vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
L’adozione del principio di uniformità, infatti, ci permetterà di andare da (1) a (2).
Ma prima di poterlo usare per stabilire che le nostre inferenze causali sono
determinate dalla ragione, dobbiamo determinare la nostra base per adottarlo. Il
principio di uniformità è chiaramente non intuitivo, né dimostrabile, come Hume ha
già sottolineato, per cui solamente argomenti probabili potrebbero stabilirlo. Ma
tentare di stabilire il principio di uniformità in questo modo equivarrebbe a provare
a stabilire un argomento probabile attraverso un altro argomento probabile, che
presupporrebbe, quindi, lo stesso principio di uniformità.
Hume ha esaurito i modi attraverso i quali la ragione potrebbe stabilire una
connessione tra causa ed effetto per dimostrare che le nostre inferenze causali
sono basate sulla ragione. Hume assicura di offrirci i suoi “dubbi scettici” non
come “scoraggiamento, ma piuttosto un incitamento… per tentare qualcosa di più
completo e soddisfacente”. Dopo aver sgomberato il campo per la sua fase
costruttiva, Hume è pronto per affrontarla.
Inferenza causale: fase costruttiva
Hume definisce la parte costruttiva del suo argomento circa l’inferenza causale
una “soluzione scettica” ai “dubbi scettici” che ha sollevato nella fase critica.
Dal momento che siamo determinati - causati - per compiere inferenze causali,
allora se queste non sono “determinate dalla ragione”, ci deve essere “un qualche
principio di egual peso e autorità” che ci porta a compierle. Hume sostiene che
la consuetudine o l’abitudine.
questo principio è
“ovunque la ripetizione di qualche atto o operazione particolare produce
un’inclinazione a ripetere lo stesso atto o la stessa operazione … noi diciamo
sempre che questa inclinazione è l’effetto della consuetudine” (EHU 5.1.5/43).
È quindi la consuetudine, non la ragione, che “indirizza la mente … a supporre che
il futuro sia conforme al passato”. Ma anche se abbiamo individuato il principio, è
importante sottolineare che questo non è un principio nuovo per la nostra mente e
per il suo modo di procedere. Consuetudine e abitudine sono nomi generali per
indicare i principi di associazione.
Hume descrive il loro funzionamento in termini di processo causale: la
consuetudine o l’abitudine è la causa della particolare inclinazione che ci formiamo
dopo le ripetute esperienze della costante congiunzione di fumo e fuoco. Qui la
causa è il principio associativo operativo, dal momento che è l’unico principio che
può portarci oltre i nostri sensi e ricordi.
Hume, per concludere, afferma che solo la consuetudine “ci rende utile
l’esperienza e ci fa attendere, per il futuro, un seguito di avvenimenti simile a quello
che ci si è presentato nel passato” (EHU 5.1.6/44). La consuetudine, quindi, risulta
essere la fonte del Principio di Uniformità - la credenza che il futuro sarà come il
passato.
Credenza
L’inferenza causale non solo ci porta a concepire l’effetto, ma anche ad
aspettarcelo. Quando mi aspetto che l’aspirina allevierà il mio mal di testa, non sto
credo
solo considerando astrattamente l’idea del sollievo dal mal di testa, ma che
l’aspirina lo allevierà. Cos’è che distingue il credere che l’aspirina allevierà il mio
mal di testa dal semplice supporre che lo farà?
La credenza non è certamente “un particolare tipo di idea”, dal momento che, se ci
fosse un’idea del genere, data la nostra capacità di combinare liberamente le idee,
potremmo, semplicemente volendolo, aggiungere l’idea di credenza a qualsiasi
concezione, e credere a qualsiasi cosa ci piaccia.
Hume sostiene che la credenza deve essere un sentimento suscitato in noi
indipendentemente dalla nostra volontà. È un modo o una maniera particolare di
concepire un’idea generata dalle circostanze in cui ci troviamo.
Se le congiunzioni costanti fossero tutto ciò che è coinvolto in questo processo, i
miei pensieri circa l’aspirina e l’emicrania sarebbero solamente ipotetici. Per la
credenza, è necessario che uno degli oggetti congiunti sia presente ai miei sensi o
ai miei ricordi; devo essere cosciente di prendere l’aspirina, o di averla appena
presa. In queste circostanze, credere che il mio mal di testa sarà presto alleviato è
inevitabile come provare affetto per un caro amico, o rabbia quando qualcuno ci fa
del male. “Tutte queste operazioni sono specie di istinti naturali, che nessun
ragionamento … è in grado di produrre o impedire” (EHU 5.1.8/46–47).
Possiamo provare a descrivere la credenza, anche se solo per analogia, sebbene
Hume non sia mai stato completamente soddisfatto dei suoi tentativi nel farlo. La
credenza è una concezione più viva, solida, vivace, stabile e intensa di un oggetto.
Hume vuole che queste descrizioni vadano oltre la semplice registrazione
dell’intensità del sentimento per dimostrare come la credenza
“rende le realtà … più presenti delle invenzioni, determina il loro maggior peso sul
pensiero e conferisce loro un influsso più rilevante sulle passioni e sulle
immaginazioni. (EHU 5.2.12/49)”
Ma come un’idea arriva ad essere concepita in quella particolare maniera che
costituisce una credenza?
La spiegazione di Hume è che nel momento in cui mi abituo al fatto che l’aspirina
allevia i miei mal di testa, sviluppo un’inclinazione - una tendenza - ad aspettarmi
che il sollievo dal mal di testa segua l’assunzione dell’aspirina. L’inclinazione è
dovuta al legame associativo che le mie ripetute esperienze di assunzione
dell’aspirina e di sollievo dal mal di testa hanno formato. Le mie attuali impressioni
di assumere un’aspirina sono forti e vivide come qualsiasi altra impressione, e un
po’ della loro forza e vivacità si trasferisce attraverso il percorso associativo
all’idea del sollievo dall’emicrania, ravvivandola con abbastanza forza e vivacità da
darle la “forza e la solidità” che costituisce la credenza.
Dal momento che non so come l’aspirina allevia il mal di testa, è un caso che ci sia
“una specie di armonia prestabilita tra il corso della natura e la successione delle
nostre idee” che mi insegna ad assumere l’aspirina quando ho il mal di testa. La
consuetudine, afferma Hume, con parole che anticipano e hanno influenzato
Darwin,
“è quel principio che ha reso effettiva tale corrispondenza, così necessaria alla
sussistenza delle specie e al governo della condotta in ogni circostanza ed
evenienza della vita umana.” (EHU 5.2.21/55)
È molto meglio, conclude Hume, affidarsi all’”ordinaria saggezza della natura”, che
assicura che noi formiamo le credenze “per mezzo di qualche istinto o tendenza
meccanica”, piuttosto che fidarci “delle fallaci deduzioni della nostra
ragione” (EHU 5.2.22/55).
In linea con il suo progetto di fornire un resoconto naturalistico su come
funzionano le nostre menti, Hume ha avanzato spiegazioni empiriche della nostra
propensione a fare inferenze causali e del modo in cui queste inferenze conducono
alla credenza.
L’idea di connessione necessaria
Il dibattito della prima età moderna sull’idea di causa ruotava attorno a una
famiglia di idee chiave “quasi sinonime”, le più importanti delle quali erano le idee
potere connessione necessaria.
di e di Per Hume “non ci sono idee, fra quelle che
si usano in metafisica, più oscure ed incerte”. Il filosofo scozzese cerca, quindi, “di
stabilire, se possibile, il senso preciso di questi termini”, in modo da “rimuovere
qualche parte dell’oscurità, di cui tanto ci si lamenta in questa specie di filosofia”.
(EHU 7.1.3/61–62)
Connessione necessaria: fase critica
Per rendere chiara l’idea di potere o di connessione necessaria, dobbiamo
determinare le impressioni che sono la loro fonte. Hume identifica tre possibili fonti
nel lavoro dei suoi predecessori: Locke pensava che otteniamo la nostra idea di
potere in minor misura dalle impressioni esterne delle interazioni degli oggetti fisici,
e primariamente dalle impressioni interne della nostra capacità di spostare i nostri
corpi e di considerare le idee. Malebranche sosteneva che quelle che riteniamo
essere le cause del movimento dei corpi o dell’attività mentale non sono affatto le
loro cause. Sono solo occasioni per Dio, la sola fonte di connessione necessaria,
di agire nel mondo. Hume respinge tutte e tre le possibilità.
Egli sostiene che le impressioni esterne delle interazioni dei corpi non possono
dare origine alla nostra idea di potere. Quando vediamo che al movimento di una
palla da biliardo ne segue un altro, stiamo semplicemente osservando la loro
successione, mai la loro connessione.
Esaminare le impressioni interne delle operazioni delle nostre menti non è di
maggior aiuto. Anche se i movimenti corporei volontari seguono la nostra volontà,
il fatto che questi movimenti si verifichino è una materia di fatto che impariamo
attraverso l’esperienza, non da qualche impressione interna del potere della
nostra volontà. Quando decido di digitare, le mie dita si muovono sulla tastiera.
Quando decido di smettere, le mie dita si fermano, ma non ho idea di come
succede. Se fossi consapevole del potere della mia volontà di muovere le mie dita,
saprei come esso funziona e quali sono i suoi limiti.
Nemmeno la nostra abilità di controllare i nostri pensieri ci dà un’impressione di
potere. Non abbiamo alcun indizio di come richiamiamo le nostre idee. Il nostro
comando su di esse è limitato e varia di volta in volta. Ci rendiamo conto di queste
limitazioni e variazioni solo attraverso l’esperienza, ma i meccanismi attraverso i
quali esse operano sono a noi sconosciuti e incomprensibili. Se decido di pensare
a Istanbul, mi viene in mente la mia idea di quella città, ma sperimento solo la
successione della mia decisione seguita dall’apparenza dell’idea, mai il potere in
sé.
Quando la gente comune non può determinare la causa di un evento, la attribuisce
a qualche “principio intelligente invisibile”. Malebranche e altri occasionalisti fanno
lo stesso; le vere cause non sono poteri del mondo fisico o delle menti umane.
L’unica vera causa è la volontà di Dio che ordina che certi oggetti debbano sempre
essere congiunti con certi altri.
Chiunque sia consape