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Oltre a venderlo, il pater familias avrebbe potuto cedere il nascituro e la moglie
(quest’ultima fino al parto) a quell’uomo che fosse stato privo di eredi e che si fosse mostrato
interessato a tenere il frutto di quella gravidanza: una sorta di utero in affitto diremmo oggi. In
altre parole si trattava di un prestito della donna gravida da parte del marito, con il quale
avrebbe contribuito al mantenimento della famiglia del richiedente. Ce ne danno un esempio:
Quintiliano (Istituzioni oratorie, III, 5, 11; X, 5, 13) in merito a Marcia, la feconda moglie di
Catone l’Uticense, ceduta ad Ortensio Ortalo, l’anziano oratore; e ancora Svetonio (Augusto,
62-71) a proposito di Augusto che, privo di eredi, decise di sposare Livia Drusilla, moglie di
Tiberio Nerone, già incinta.
3.c.Ius noxae dandi – Diritto di garanzia del danno
Alla mancipatio è collegato in parte lo ius noxae dandi, ovvero il diritto di garanzia
del danno (da noxa-ia = danno, colpa) cioè quel sistema che previde la consegna del
colpevole (vivo o morto, come vedremo più avanti) da parte del padre, a colui che avesse
subìto il danno per esonerarsi dalla responsabilità susseguente all’azione illecita, attuata non
da lui ma dal figlio. Infatti colui che avesse subito l’illecito, non potendo rivalersi
direttamente sul figlio, (che era soggetto al pater e che quindi non avrebbe potuto nemmeno
risarcirlo economicamente) lo faceva contro quel padre che lo avesse avuto in possesso. A
questo punto vi sono due possibilità: avrebbe potuto evitare la noxae deditio (la consegna del
figlio) pagando la poena pecuniaria (una somma di denaro) stabilita dal giudice a seconda del
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tipo di delitto. In età più avanzata tuttavia il padre poteva evitare di pagare il risarcimento con
la consegna del colpevole.
Si distinguono comunque due principi: uno datoci proprio dalla noxae deditio, l’altro
dal noxa caput sequitur (“le azioni nossali seguono la persona”) in base al quale colui che
avesse commesso il danno ne avrebbe avuto piena responsabilità, ma essendo alieni iuris
quella stessa responsabilità sarebbe ricaduta su chi avesse posseduto il ragazzo al momento
dell’azione e non su chi lo avesse in potestà al momento del delitto.
In presenza di una giusta causa il padre poteva anche decidere di uccidere quel figlio
che avesse commesso l’illecito (in base allo ius vitae ac necis, come stabilito dalle XII
Tavole) e consegnare il cadavere (o parte di esso) alla parte lesa, affinché il suo diritto fosse
soddisfatto. La morte naturale del colpevole avrebbe invece liberato il padre da qualsiasi
obbligo senza la successiva consegna del cadavere.
La noxae deditio aveva come fine la messa in servizio del reo (come forza lavoro) che
doveva avvenire tramite una definitiva mancipatio, almeno fino al tempo in cui visse il
giurista Gaio, alla metà del II sec. d.C. Solo nell’età successiva, per intervento del pretore,
colui che avesse avuto in mancipio il colpevole avrebbe avuto l’obbligo di manometterlo, se
non lo avesse già abbandonato, qualora avesse già ricavato dal suo lavoro un guadagno,
corrispondente alla somma che il pater avrebbe dovuto versargli al momento del delitto
(Papiniano, Collatio, II, 3, 1). In questo periodo si concesse anche al filius accusato di un
delitto la possibilità di potersi difendere qualora il padre non lo avesse fatto, ed evitare così la
sua consegna all’offeso.
Giustiniano poi abolì del tutto la pratica della noxae deditio, già in disuso, stabilendo
che la responsabilità del delitto sarebbe dovuta ricadere sempre e solo sul colpevole.
3.d.I peculia – i “piccoli patrimoni”
Così come sui discendenti il pater avrebbe avuto potere anche sui beni e sulla loro
gestione dalle origini fino all’età classica. Per quanto riguarda il patrimonio infatti egli era
proprietario assoluto e il filius non avrebbe potuto porvi mano, anche se comunque è indubbio
che esso fosse considerato come bene comune, da usare per il benessere della famiglia tutta. I
filii però avrebbero potuto contribuire, con opportuni acquisti, all’ampliamento del patrimonio
paterno.
Il padre di una qualsiasi famiglia, qualora ne avesse avuto la possibilità o la voglia,
avrebbe potuto inoltre aiutare il figlio economicamente e assicurargli un buon tenore di vita
fornendogli pensioni annue o mensili.
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Tale problema sicuramente doveva sorgere con una certa frequenza nelle famiglie
benestanti, delle classi dirigenti, poiché di fatto il figlio non avrebbe potuto accedere, senza
consenso del padre, alle cariche pubbliche il cui conseguimento e la cui gestione richiedevano
notevoli obblighi economici. Come abbiamo già detto, la patria potestas sarebbe cessata solo
alla morte del padre; per questo motivo il pater doveva concedere al figlio una libertà
economica di cui certamente necessitava. È a tal proposito che il padre avrebbe potuto
destinare al figlio un peculium: un piccolo patrimonio (Digesto, XV, 1, 5, 3) sul quale il figlio
avrebbe avuto piena amministrazione e godimento, ma non il possesso.
Il peculium poteva essere anche assegnato ad uno schiavo da parte del suo padrone
(peculium servorum). Molti giuristi hanno fornito una definizione di peculium, considerando
anche la tipologia destinata ai servi; Tuberone (in un frammento ripreso da Ulpiano e poi
rifluito in Digesto, XV, 1, 5, 4) lo definisce come: «Ciò che lo schiavo con il permesso del
padrone ha separato dai conti del padrone, indi dedotto ciò che si deve al padrone». Colui che
aveva la facoltà di separare le due contabilità, quella del servus e quella del dominus, sarebbe
stato il padrone stesso. Ulpiano (in Digesto XV, 1, 5, 3) lo definisce invece come: «piccola
quantità di denaro o piccolo patrimonio», ma questa affermazione non è del tutto corretta in
quanto esso spesso, e soprattutto nel caso del peculium servorum, dovette consistere in un
vero e proprio patrimonio, che avrebbe garantito loro il sostentamento. Infatti a testimonianza
di ciò lo stesso Ulpiano (Digesto XV, 1, 7, 4-5) parlando del peculium servorum, ci riferisce
anche che: «possono far parte del peculio tutte le cose sia mobili che terreni: i vicari [da
intendersi come schiavi dipendenti di un altro schiavo] e il peculio dei vicari: e di più anche
gli elenchi dei debitori [sia quelli che dovevano del denaro al padrone e sia quelli a cui lo
stesso schiavo aveva prestato denaro] […] (nel peculio sono calcolati): l’eredità e il legato,
come afferma Labeone». Il legato e l’eredità, autorizzati dal padre, facevano parte anche del
patrimonio del figlio.
Come già constatato, il filius avrebbe gestito il patrimonio costituito dal peculium, ma
non ne sarebbe stato il proprietario e perciò non avrebbe potuto né donarlo né dissiparlo;
considerato che nel patrimonio delle famiglie più agiate sarebbero rientrati anche i servi, il
figlio non avrebbe potuto manometterli, se non sotto esplicito consenso del padre o per una
giusta ragione. Il peculio sarebbe rimasto sempre nelle mani del figlio, tranne che per revoca
di concessione da parte dello stesso padre, che avrebbe potuto farlo in qualsiasi momento, a
partire dal II secolo a.C.
Il padre era responsabile, oltre che del peculium originario, anche degli incrementi
dovuti alla gestione del figlio, secondo l’actio de peculio introdotta da un editto pretorio e con
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la successiva actio quod iussu, che imponeva da parte del pater il soddisfacimento del credito
insoddisfatto dal filius o dal servus a quei terzi che avessero negoziato con gli stessi nel caso
in cui tali negozi fossero stati ordinati dal pater. Il creditore però, in caso di esaurimento del
peculio, non avrebbe avuto il diritto ad ottenere nulla.
Una variante di questo istituto era stabilita dall’actio de in rem verso, che imponeva al
figlio o al servo, che avevano ricavato da un affare in cui avevano impegnato il peculium un
qualche guadagno, di versare tale guadagno nel patrimonio paterno; di converso, colui che
avesse contratto un’obbligazione il figlio o lo schiavo avrebbe potuto agire contro il padre o il
dominus solo nei limiti dell’arricchimento conseguito da quello stesso affare. Inoltre sulla
base dell’actio tributaria il pretore stabilì che i creditori, fra i quali vi poteva essere anche lo
stesso pater-dominus, avrebbero potuto ricevere una percentuale del peculio (in base al
numero dei creditori) da parte dello stesso pater-dominus che avesse autorizzato il figlio-
servo ad esercitare con il peculio un’attività commerciale e si fosse reso insolvente nei loro
confronti.
Alle forme di peculio di cui abbiamo parlato, si aggiunse in età augustea il peculium
castrense che all’inizio comprese solo ciò che era stato acquisito nel corso del servizio
militare dal filius (Digesto, 49, 17, 11) poi passò ad indicare anche ciò che i genitori, i parenti,
gli amici avrebbero donato al soldato prima di partire per il servizio (cf. Paolo, Sentenze, 3, 4
A.3) e l’eredità destinatagli tramite testamento dalla moglie. Il primo a concedere il peculium
castrense ai soldati fu Augusto. Nerva e Traiano confermarono questo diritto e lo estesero
anche ai congedati dal servizio militare (Gaio, Istituzioni, II, 12).
Con la crisi della Repubblica e nella prima età imperiale, la leva si trasformò in un
vero e proprio mestiere retribuito e questo spiega la numerose immissioni nell’esercito di
persone di diverso status giuridico. Considerato il fatto che il figlio avrebbe potuto disporre di
un peculio, gli venne gradualmente concessa facoltà di donare il suo peculio, anche a causa di
morte, tra i vivi, vendere parte di esso (bottino, i premi, oggetti ecc.) e di manomettere gli
schiavi rendendoli suoi liberti.
Il padre, a differenza di quel peculium profecticium di cui abbiamo parlato prima, non
avrebbe potuto revocare il peculium castrense. In caso di morte del figlio, al padre sarebbe
spettato il patrimonio solo se questo non fosse stato intestato a terzi per iure peculi (“diritto di
peculio”) e non a titolo ereditario. Con Giustiniano, però, in caso di morte del figlio intestato,
si riconobbe la successione legittima dei figli e dei fratelli del defunto sul peculio castrense; e
solo in assenza di questi ultimi il peculio sarebbe stato destinato al padre.
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Costantino nel 326 d.C, riconobbe la facoltà di disporre del peculio castrense anche ai
funzionari della corte imperiale (palatini) per il servizio prestato appunto presso la stessa
corte, e di tenere per sé i guadagni e i donativi imperiali (Codice Teodosiano VI, 35, 15 [36, 1]
= Codice Giustinianeo XII, 30 [31]). Onorio e Teodosio II da parte loro, nel 422 d.C., estesero
tale diritto anche agli as