenzione rimane focalizzata su ciò che
dicono, in quanto utilizzano l’identificazione proiettiva come metodo di
comunicazione a un livello non verbale profondo, ma, secondo Joseph,
bisogna sintonizzarsi sulla loro lunghezza d’onda che è fatta di azioni.
Nella posizione depressiva emerge inoltre la capacità di simbolizzazione, si
sviluppa la funzione simbolica, da cui secondo Klein (1930) e secondo
emerge l’insight.
Bion (1971) Melanie Klein descrive la formazione del
simbolo come una particolare funzione che può disintegrarsi o essere
distorta e dare origine a un profondo disturbo della personalità. Secondo
Bion però l’area del disturbo è più vasta poiché ad esempio, il paziente
psicotico non si comporta sempre come se fosse incapace di formare
simboli, anzi spesso si comporta come se fosse convinto che certe azioni,
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che per gli altri sono prive di qualsiasi significato simbolico, siano
ovviamente simboliche. l’importanza dell’oscillazione tra le
Bion (1962) deriva da Klein (1952)
due posizioni schizoparanoide e depressiva, ritenendola cruciale per la vita
mentale poiché rappresenta il meccanismo di base del pensiero. Tale
oscillazione descrive lo spostamento da uno stato di caos senza forma a uno
stato di coerenza, che si sviluppa improvvisamente attraverso la messa in
opera di un fatto selezionato, che ha capacità integrativa (Symington,
1996), come in un insight in cui si riorganizzano degli elementi per dargli
una nuova comprensione.
Bion (1962) prende da Klein (1952) anche il concetto di identificazione
proiettiva, intendendo una modalità di funzionamento della mente attiva
che rappresenta il primo atto mentale del bambino e il fondamentale
sostegno della capacità adulta di pensiero e relazione. Questa nozione si
lega al modello contenuto-contenitore, per cui il bambino proietta sulla
madre i suoi elementi beta, cioè emozioni e sensazioni per lui
incomprensibili, che vengono accolti dalla madre che li elabora e li
restituisce al bambino trasformati in elementi alfa. Nello stesso modo,
l’analista funge da contenitore per le comunicazioni del paziente e le
trasforma e scopo dell’analisi è sviluppare le sue potenzialità, rendendo
il cambiamento attraverso l’insight
così possibile dato dalla possibilità di
pensare le cose in modo diverso.
In una introduzione all’articolo di Strachey del 1934 The nature of the
therapeutic action of psycho-analysis Gabbard (1999) afferma che, negli
anni ’90, l’opposizione tra l’insight raggiunto con l’interpretazione e
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l’interiorizzazione di una nuova relazione è diventata meno frequente.
Anziché la polarizzazione, c’è il riconoscimento che l’insight e l’esperienza
relazionale correttiva siano processi compatibili che lavorano
sinergicamente (Cooper, 1992), infatti una relazione di comprensione
sarebbe probabilmente impossibile da mantenere, a meno che non ci sia
anche insight riguardo a ciò che sta accadendo nel rapporto ( Pulver, 1992).
visioni dell’azione terapeutica della fine del secolo
Una delle più sofisticate
scorso, che è disegnata sull’effetto combinato dell’insight e della relazione
terapeutica è il modello di Jones (1997), che egli chiama “strutture
ripetitive di interazione”. Egli ha notato nella sua ricerca che il terapeuta e
il paziente interagiscono in modi ripetitivi durante la terapia e che questa
specifica struttura di interazione appare correlata al cambiamento del
paziente. l’interazione terapeutica stessa è inoltre rapportata al
riconoscimento delle interazioni, al loro sperimentarle e comprenderne il
significato. Così entrambi gli aspetti del trattamento esperenziale o
relazionale e esplicativo o interpretativo sono importanti.
Gabbard (1999) afferma inoltre che oggi si è inclini a pensare alle terapie
psicoanalitiche come collocate su un continuum espressivo-supportivo.
3. L’insight nella psicologia del Sé e nella prospettiva intersoggettiva
Il Sé ha costituito un’entità separata già per Hartmann, dal 1950, che
distingueva l’Io definendola come la parte che interagisce con le altre
istanze psichiche cioè l’Es e il Super-Io, dal Sé visto come il prodotto delle
51
interazioni con gli oggetti significativi e con i propri oggetti interni
(Meissner, 1986).
Secondo Schafer (1983) il Sé è un agente attivo, che dà origine all’azione
ed è il soggetto dell’esperienza, che costruisce il mondo esperenziale
Nelle teorizzazioni psicoanalitiche dell’autore è l’elemento
partecipandovi.
costituente centrale, organizzato e organizzante della persona considerata
come un’entità psicologica strutturata. Il Sé è però anche oggetto
dell’azione e dell’esperienza di una persona, per esempio nell’auto-
osservazione o nell’autostima.
Heinz Kohut (1971) elaborò una teoria dello sviluppo del Sé e dei
bisogni narcisistici, parallelamente al tramonto del modello pulsionale e al
crescente diffondersi del modello delle relazioni oggettuali. La psicologia
del Sé, di cui Kohut è il padre, ritiene che il Sé derivi dalle rappresentazioni
mentali interne e si divide in tre poli (Kohut, 1971): il primo è più nucleare
e arcaico e vi sono le ambizioni di successo, nel secondo si trovano i valori
e gli ideali normativi e nel terzo le attitudini e le abilità. Il Sé nasce
inizialmente debole e amorfo e viene successivamente arricchito dalla
relazione costante con l’ambiente che accoglie i bisogni del bambino e ne
rispecchia l’integrità. Anche in analisi il paziente ha bisogni legati a un Sé
immaturo, che grazie al contesto terapeutico accogliente può riprendere il
suo sviluppo fino ad arrivare ad una coesione e integrazione.
Il raggiungimento di un Sé maturo nel bambino è possibile grazie alle
esperienze di oggetto-sé (Kohut,1971), cioè alla soddisfazione di bisogni
quali quello di essere idealizzato (oggetto-sé idealizzante), di essere
affermato e valorizzato (oggetto-sé rispecchiante) e di sentirsi simile ad un
52
altro essere umano (oggetto-sé alteregoico o gemellare). Inizialmente gli
oggetti-sé erano rappresentazioni interne, mentre successivamente si legano
alle persone che realmente costituiscono l’ambiente del bambino, che
devono possedere la capacità empatica per svolgere questo ruolo.
Successivamente, grazie alla frustrazione ottimale, cioè il mancato
soddisfacimento dei bisogni da parte dei genitori, avviene
l’internalizzazione trasmutante, per cui gli oggetti sé diventano strutture
psichiche e le loro funzioni vengono svolte da un Sé più autonomo, integro
e coeso.
Allo sviluppo del Sé si lega lo sviluppo della libido che viene distinta da
Kohut in libido oggettuale, che investe gli oggetti sperimentati come
separati dal soggetto e libido narcisistica, che invece investe gli oggetti
come un’estensione del Sé (Greenberg, Mitchell, 1983) e che
sperimentati
porta al narcisismo sano.
Un concetto fondamentale della tecnica kohutiana è quello di empatia,
“capacità
intesa come di pensare e sentire se stessi nella vita interiore di
un’altra persona. nostra capacità quotidiana di provare ciò che un’altra
È la
persona prova, anche se di solito, e giustamente, in misura attenuata”
(Kohut, 1984; p. 113). È il modo di cogliere informazioni di carattere
psicologico su altre persone e di raffigurarsi la loro esperienza interiore,
diretta. In analisi l’empatia ha un
anche se non è accessibile all’esperienza
effetto terapeutico, consentendo di convertire traumi potenziali in
esperienze più comprensibili ed elaborabili. Infatti l’ascolto empatico
permette la comprensione del sentire del paziente, valida il suo punto di
vista e permette così il recupero del blocco evolutivo causato dagli
53
insuccessi dei primi oggetti-sé. Nella psicologia del Sé il concetto di
empatia è legato a quello di esperienza emotiva correttiva (Alexander,
French, 1946), di alleanza terapeutica (Zetzel, 1956) e di esperienza
integrativa (Loewald, 1960), che favoriscono lo sviluppo dell’insight nel
paziente, sostituendosi all’interpretazione, come sostenevano invece gli
dell’Io. È importante notare che per Kohut
analisti freudiani e gli psicologi
(1984) l’insight è la conseguenza e non la causa del cambiamento.
Dopo le innovazioni introdotte da Kohut, in particolare l’applicazione
dell’empatia nell’interazione clinica, una delle strade che percorre la
psicologia è quella della prospettiva intersoggettiva (Atwood, Storolow,
1979). Questa corrente si basa sulla metafora psicoanalitica del campo o
sistema relazionale composto da soggettività, cioè persone e altre entità
l’attività psichica come un sistema aperto in
separate, in interazione e vede
cui i processi mentali emergono dall’interazione continua e reciproca di
influenze interpersonali che modellano e influenzano i meccanismi
intrapsichici (Atwood, Storolow, 1984). Il concetto di campo psicoanalitico
è stato introdotto dai coniugi Baranger (1969), i quali ritengono che lo
scambio psicoanalitico sia determinato dal paziente e dal terapeuta, ma
anche da una terza istanza o campo che include la loro interazione presente,
passata e futura e il setting.
Nonostante il legame tra Storolow e Kohut, il concetto di campo
intersoggettivo è solo in parte sovrapponibile a quello di relazione tra Sé e
oggetto-sé, poiché il primo si configura come un campo di influenza
reciproca e scambievole e non si riferisce solo al modo in cui il paziente
induce l’analista a svolgere una funzione di oggetto-sé, ma anche alla
54
stessa propensione da parte del terapeuta. Inoltre il costrutto di mondo
soggettivo della prospettiva intersoggettiva ricopre un territorio più
esperenziale rispetto a quello ricoperto dal concetto di Sé, poiché include
l’interazione di più sistemi soggettivi ponendosi a un livello di
generalizzazione più alto.
La teoria intersoggettiva è stata influenzata anche dall’approccio sistemico
degli studi sulle coppie madre-bambino, che evidenziano la reciprocità
della comunicazione e della regolazione affettiva tra neonato e caregivers
(Storolow, Lachmann, 1980). Gli autori hanno poi studiato l’analogia con
la diade paziente-terapeuta. Nel caso di pazienti più integrati che
sviluppano un transfert classico, l’analista può esercitare l’interpretazione,
mentre con pazienti che hanno un arresto evolutivo alla fase pre-edipica,
che vivono il terapeuta come incluso in un sistema di reciproche
porre l’attenzione analitica sul legame sé-
interrelazioni, è necessario
oggetto e sulla dimensione interattiva.
Storolow e Atwood (1992) inoltre criticano il mito della mente isolata,
cioè che esiste in modo indipendente e separato dall’esterno, ritenendo che
invece l’esperienza personale si sviluppi all’interno di un contesto
intersoggettivo, che è il sistema madre-bambino. La patologia deriva perciò
da una grave deficienza o distorsione di questo rapporto primario. Anche in
terapia, quindi, l’esperienza del paziente può essere modificata grazie al
campo intersoggettivo, all’interno del quale il paziente può anche
raggiungere l’insight. Nella terapia basata sulla teoria intersoggettiva
inoltre, così come in quella fondata sulla psicologia del Sé da cui in parte
deriva, il rapporto empatico con il terapeuta favorirebbe la formazione di
55
nuovi principi organizzatori dell’esperienza psichica, più funzionali, che si
aggiungono o sostituiscono ai vecchi principi disfunzionali (Storolow,
Brandchaft, Atwood, et al, 1999). sia passato dall’essere legato
Si nota come, così, il concetto di insight
all’abreazione o catarsi della prima modalità tecnica freudiana, passando
attraverso il legame con l’interpretazione della teorizzazione più matura di
Freud e degli psicologi dell’Io, all’essere favorito dalle caratteristiche
empatiche del terapeuta grazie alle nuove tecniche introdotte da Kohut
(1984), pur rimanendo un elemento fondamentale della terapia a
orientamento dinamico. 56
Capitolo 3. L’insight nelle terapie cognitivo-comportamentali
1. La terapia comportamentale e le terapie cognitive di prima
generazione ha l’obiettivo di modificare direttamente
La terapia del comportamento
i repertori comportamentali del paziente, a differenza della psicoterapia
l’organizzazione
tradizionale che è volta a modificare in modo diretto
intrapsichica del soggetto e ha, come conseguenza indiretta, la
modificazione del comportamento.
La terapia del comportamento inizia ad emergere negli anni Cinquanta, in
tre diversi ambienti: in Sud-Africa si studiano con esperimenti sugli
animali le modalità di decondizionamento/controcondizionamento delle
reazioni emozionali e in particolare Wolpe (1958) mette a punto la tecnica
della desensibilizzazione sistematica; a Londra Eysenck insegna ai suoi
allievi una pratica terapeutica pioneristica che si basa sui principi
dell’apprendimento anziché sugli assunti psicodinamici; negli Stati Uniti,
Skinner studia il condizionamento operante con pazienti psicotici.
Successivamente la terapia del comportamento si diffonde in modo rapido
e negli anni Ottanta acquisisce effettivamente dimensioni mondiali.
Negli anni Novanta e recentemente si individuano più filoni che si
dispiegano dal polo del comportamentismo estremo ad uno opposto
prevalentemente cognitivista; si trovano così un comportamentismo
57
radicale di derivazione skinneriana, il comportamentismo sociale di Staats
(1975) , la Social Learning Theory di Bandura (1969) e posizioni di altri
autori al confine tra comportamentismo e cognitivismo.
Il comportamentismo si basa sul retroterra filosofico dell’empirismo
inglese, del sensismo e del materialismo francesce, del positivismo
ottocentesco, dell’evoluzionismo e del pragmatismo, da cui derivano una
serie di presupposti: il determinismo psichico e comportamentale,
l’ambientalismo, cioè la tendenza a dare più importanza a ciò che è appreso
rispetto a ciò che è innato, l’evoluzionismo, cioè la convinzione della
continuità tra uomo e animale, l’atteggiamento a-mentalista e situazionale.
Tali assiomi della teoria comportamentista sono stati criticati e rifiutati dal
paradigma cognitivista, in cui l’organismo è considerato come un sistema
capace di elaborare informazioni e quindi con capacità maggiori rispetto a
teoria dell’apprendimento.
quelle studiate dalla
I primi professionisti orientati al comportamentismo hanno rifiutato il
concetto di insight come era definito dalla psicoanalisi, perché implica il
coinvolgimento di processi inconsci (Cautela, 1993). Essi piuttosto
l’insight
intendono comportamentale come la consapevolezza degli
antecedenti che controllano il comportamento target, cioè il comportamento
da modificare, la consapevolezza di ciò che il comportamento target è, o
dovrebbe essere e la consapevolezza delle conseguenze.
Per Bandura (1969) l’insight, o consapevolezza, è visto come un fenomeno
di conversione sociale, in cui il cliente impara e adotta il punto di vista del
terapeuta e perciò solleva una questione morale rispetto al suo
raggiungimento in terapia. Altre figure storiche della terapia
58
comportamentale hanno assegnato un ruolo minore all’insight nel
cambiamento terapeutico. Tra questi, Shoben (1960) riconobbe che
l’insight poteva contribuire al recupero psicologico, ma ha anche dichiarato
che nei disturbi d’ansia è ancora necessaria l’estinzione o il contro-
L’insight,
condizionamento. anzi, è una condizione preliminare a queste
tecniche e avviene quando il paziente è in grado di verbalizzare le tendenze
represse associate all’ansia.
L’introduzione di una prospettiva cognitiva all’interno
dell’orientamento comportamentista ha preparato la via per una differente
visione dell’insight. Infatti, a partire dalla fine degli anni ’60, i terapeuti
comportamentali importarono i concetti di codifica, immagazzinamento e
recupero delle informazioni dal modello di processamento delle
informazioni della psicologia cognitiva (Goldfried, 2003). Così, nonostante
le differenze tra le varie terapie cognitivo-comportamentali, si è creato un
accordo riguardo alle componenti della cognizione, il loro ruolo nel
funzionamento umano e la loro relazione col cambiamento in psicoterapia.
Specificatamente la cognizione consiste in idee, credenze e assunzioni che
mediano il condizionamento classico e operante e quindi la relazione tra
stimoli e comportamento. Importante per il concetto di insight è il consenso
sul fatto che la comprensione di sé può portare direttamente al
cambiamento terapeutico (Westerman, 1989).
Uno dei maggiori esponenti della terapia cognitivo-comportamentale
che usò esplicitamente il concetto di insight fu Ellis (1962). Egli praticò
inizialmente la psicoanalisi freudiana, ma a causa dell’insoddisfazione per i
risultati ottenuti con i pazienti passò alla psicoterapia a orientamento
59
psicoanalitico; perciò il suo significato di insight è mutuato da queste
scuole psicoterapeutiche. Ellis però iniziò a ritenere che l’insight sulle
origini precoci dei disturbi, così come è inteso dalla psicoanalisi, da solo
non può portare l’individuo a superare i suoi problemi, che sono sostenuti
da emozioni, sentimenti e pensieri profondamente radicati, ma è necessaria
anche una azione diretta a combatterli. Perciò, in base alla sua esperienza
che si basa sull’idea che
clinica, elaborò una psicoterapia razionale-emotiva
i disturbi emotivi o psicologici sono ampiamente il prodotto dei pensieri
illogici o irrazionali del paziente, che egli ha appreso precocemente a causa
delle pressioni dei genitori e della società e che attualmente mantiene
di
attraverso un processo di autosuggestione (Ellis, 1962). L’obiettivo
questa terapia è insegnare ai pazienti a percepire o a considerare i loro
eventi e la loro filosofia di vita sotto una nuova luce e a modificare in tal
modo i loro pensieri, emozioni e comportamenti non realistici e illogici
(Ellis, 1959). Ciò avviene attraverso un attacco diretto e inequivocabile alle
idee irrazionali stesse e attraverso l’acquisizione da parte del paziente di un
sul proprio processo autosuggestivo e l’impiego di questo
chiaro insight
insight per contrastare e mettere in discussione efficacemente le
autosuggestioni negative e autodistruttive.
Ellis (1963) propose una distinzione tra insight intellettuale ed emotivo
nella REBT (Rational-Emotional Behavioral Therapy, terapia
Nell’insight
comportamentale razionale-emotiva). intellettuale il paziente
riconosce che le sue credenze sono erronee e che il suo comportamento è
controproducente e desidera cambiare, ma non fa sforzi consistenti in
questa direzione. Invece nell’insight emotivo il paziente desidera cambiare
60
i suoi modi di base di pensare e agire, ma crede anche pienamente di
In altre parole, l’insight
poterlo fare e lavora al cambiamento. intellettuale è
la comprensione del paziente dell’irrazionalità del suo comportamento e
della ragione per cui ha iniziato e continua tuttora ad avere un
comportamento disfunzionale, ma non è generalmente curativo. Un
paziente nevrotico necessita un insight emozionale prima di capire
veramente ciò che è sbagliato e cambiare il suo pensiero e il suo
comportamento. Prima che ciò avvenga devono però sussistere alcune
condizioni: il paziente deve avere un qualche grado di insight intellettuale,
deve comprendere che il suo comportamento attuale ha cause antecedenti e
ammettere che ora sta facendo egli stesso qualcosa per sostenere il suo
disturbo appreso precocemente, deve capire che può fare qualcosa per
cambiare e attivare la sua determinazione a sradicare le sue false credenze,
modificando le assunzioni su cui sono basate e agendo deliberatamente in
un modo che le contraddice. L’insight emozionale è perciò un processo a
più componenti che coinvolge vedere e credere, pensare e agire, desiderare
e praticare. Include una complessa sequenza di pensiero e azione, che inizia
con un qualche tipo di comprensione intellettuale e prosegue con un’ampia
catena di comportamenti che, se interrotta in un punto qualsiasi, si spezza e
non può mai ripararsi con un livello puramente intellettuale (Ellis, 1963).
Contemporaneamente alle teorizzazioni di Ellis, un altro psicoterapeuta
di origine psicoanalitica, Beck (1976), fondò un approccio terapeutico
cognitivo basato sulla teoria degli schemi, secondo la quale esiste una
connessione tra disturbi psicologici e del pensiero. In particolare l’ansia e
la depressione sono caratterizzate da pensieri automatici negativi e
61
distorsioni interpretative che derivano dall’attivazione di convinzioni
negative immagazzinate nella memoria a lungo termine. Lo scopo della
psicoterapia cognitiva è diventare consapevole, cioè avere un insight, sui
propri pensieri e convinzioni negative, per modificarli e di conseguenza
modificare i relativi comportamenti associati. In questo senso tale
approccio è simile a quello di Ellis (1962).
Secondo la teoria di Beck (1976) i disturbi emozionali sono legati
all’attivazione di schemi disfunzionali, cioè strutture mnestiche che
contengono due tipi di informazione: le convinzioni, cioè costrutti di base
riguardanti sé e il mondo che hanno carattere assoluto e generale e sono
considerati veri e gli assunti, che sono invece relativi e specifici e
rappresentano relazioni particolari fra eventi e valutazioni riferite a sé.
Quando gli schemi disfunzionali si attivano, introducono delle distorsioni
nell’elaborazione e nell’interpretazione delle informazioni provenienti
dall’esterno e dal proprio mondo interno, che si manifestano a livello
superficiale sotto forma di pensieri automatici negativi all’interno del
flusso della coscienza. Un cambiamento cognitivo più significativo, o un
più profondo, ha luogo secondo Beck con l’identificazione delle
insight
assunzioni che stanno sotto le distorsioni cognitive.
I modelli di Ellis (1962) e Beck (1976) vengono anche definiti terapia
cognitiva standard. All’inizio degli anni Ottanta cominciò ad esserci
insoddisfazione riguardo al paradigma epistemologico alla base della
psicoterapia cognitiva e si avvertiva la necessità di una rottura rispetto alla
terapia cognitivo-comportamentale. Uno dei primi autori che teorizza un
cambiamento in questo senso è Mahoney (1980), il quale critica il fatto che
62
la terapia cognitivo-comportamentale tende a ignorare o minimizzare la
rilevanza dei processi inconsci e a considerare le emozioni come
sottoprodotto delle convinzioni, vede tutti i processi cognitivi come
risposta allo stimolo, implica un isomorfismo pensiero-linguaggio,
enfatizza la razionalità come fattore di adattamento, ha una visione ristretta
della relazione terapeutica. Questi sei punti si pongono come una nuova
proposta per la terapia cognitiva.
Il primo tentativo di realizzare il programma di Mahoney fu quello di
Guidano e Liotti (1983). Il loro modello si basa su tre assunti fondamentali:
l’assunzione di una prospettiva evoluzionista che considera la conoscenza
umana come un prodotto dell’evoluzione biologica, la concezione che la
conoscenza è un processo dinamico e che la percezione di discrepanza è ciò
che spinge il sistema, cioè il soggetto, a costruire nuove strutture
gerarchiche per tornare alla coerenza. Da qui deriva una formulazione
teorica in base alla quale la conoscenza si divide in due parti, una tacita
appercettiva, preattentiva, preverbale e costituita da schemi emotivi e
senso-motori e una esplicita, conscia, che opera attraverso il linguaggio.
L’esperienza cosciente umana emerge perciò da processi inconsci. La
Guidano e Liotti è l’emergere
seconda formulazione teorica del modello di
dell’esperienza di identità personale, cioè di unicità e continuità del sé,
inteso come un processo dinamico emergente dal continuo e coerente
ordinamento compiuto dalle strutture di significato. La sofferenza psichica
è spiegata come non-integrazione, cioè il fallimento delle strutture
cognitive della coscienza a organizzare adeguatamente l’informazione
emergente dai processi taciti inconsci.
63
A livello epistemologico, il lavoro di Guidano segna un passaggio dal
paradigma empirista associazionista nordamericano a quello costruttivista
anglosassone, permettendo di sviluppare un approccio terapeutico definito
dall’autore “post-razionalista”, poiché ha come base filosofica il
razionalismo critico di Bertrand Russell.
Diverse critiche sono state fatte ai modelli cognitivi del disturbo
psichico poiché tendono a descrivere i fenomeni clinici, invece di offrire
una spiegazione più profonda dei meccanismi di interazione fra le
convinzioni e il funzionamento del sistema di elaborazione delle
informazioni delle persone con disturbi emozionali. La teoria degli schemi
e la psicoterapia cognitiva si sono concentrate principalmente sul contenuto
delle cognizioni a livello di conoscenze, convinzioni e valutazioni. Hanno
dato importanza all’origine del contenuto dei pensieri, mentre hanno
ignorato la forma che i pensieri negativi assumono e i meccanismi che
conferiscono ai pensieri disfunzionali la loro salienza. Non è stata data la
giusta considerazione ad aspetti più generali della cognizione, come la
metacognizione, l’attenzione, la regolazione e gli aspetti dinamici
dell’elaborazione delle informazioni. La teoria degli schemi, quindi, spiega
il contenuto dei pensieri, ma non le ragioni alla base di un certo stile di
pensiero, che può essere un fattore chiave nei disturbi psicologici.
2. Terapie cognitive di seconda generazione: la metacognizione
Per sopperire ai limiti delle teorie cognitive standard, nella seconda
metà del 900 emerge un nuovo approccio basato su un modello
64
comprensivo che collega molteplici dimensioni della cognizione, in
all’autoregolazione e all’emozione. Questo
particolare la metacognizione
nuovo paradigma, definito teoria e terapia metacognitiva, è utile per
concettualizzare e trattare un ampio range di disordini (Wells 1995) ed è
costruito sul modello della funzione autoregolatoria di Wells (Wells,
Matthews 1994) e sui successivi modelli metacognitivi (Wells 1995, 2009),
sul principio di base secondo il quale ‘‘le persone rimangono
che si basano
intrappolate in disturbi emotivi perché le loro metacognizioni causano un
particolare pattern di risposta alle esperienze interne che mantiene
l’emozione e rafforza le idee negative” (Wells 2009, p. 1).
La metacognizione è l’insieme delle abilità che consentono di attribuire
e riconoscere la presenza di stati mentali, per esempio emozioni, pensieri e
desideri, in noi stessi e negli altri (Dimaggio, Semerari, 2003). Grazie a
questo riconoscimento è possibile riflettere e ragionare su questi stessi stati
mentali.
Le abilità metacognitive sono divise in tre aree: autoriflessività, cioè le
abilità che consentono di riflettere e ragionare su se stessi; comprensione
della mente altrui, le abilità che permettono di riflettere e ragionare sugli
stati interni e il comportamento delle altre persone; funzioni di mastery,
cioè le abilità che consentono di gestire gli stati mentali problematici.
Secondo la definizione di Moses e Baird (2001) il concetto di
metacognizione è un concetto composito, infatti comprende le conoscenze
o convinzioni, i processi e le strategie che valutano, monitorano o
controllano la cognizione. La maggioranza dei teorici distingue tra due
aspetti della metacognizione: la conoscenza metacognitiva e la regolazione
65
metacognitiva. La conoscenza metacognitiva coincide con le informazioni
che ogni persona ha in merito alla cognizione in generale e alla sua in
particolare. Flavell (1979) divide ulteriormente la conoscenza
metacognitiva in conoscenza delle persone, dei compiti, delle strategie e
delle loro interazioni. La regolazione metacognitiva riguarda invece una
gamma di funzioni cognitive superiori, come la distribuzione
dell’attenzione, il monitoraggio, il controllo, la pianificazione e la
rilevazione degli errori nella prestazione (Brown, Bransford, Campione et
al., 1983). Questi processi cognitivi operano su due livelli, il metalivello e
il livello oggetto (Nelson, Narens, 1990). Esistono così due processi che
corrispondono alle direzioni del flusso di informazioni fra i due livelli: il
monitoraggio, in cui le informazioni vanno dal livello oggetto al
metalivello e informano quest’ultimo sullo stato del primo e il controllo, in
cui le informazioni vanno dal metalivello al livello oggetto e lo informano
su cosa fare. La relazione fra un metalivello e un livello oggetto può essere
applicata alla comprensione delle cognizioni nei disturbi psicologici. Gli
errori o le distorsioni del monitoraggio potrebbero contribuire alla
disfunzione psicologica. I disturbi o i bias che riguardano il controllo, per
esempio la scelta di certe strategie di fronteggiamento inappropriate,
possono dare un contributo ai disturbi psicologici.
Secondo Wells (1995) si possono distinguere tre varietà fondamentali di
metacognizione.
Le conoscenze metacognitive si dividono in esplicite, che sono consce e
possono essere espresse a parole e implicite, che non sono accessibili alla
66
coscienza e non possono essere espresse in forma verbale; queste sono le
piani che guidano l’elaborazione delle informazioni.
regole o i
Le esperienze metacognitive sono le valutazioni circa il significato di
eventi mentali specifici, le sensazioni metacognitive e i giudizi sullo stato
della cognizione. Queste possono essere connesse ai disturbi emozionali in
vari modi poiché vari disturbi sono associati a giudizi e valutazioni
metacognitive negative. Due tipi di informazioni sono alla base dei giudizi
metacognitivi: le impressioni e le sensazioni momentanee e le teorie
ingenue o implicite, che sono più stabili (Nelson, Kruglanski, Jost, 1998).
Wells e Matthews (1994) hanno applicato ai disturbi psicologici l’idea che
le sensazioni forniscano informazioni metacognitive. In particolare, a
livello implicito, l’emozione può distorcere la selezione dei piani di
elaborazione delle informazioni, mentre su un piano più esplicito, i pazienti
con disturbi emozionali tendono a utilizzare alcune informazioni basate
sulle sensazioni come guide per valutare il pericolo e per regolare
l’esecuzione di strategie di fronteggiamento.
Le strategie di controllo metacognitive sono risposte che le persone
emettono per controllare le attività del loro sistema cognitivo. Nei disturbi
clinici spesso consistono in tentativi di controllare il flusso della coscienza.
Da queste teorizzazioni emerge il modello della funzione
Matthews, 1994) che si fonda su un’architettura
autoregolatoria (Wells,
formata da tre livelli interagenti di cognizione. Al primo livello si trova una
rete di unità di elaborazione inferiore e guidata dallo stimolo, che funziona
al di fuori della consapevolezza cosciente. Il secondo livello è costituito
dall’elaborazione controllata on-line, che partecipa alla valutazione
67
cosciente degli eventi e al controllo dell’azione e del pensiero. Il terzo
livello consiste in un magazzino di conoscenze su di sé, o convinzioni nella
memoria a lungo termine che hanno una componente metacognitiva e
consistono, almeno in parte, in piani di elaborazione.
Questa architettura supporta l’intera gamma di operazioni di elaborazione
disponibili all’individuo, ma possono essere eseguiti modi e configurazioni
differenti. Il termine modo indica la prospettiva assunta dalla persona nei
confronti dei suoi pensieri e delle sue convinzioni. Nel modo oggetto le
percezioni e i pensieri vengono presi come rappresentazioni degli eventi
accurate e libere da valutazioni. Nel modo metacognitivo la persona è
distaccata dai suoi pensieri, che possono quindi essere valutati. Il termine
configurazione indica il modello di processi cognitivi che sono attivi a un
certo momento. La configurazione di maggiore interesse per i disturbi
psicologici è quella della funzione autoregolatoria che è intimamente
connessa all’elaborazione di informazioni rilevanti per il Sé. Essa svolge la
funzione cognitiva superiore, governata dagli scopi di ridurre le
discrepanze esistenti fra una rappresentazione dello stato attuale del Sé e
una rappresentazione desiderata o normativa. In condizioni normali gli
episodi di attività della funzione autoregolatoria on-line sono di breve
durata, ma quando una persona ha un disturbo psicologico non riesce a
conseguire lo scopo dell’autoregolazione e la configurazione della funzione
autoregolatoria diventa persistente.
Secondo il modello della funzione autoregolatoria la sofferenza psicologica
è fortemente associata a una sindrome cognitivo-attentiva , che consiste in
catene di pensiero verbale in forma di preoccupazione e ruminazione, una
68
tendenza a focalizzare l’attenzione sulla minaccia o sul monitoraggio della
minaccia e in strategie di coping cognitivo-comportamentali che hanno
effetti paradossali. Questa sindrome è causata e mantenuta da credenze
sottostanti sul pensiero o sulle conoscenze metacognitive positive e
negative.
Sul modello della funzione autoregolatoria si fonda la teoria
metacognitiva dei disturbi psichici , in particolare all’inizio riferita al
disturbo d’ansia generalizzata (Wells, 1995), la quale propone che la
preoccupazione patologica è il risultato specifico di credenze negative sulla
preoccupazione e di controproducenti strategie di controllo mentale.
Le credenze negative portano a giudizi negativi dell’esperienza della
preoccupazione come incontrollabile e pericolosa. Queste interpretazioni
negative sono chiamate “meta-preoccupazioni” e causano un’escalation
dell’ansia per cui la minaccia appare più imminente ed emergente dalla
preoccupazione in sé . Le credenze negative sulla preoccupazione minano il
senso di sicurezza delle persone e la loro confidenza nel coping, che prima
era fornita dalle credenze positive sulla preoccupazione. Esiste cioè uno
stato di dissonanza nelle credenze sulla preoccupazione, che interferisce
con l’uso delle forme efficaci di controllo mentale. Gli individui con
disturbi psichici, in particolare il disturbo d’ansia generalizzato, vacillano o
mostrano motivazioni contrastanti nell’impegnarsi nella preoccupazione da
una parte o evitare o controllare l'attività dall'altra; preferiscono non
innescare la preoccupazione che significa cercare di sopprimere dubbi
iniziali o pensieri riguardanti argomenti preoccupanti. Questo è raramente
e contribuisce a un’altra forma di
del tutto efficace (Wegner, 1994) 69
perseverazione sull’argomento, rafforzando così le convinzioni negative
sull’incontrollabilità del pensiero. Secondo gli autori quando un pensiero
non può essere soppresso la persona con disturbo d’ansia non interrompe o
ferma il processo di preoccupazione, ma utilizza un incremento del
pensiero come mezzo per ridurre il pensiero, creando così un paradosso
nella regolazione mentale. Questo fallimento nel disimpegnarsi dal
pensiero esteso priva la persona della possibilità di modificare le credenze
erronee sull’incontrollabilità della preoccupazione .
In aggiunta a questi pattern di controllo del pensiero, anche comportamenti
espliciti contribuiscono al mantenimento del problema. Tentativi comuni
per prevenire la preoccupazione o i pericoli che si ritiene siano associati
con questa consistono in chiedere rassicurazione o evitare informazioni che
potrebbero scatenare preoccupazione. Il problema del cercare
rassicurazioni è che ciò trasferisce il controllo della preoccupazione a
qualcun altro e l’individuo fallisce nello scoprire che ha un controllo
interno. In alcuni casi c’è una strategia di ricerca delle informazioni, ma
spesso si trovano informazioni negative o si generano ulteriori domande
che innescano nuovi attacchi di preoccupazione. In ogni caso l’individuo
non applica la più appropriata o efficace forma di controllo metacognitivo e
ciò accade a causa della mancanza di conoscenza di strategie alternative.
L’obiettivo della terapia metacognitiva (Wells 2009) è rimuovere la
sindrome in risposta ai pensieri ed esperienze negative facendo emergere la
consapevolezza di questo processo, cioè generando un insight su tale
processo e così potenziandone il controllo selettivo. Per facilitare l’insight,
la terapia metacognitiva si focalizza sulla modificazione delle credenze
70
metacognitive. Il terapeuta assiste il paziente nello sviluppo di stili di
risposta più flessibili alle idee e pensieri negative così può diventare meno
dipendente da schemi fissi di pensiero e di controllo mentale come mezzo
per far fronte a disturbi emozionali. In questo approccio, quindi, il
terapeuta non cambia il contenuto dei pensieri, come è tipico delle terapie
cognitive classiche, ma aiuta il paziente a riconoscere le catene inutile di
perseverazione e controllo mentale disfunzionale e poi li riporta sotto il
controllo adattivo.
La terapia metacognitiva segue una sequenza di stadi (Wells, 1997).
Inizialmente il terapeuta e il paziente lavorano assieme per costruire una
concettualizzazione del caso singolo basata sul modello metacognitivo,
cioè esaminando le caratteristiche di un recente episodio di preoccupazione
stressante il terapeuta fa emergere il ruolo delle credenze metacognitive,
diversi tipi di preoccupazione e i meccanismi di mantenimento. Il passo
successivo consiste nell'introdurre il concetto di meta- preoccupazione e di
credenze sulla preoccupazione. Il terapeuta usa i dialoghi socratici e gli
scenari ipotetici per illustrare come le credenze metacognitive
contribuiscono al problema con la preoccupazione. In seguito il terapeuta si
focalizza sulla modificazione delle credenze riguardo l’incontrollabilità
della preoccupazione, suggerendo che il problema è che il paziente non ha
usato la più efficace forma di controllo. Questo è seguito dall’introduzione
dell’idea di stato mentale distaccato (Wells, Matthews, 1994), che consiste
nell’essere consapevole dei pensieri che innescano la preoccupazione e nel
non impegnarsi nella preoccupazione o alcuna forma di soppressione o
ricerca di informazioni. 71
3. Terapie cognitive di terza generazione: la mindfulness
Nel corso degli ultimi anni sono emerse un certo numero di terapie
cognitive che non si adattano facilmente alle categorie tradizionali, poiché
non appartengono né alle terapie di prima generazione né a quelle di
seconda generazione. Queste nuove terapie cognitivo comportamentali si
basano sul concetto di mindfulness, in particolare la Mindfulness Based
Cognitive Theraphy (MBCT; terapia cognitiva basata sulla mindfulness;
Segal, Williams, Teasdale, 2002), che assieme alla Mindfulness Based
Stress Reduction (MBSR; riduzione dello stress basata sulla mindfulness;
all’Acceptance
Kabat-Zinn, 1982), and Commitment Therapy (Hayes,
Wilson, 1994) e alla Dialectical Behavior Therapy (Linehan, 1993) sono
“Terapie cognitive di terza ondata” (Hayes,
definite collettivamente come
2004) e hanno fornito un’iniziale operazionalizzazione cognitiva della
mindfulness , sulla quale si basa gran parte della letteratura psicologica
attuale.
Il concetto di mindfulness deriva dalla tradizione meditativa buddista
ed è classicamente definita come consapevolezza, nei termini di maggiore
accettazione e minore tendenza al giudizio. È uno stato di presenza mentale
che permette di vedere i fenomeni interni ed esterni così come realmente
sono e distinguere tra i fenomeni e le proprie proiezioni e distorsioni
Epstein (1995) l’ha definita
mentali (Thera, 1973; Tsoknyi, 1998).
“attenzione pura”, che implica il prestare intenzionalmente attenzione
costante a un'esperienza sensoriale, cognitiva ed emotiva, senza elaborarla
o giudicare alcuna parte di tale esperienza (Kabat-Zinn, 1994), ma ciò che
72
viene sperimentato è semplicemente registrato (Brown, Ryan, Creswell,
2007).
L’obiettivo della pratica della mindfulness è raggiungere una maggiore
chiarezza riguardo a ciò che deve essere fatto (azioni e pensieri salutari) e
ciò che non dovrebbe essere fatto (azioni e pensieri non salutari)
(Dhammika, 1990), attraverso lo sviluppo della consapevolezza delle
proprie intenzioni, pensieri, emozioni, parole e azioni e dell’impatto che
hanno su noi stessi e sugli altri. Mira all’eliminazione di un tipo di
sofferenza che si suppone derivi da una scorretta comprensione della realtà,
per questo usa tecniche che non riguardano la modificazione di situazioni
esterne, ma la modificazione di specifici stati cognitivi ed emotivi interni.
Nella psicologia moderna la mindfulness è intesa come consapevolezza
che emerge dal prestare attenzione di proposito, nel momento presente e in
maniera non giudicante, allo scorrere dell’esperienza, momento dopo
momento (Kabat-Zinn, 2003). Germer (2005) la definisce brevemente
come “consapevolezza dell’esperienza presente con accettazione” (p. 5), al
di là delle idee e dei preconcetti che si hanno riguardo a ciò che sta
avvenendo. distinguono due tratti distintivi dell’esperienza di
Bishop et al (2004)
mindfulness: l’autoregolazione dell’attenzione verso il momento presente e
l’adozione di una particolare attitudine caratterizzata da curiosità, apertura
e accettazione.
Shapiro (Shapiro, Carlson, Astin, Freedman, 2006) aggiunge a queste una
terza componente, l’intenzione, cioè la motivazione. Assieme queste
portano ad avere una maggiore autoregolazione emozionale, alla
73
chiarificazione dei propri valori, alla conquista di una flessibilità
comportamentale e della capacità di esporsi al materiale mentale e alle
situazioni esterne precedentemente temute.
Teasdale et al (2002) definiscono la mindfulness all’interno della struttura
teorica del cognitivismo contemporaneo come forma di consapevolezza
metacognitiva, cioè processo di sperimentazione dei propri pensieri ed
emozioni da una prospettiva decentrata. È diversa dalla metacognizione,
che è la capacità di riflettere e criticare le proprie cognizioni, poiché la
mindfulness è una modalità specifica di attenzione alle esperienze del
momento presente, caratterizzata dallo sviluppo di una crescente abilità di
disidentificarsi dai propri contenuti mentali precedentemente scambiati per
la realtà e da un concomitante incremento dell’abilità di vivere l’esperienza
com’è in ogni dato momento.
così Molti processi psicologici sono associati alla mindfulness, sia essa
considerata un costrutto, una pratica o un processo, anche se tale ricerca è
ancora aperta e non è ancora chiaro se questi siano reali mediatori della
relazione tra mindfulness e cambiamento comportamentale. Il più
comunemente citato di questi processi è il rilassamento (Dunn, Hartigan,
Mikulas, 1999), sebbene sia stato suggerito che questo sia solo un effetto
benefico collaterale e non un processo centrale (Baer, 2003), dal momento
che la meditazione mindfulness implica essere aperto a qualunque cosa sia
sperimentata, piuttosto che il tentativo di cambiare lo stato di arousal
dell’individuo. Kabat- Zinn (2003) ha esplicitamente dichiarato che la
pratica meditativa mindfulness non mira a produrre il rilassamento, ma
74
piuttosto ha lo scopo di coltivare l’insight e la comprensione attraverso
l’esperienza diretta di ogni momento, senza giudizio o elaborazione.
dell’insight
La mindfulness può facilitare in particolare lo sviluppo
metacognitivo (Bishop, Lau, Shapiro et al., 2004; Mason, Hargreaves,
2001; Teasdale, 1999), per cui i pensieri sono percepiti come eventi mentali
transitori e inconsistenti piuttosto che accurate rappresentazioni della realtà.
Anche la riduzione della ruminazione può risultare dalla pratica della
mindfulness (Kumar, Feldman, Hayes, 2008), che dà anche una bassa
regolazione dei sistemi di attivazione della difesa incrementando così il
comportamento adattivo (Lanius, Lanius, Fisher, Ogden, 2006).
Soprattutto, la meditazione mindfulness può migliorare i livelli di
accettazione delle proprie esperienze (Brown, Ryan, 2004; Roemer,
1995), in contrasto all’abituale
Orsillo, 2002; Teasdale, Segal, Williams,
risposta con reazioni appetitive ed evitanti.
È stato dimostrato che la mindfulness facilita l’autoregolazione
attenzionale e la regolazione emozionale (Kabat-Zinn, 1994). La
consapevolezza non giudicante può facilitare un sano coinvolgimento nelle
emozioni (Hayes, Feldman, 2004), permettendo agli individui di
sperimentare ed esprimere genuinamente le loro emozioni (Bridges,
(cioè evitare l’esperienza;
Denham, Ganiban, 2004) senza sotto-impegnarsi
Hayes, Wilson, Gifford et al, 1996, e sopprimere il pensiero; Wegner,
1994) o iper-impegnarsi (cioè preoccuparsi ; Borkovec, 1994, e ruminare;
Nolen- Hoeksema, 1998). Questi esiti sono dati dal cambiamento della
relazione di un individuo con la sua stessa esperienza (Ivanovski, Malhi,
75
Tuttavia l’esatta relazione tra la mindfulness e le strategie di
2007).
regolazione emozionale rimane poco chiara.
La Terapia Cognitiva Basata sulla Mindfulness (MBCT) è un
protocollo della durata di 8 settimane (Segal, Williams, Teasdale, 2002)
basato largamente sul programma MBSR di Kabat-Zinn (1990), che
comprende pratiche di consapevolezza come la meditazione seduta, il body
scan e lo yoga. A queste integra elementi della terapia cognitiva che
facilitano una visione distaccata e decentrata dei propri pensieri, delle
proprie emozioni e delle sensazioni corporee. Questo genera un insight che
libera i pazienti dalle costrizioni dei loro pensieri, modificando il loro
rapporto con le proprie cognizioni. La MBCT infatti è progettata per
prevenire le ricadute depressive insegnando precedentemente agli individui
depressi a osservare i loro pensieri e sentimenti senza giudicarli, e a vederli
semplicemente come eventi mentali che vanno e vengono, piuttosto che
aspetti di se stessi o come riflessioni necessariamente accurate della realtà.
Questo atteggiamento verso l’espressione delle cognizioni si crede
prevenga l’escalation di pensieri negativi in pattern ruminativi (Teasdale,
Segal, Williams, 1995).
Ci sono altri interventi catalogati sotto l’etichetta “interventi basati
sulla mindfulness”, che possono essere largamente basati sulla pratica
meditativa, come la MBCT, oppure meno (Chiesa, Malinowski, 2011) e
quindi sono più simili ai tradizionali approcci cognitivi.
La Spiritual Self focus Schema Therapy è una integrazione della Self focus
Schema Therapy (Young, Klosko, Weishaar, 2003) con la tradizione
76
buddista delle pratiche di consapevolezza (Nikaya, 2001) e il suo obiettivo
è sostituire gli schemi disfunzionali con lo “schema spirituale”.
La Prevenzione delle Ricadute basata sulla Mindfulness (Witkiewitz,
Marlatt, Walker, 2005) unisce le pratiche di meditazione basate sulla
mindfulness, che hanno lo scopo di incrementare la consapevolezza e
l’accettazione degli stati fisici ed emotivi spiacevoli, con alcuni elementi di
psicoeducazione e di esercizi pratici derivati dalla terapia cognitiva
proposta negli anni ’80 da Marlatt (Marlatt, Gordon, 1985) per gli abusatori
di sostanze.
La Terapia Comportamentale basata sull’Accettazione (Roemer, Orsillo,
2005) comprende sessioni di psicoeducazione ed esercizi tratti dalla terapia
cognitiva tradizionale, dalla MBSR e dalla MBCT, aventi lo scopo di
promuovere la consapevolezza e l’accettazione del momento presente come
alternativa al desiderio di controllo e di volontà di cambiare le esperienze.
77
Capitolo 4. L’insight nelle terapie sistemiche
1. La terapia sistemica famigliare
L’interesse per lo studio della famiglia nacque negli anni cinquanta
quando si cominciò ad osservare la sintomatologia dei pazienti nel loro
ambiente naturale, anziché nello studio del medico. Il movimento della
terapia della famiglia crebbe poi in diversi ambienti e grazie a diversi
professionisti, soprattutto ricercatori (Guerin, 1978). Essi consideravano la
famiglia come sistema, cioè un’entità le cui parti siano covarianti l’una con
l’altra e che mantenga l’equilibrio.
Studiando i pazienti con schizofrenia in un grande progetto di ricerca
sui livelli della comunicazione umana, Bateson e i suoi collaboratori
notarono come, nel contesto famigliare, se il paziente migliorava, qualcun
altro della famiglia peggiorava. Per questo il gruppo di Bateson identificò
l’idea della famiglia come entità di mantenimento dell’equilibrio (Haley,
1964). In particolare Jackson coniò il termine “omeostasi della famiglia” e
descrisse l’interazione famigliare come un sistema di informazione chiuso,
in cui le variazioni di output o di comportamento subiscono un feedback
allo scopo di correggere la risposta del sistema (Jackson, 1957). Haley
sviluppò ulteriormente questo concetto arrivando a formulare la prima
che afferma che “quando una persona mostra
legge delle relazioni umane,
un cambiamento in relazione ad un’altra, quest’ultima agirà sulla prima in
modo tale da diminuire o modificare quel cambiamento” (Haley, 1963).
78
Altri ricercatori con una formazione più di tipo clinico, come Murray
Bowen, hanno ricoverato, a scopo di osservazione e cura, intere famiglie in
cui uno dei membri era schizofrenico. Bowen formulò le idee di
trasmissione plurigenerazionale della malattia emotiva, l’importanza di
lavorare con le famiglie di origine e il concetto di differenziazione (Bowen,
1978). Uno dei maggiori contributi di Bowen alla teoria della famiglia è
però il suo studio sul ruolo dei triangoli nelle interazioni famigliari. La
triangolazione è un processo che si verifica in tutte le famiglie e in tutti i
gruppi sociali, come forma di interazione a due che porta all’esclusione di
un terzo o che agisce direttamente contro di lui. Se in un sistema emotivo
bipersonale sorge una tensione, il membro della coppia che è più a disagio
allevia lo stress triangolando, cioè coinvolgendo, una terza persona
(Bowen, 1966).
Da questi primi concetti si svilupparono negli Stati Uniti diversi
indirizzi di terapia della famiglia. Tra questi l’approccio ecologico-
sistemico di Auerswald, collaboratore di Salvador Minuchin in un
programma di ricerca teso a studiare e lavorare con le famiglie di ragazzi
delinquenti nella seconda metà degli anni sessanta, si rivolge al campo
totale di un problema includendo altri professionisti, la parentela, le figure
della comunità e le istituzioni. Si creava così una nuova figura di
professionista della salute che abbia una visione olistica, sistemica del
problema (Auerswald, 1968).
Un altro approccio per la terapia della famiglia è quello strutturale di
Minuchin (1977). Secondo questo autore esiste un modello normativo di
famiglia che funziona bene, cioè organizzata in modo appropriato con
79
confini chiaramente delineati. Il terapeuta ha il compito di individuare il
grado di deviazione della famiglia che gli si presenta da questo modello e
di riprogettare l’organizzazione famigliare per far sì che vi aderisca
maggiormente.
Nel 1968 la terapia della famiglia comincia ad essere praticata anche in
Europa grazie al cosiddetto gruppo di Milano, fondato da Mara Selvini
Palazzoli, psicoanalista che a causa dei suoi risultati scoraggianti aderisce
alle idee del gruppo di Palo Alto di Bateson (Selvini Palazzoli, 1978). Il
gruppo utilizza un approccio definito sistemico e chiama il proprio
trattamento una lunga terapia breve, poiché le sedute sono ad intervalli
mensili o più, perciò il tempo di riorganizzazione della famiglia può essere
molto lungo (Selvini Palazzoli, 1980).
Al centro del pensiero di questi ricercatori è il processo di causalità
circolare derivato da Bateson, che si contrappone al pensiero lineare
aristotelico, per cui è possibile ricostruire storicamente da cosa è causato un
evento e cosa questo provoca a sua volta in un procedere sempre nella
stessa direzione. Il concetto di causalità circolare invece implica che, in una
famiglia, il comportamento di ognuno dei membri influenza quello degli
altri e ne è a sua volta influenzato, formando così una catena di cui non è
più individuabile l’origine né la fine. L’approccio sistemico indica così che
ciò su cui il terapeuta deve intervenire è il gioco famigliare, cioè quella
catena di comportamenti per cui ciascun membro della famiglia cerca di
ottenere il controllo delle regole famigliari mentre nega di farlo. Per
cambiare il gioco famigliare il gruppo di Milano inventò lo stratagemma
terapeutico della connotazione positiva, cioè validava tutti i comportamenti
80
sintomatici di tutti i membri della famiglia, dicendo che apparivano dovuti
allo scopo comune di mantenere l’unione e la coesione del gruppo
famigliare (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin et al, 1975). Questa
strategia si abbina alla prescrizione paradossale, cioè una tecnica per cui il
terapeuta indica ai membri della famiglia dei comportamenti che
sembrerebbero controproducenti rispetto al problema presentato, allo scopo
di ristrutturare i rapporti. Questi interventi generano nei componenti della
famiglia reazioni di insight rispetto alle loro relazioni e comportamenti
problematici e ciò può aprire la strada al cambiamento.
Un’altra tecnica adottata dal gruppo di Milano nella conduzione delle
interviste, che hanno lo scopo di definire il problema per cui la famiglia
arriva in terapia, è quella del porre domande in modo circolare (Selvini
Palazzoli, Boscolo, Cecchin et al, 1980), cioè domande riguardanti una
differenza o che definiscono una relazione, oppure che si occupano del
prima e del dopo rispetto ad un evento. Le domande circolari in particolare
possono essere domande triadiche, in cui si chiede a una persona di
commentare la relazione tra altri due membri della famiglia, domande su
differenze nei comportamenti fra due o più persone, domande su
cambiamenti nel comportamento prima o dopo un evento specifico,
domande su circostanze ipotetiche, oppure graduatorie dei membri della
famiglia rispetto a un particolare comportamento o interazione. Questo tipo
di domande costringe le persone a soffermarsi a pensare, anziché agire in
modo stereotipato, producendo così una maggiore quantità di pensiero
differente, cioè circolare poiché contiene l’idea di legami che si basano su
81
prospettive di cambiamento e favorendo così gli insight su ciò che succede
nella famiglia e ciò che potrebbe cambiare la situazione.
Le domande circolari sono state oggetto di studio da parte di diversi autori.
Karl Tomm (1985) le ha divise in domande circolari informative e
riflessive in base all’intenzionalità del terapeuta nel porle. Le prime hanno
soprattutto l’obiettivo di raccogliere informazioni, mentre le seconde di
suscitare cambiamenti, anche se spesso hanno un carattere misto. La
distinzione più che nella formulazione sta nel timing del dialogo, cioè nel
momento in cui la domanda è posta. Viaro e Leonardi (1990) hanno
analizzato le domande circolari nei termini della teoria conversazionale,
ritrovando nei diversi tipi di domande i tre livelli della comunicazione
umana: descrizione, esperienza e spiegazione.
2. La terapia sistemica individuale
Sulla base dei successi del lavoro del gruppo di Bateson a Palo Alto e
del gruppo di Milano, l’approccio sistemico è stato introdotto anche nella
terapia individuale, considerando la persona come appartenente ad una rete
di relazioni che lo condizionano e su cui egli stesso esercita un’influenza
con i suoi comportamenti, anche se si presenta in terapia da solo (Boscolo,
Bertrando, 1996).
Questa unione fu avviata da Luigi Boscolo, che lavorava sia come
psicoanalista privato sia nel gruppo di Milano dove conduceva terapie di
coppia e famigliari. Egli iniziò ad introdurre alcune idee e tecniche
dell’approccio sistemico-strategico nelle terapie individuali a orientamento
82
psicodinamico, ma i primi casi così trattati non ebbero successo a causa di
differenze all’epoca presenti tra i due diversi tipi di terapia. In primo luogo,
nel modello psicodinamico il sintomo era considerato un epifenomeno di
l’obiettivo primario era la risoluzione dei conflitti
un conflitto inconscio e
più che la scomparsa dei sintomi. Nell’approccio strategico-sistemico,
basato sulla causalità circolare, il sintomo era invece considerato all’interno
di relazioni in cui i tentativi di soluzione diventavano il problema e perciò
l’obiettivo era rompere i rigidi pattern ripetitivi legati al sintomo, per far
emergere pattern più funzionali. Si deduce che la psicoanalisi usava
l’insight, cioè la presa di coscienza, come strumento terapeutico per
eccellenza, mentre la terapia sistemica usava le prescrizioni di
comportamenti per cambiare quelli indesiderati. In secondo luogo, nel
modello psicodinamico il terapeuta dedicava particolare attenzione
all’inconscio del paziente, che metteva in atto resistenze contro il lavoro
terapeutico di risoluzione dei conflitti inconsci. Nel modello strategico-
sistemico invece il terapeuta si occupava solamente del contesto relazionale
attuale e dei pattern comportamentali rigidi ripetitivi.
Successivamente il modello sistemico si aprì a considerare anche il mondo
interno dell’individuo e quindi i processi interni oltre a quelli esterni
(Breunlin, Schwartz, Mac Kune-Karre, 1992), arricchendosi dei contributi
del costruttivismo (Maturana, Varela, 1984) e del costruzionismo
(Hoffman, 1988) e della cibernetica di secondo ordine (Maruyama, 1963).
Il modo di lavorare con i singoli individui di Boscolo e di Bertrando
segue quindi il modello sistemico del gruppo di Milano, con lo scopo di
creare un contesto relazionale tra terapeuta e paziente di deutero-
83
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