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La tendenza generale è quella di considerare più sapienti coloro che posseggono la
teoria, sottovalutando la portata dell’esperienza: come dice Aristotele, “ […] siamo
convinti che la sapienza in ciascuno degli uomini corrisponda al loro grado di
conoscenza.” Nell’opera “Metafisica”, egli pone le basi per un problema intricato ma
allo stesso tempo fondamentale: l’autore sottolinea come l’uomo pratico riesca nella
vita ordinaria molto meglio, in realtà, rispetto all’uomo teorico. Quest’ultimo, infatti,
“[…] più volte sbaglierà la cura, perché ciò a cui è diretta la cura è, appunto,
l’individuo particolare”: la sola conoscenza della teoria e dell’universale, dunque, non
può bastare. Questa problematica presenta implicazioni anche per quanto riguarda la
pedagogia: la conoscenza dei principi teorici dell’educazione, il possesso quindi della
scienza, non è a sufficienza per “saper educare nel modo adeguato”. In educazione si è
sapienti quando si educa e si è in grado di dare le ragioni dei risultati.
Il problema, quindi, sorge nell’area stessa della pedagogia: mentre l’esperienza
dell’educazione è un elemento intrinseco dell’essenza umana e quindi non legato a
nessuna disciplina nello specifico, la teoria della pratica educativa viene rivendicata
dalla pedagogia come propria area professionale. Questa rivendicazione teorica crea,
però, due grosse problematiche:
- La consapevolezza che l’esperienza ha priorità cronologica, ontologica e logica
sulla teoria, porta alla conclusione secondo cui non è possibile una pedagogia
che non parta e non giunga in uno scambio con l’esperienza educativa;
- Il sapere teorico e pratico dell’educazione implica il coinvolgimenti di altre
forme di sapere (filosofia dell’educazione, sociologia dell’educazione…), che
inevitabilmente finiscono per influenzare la pedagogia stessa. La pratica
dell’educazione si costituisce, cioè, attraverso influenze diverse dalla sola
pedagogia; essa non è solo “pratica della teoria pedagogica”, ma nello stesso
tempo “teoria della pratica pedagogica”.
La pedagogia è dunque unione di teoria e pratica. Essa realizza il proprio statuto
professionale e scientifico se e solo se esplora gli altri paradigmi scientifici che
influenzano la pratica educativa, e se individua gli elementi teorici elaborati dalle altre
scienze che possono rendere il suo corpus teorico ancor più affidabile e certo
nell’ambito della conoscenza dell’uomo. In questo senso, nel saggio “Ritorno alla
pedagogia. Ma quale?” (G. Bertagna) la pedagogia, sempre considerata un “brutto
anatroccolo” a causa della sua non scientificità, può invece esser rivendicata come
disciplina per comprendere meglio non solo l’educazione, ma anche tutti gli ambiti di
studio sull’uomo coltivati dalle altre discipline, tramite un processo di integrazione di
più punti di vista in una sorta di “Nuova scienza”. Diventa quindi importante capire qual
è la differenza tra la pedagogia e le scienze dell’educazione, e comprendere cosa
significa usare l’uno o l’altro punto di vista.
Le scienze dell’educazione sono ad esempio la paleontologia, la psicologia, la
sociologia, la biologia…. Ogni scienza è caratterizzata da un oggetto (con una propria
definizione dell’Intero dell’Esperienza e un punto di vista parziale, focalizzato cioè su
determinati aspetti piuttosto che altri), un metodo d’indagine (coerente con la scelta
dell’oggetto) e da un linguaggio specifico (in base alla disciplina di riferimento). Tutti e
tre questi elementi sono dunque determinati a priori, pre - formati. Dewey definì le
scienze dell’educazione degli “strumenti intellettuali”, ovvero discipline con lo scopo di
migliorare la comprensione e il controllo della realtà educativa, utili ad esempio per
dirigere l’attenzione dell’educatore nell’analisi delle situazioni. Esse permettono
l’identificazione di leggi generali, ma non forniscono indizi sul come comportarsi: sono
scienze che non possono esser direttamente convertite in arte e pratica dell’educazione.
Aristotele stesso, infatti, non comprendeva all’interno delle scienze la saggezza, intesa
come la competenza nell’affrontare il contingente e il particolare.
Le scienze dell’educazione partono dall’esperienza umana, tramite quindi uno sguardo
retrospettivo: si rivolgono al passato, a ciò che è già accaduto e concluso e
all’osservazione empirica di tale materiale. La razionalità teoretica occupa quindi una
posizione preponderante nelle scienze dell’educazione: essa utilizza il logos per
indagare la parte fisica e materiale della realtà, individuando relazioni di causa-effetto e
applicando il processo di ipotesi e verifica (ponendosi cioè delle domande e
verificandole empiricamente tramite l’esperienza). Lo scopo è quello di individuare ciò
che non si presenta immediatamente nell’esperienza, cioè l’individuazione di cause e di
elementi predittivi grazie ai quali qualsiasi evento singolare e particolare possa esser
compreso e generalizzato. Questo implica, secondo Dewey, una non possibilità di
dedurre regole sull’agire nel presente, partendo dal presupposto che due eventi non
potranno mai accadere nello stesso modo e che molto dipenderà sempre dalla presenza
di molteplici variabili contingenti non controllabili. Qualsiasi sguardo di tipo predittivo
rappresenta così solo una semplificazione della realtà.
Le conclusioni a cui giungono le scienze dell’educazione non sono mai idiografiche
(studio dei fenomeni secondo individualità, cercando gli elementi specifici) ma
nomotetiche (studio dei fenomeni secondo regolarità e cercando solo gli elementi
generali): non si occupano della spiegazione del particolare e del singolare, ma
dell’individuazione dell’universale e di leggi generali. Esse non guidano dunque all’
“azione opportuna” da mettere in atto in ogni specifica situazione; la scelta della
modalità di agire nei casi singolari dipende invece interamente dalla responsabilità
umana, ovvero dallo scegliere in base a ragioni che non possono dipendere da nessun
altro che da sé.
Accanto alla razionalità teoretica, un ruolo rilevante è ricoperto anche dalla razionalità
tecnica. La technè, ovvero la ricerca di ciò che è utile fare in vista di un fine, permette il
controllo da un punto di vista ontologico e gnoseologico delle possibilità future per
mezzo di procedure tecniche (o arte) vere o proprie o tramite l’impiego su scala sempre
più larga di tecnologie. Sotto questo punto di vista, la realtà viene considerata tramite le
categorie aristoteliche di causa materiale (materia) e causa efficiente (movimento).
L’obbiettivo diventa quindi quello del compimento della realtà in termini di “poter
essere”(fattibilità e possibilità).
L’esperienza, nella prospettiva delle scienze dell’educazione, ha un duplice significato:
oggettivo, in quanto si presenta al soggetto nel modo in cui è data, e soggettivo, cioè che
implica, per esistere, un superamento del pericolo di morte da parte dell’individuo
stesso. Essa viene definita soggettiva anche per un altro importante motivo: ogni
esperienza è sempre un’esperienza particolare e singolare, unica e irripetibile. Partendo
da questo presupposto, lo scopo delle scienze dell’educazione è dunque la ricerca del
generale e dell’universale, ovvero di qualcosa di affidabile e certo che permanga in ogni
caso singolare e che lo possa spiegare “in media”, anche a costo di semplificarlo. A tal
proposito Nicholas Rescher afferma che “[…] se la scienza si occupa degli aspetti
misurabile delle cose (anche dell’uomo stesso,) ignora la dimensione individuale e
affettiva della conoscenza”. Le scienze seguono quindi un percorso altamente lineare e
una sorta di modello scientifico – sperimentale ( Galileo): è “scienza del necessario”, in
cui ad ogni causa segue necessariamente e deterministicamente una specifica
conseguenza. Esse possono dunque esser sempre smentite con l’evoluzione della
disciplina stessa e all’interno del caso singolare che avviene nell’individuale
contingente.
L’uomo, dal punto di vista delle scienze dell’educazione, diventa un vero e proprio
“oggetto” di studio, inteso come frutto dell’evoluzione storico-naturale e da indagare
tramite strumenti altrettanto storico-naturali. Esso diventa semplice natura e storicità
documentabile: si tratta di una definizione scientifica dell’uomo, inteso come individuo
empirico e materialistico, determinato dalla società e dalle condizioni esterne. È un
“numero frazionario”, fortemente influenzato nella forma e nel fine da un
“denominatore” comune. In quest’ottica, le scienze dell’educazione non fanno altro che
inserire l’uomo singolo nelle categorie generali derivate dallo studio del perfetto.
Il valore aggiunto delle scienze dell’educazione consiste nella possibilità di esser
utilizzate come strumenti intellettuali per l’osservazione e la riflessione sulla realtà; le
visioni derivanti dalle scienze non sono mai quadri reali, ma permettono all’uomo di
costruire quadri in cui controllare e analizzare il mondo esterno (Dewey). Le domande
tipiche per la definizione dell’uomo attraverso le scienze dell’educazione possono
dunque esser le seguenti: di che cosa è fatto? Come sta ed è stato in queste altre
situazioni? Come starà, dati i vincoli (fisici, sociali, empirici) a cui è sottoposto?…
Il termine stesso “pedagogia” implica una disciplina fondata su concezioni differenti. Il
termine deriva infatti dal greco Pais/Paidos, che si riferisce ad un soggetto in crescita, e
da Agogè/Agein, che si riferisce ad un trasporto emotivo e fisico all’interno di una
relazione, o meglio ancora al condurre o guidare. I Greci stessi con questo termine si
riferivano non a qualcosa da spiegare o sapere, ma a qualcuno con il quale intraprendere
un cammino comune di crescita e trasformazione e con cui relazionarsi, superando il
dualismo tra osservatore e osservato, tra soggetto e oggetto: la relazione e le continue
traduzioni di reciproci messaggi di persone che co–evolvono in un ambiente come
condizione della conoscenza. La relazionalità viene intesa come un tentativo di
rispo