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non può basarsi su concetti, mentre l’antitesi ribatte che una certa universalità (quindi una certa
dose di concettualità) è necessaria, altrimenti non vi sarebbe criterio per rivendicare l’approvazione
del giudizio di gusto, né per comunicarlo. Al giudizio di gusto spetta quindi una sorta di fondazione
intersoggettiva nel senso comune presente a tutti gli uomini. Il giudizio di gusto è sempre
soggettivo. Ciò non vuol dire che il gusto, come normalmente si crede, sia abbandonato all’arbitrio
individuale. Al contrario, se di un oggetto affermo che mi piace, non faccio altro che esprimere una
sensazione; se dico che è bello, invece, formulo un giudizio, connetto la rappresentazione
dell’oggetto al mio sentimento di piacere in modo universale, valido quindi non solo per il soggetto
che apprende questa forma, ma per ogni soggetto giudicante in generale. Bello, afferma Kant, è ciò
che piace universalmente e necessariamente senza concetto. Questa necessità non può venire
dimostrata, ma deve derivare da una modalità trascendentale di apprensione dell’oggetto
nell’esperienza estetica: deve esservi un principio universalmente che determini ciò che piace e ciò
che dispiace. Nel giudizio estetico, ove non intervengono concetti, la comunicabilità è garantita
riferendosi all’esistenza in ogni uomo di un senso comune, di un’identica disposizione a giudicare.
Prendendo le mosse dall’analogia col senso del palato, lo scrittore e filosofo spagnolo Baltasar
Gracián y Morales, intende il gusto come facoltà di distinguere il bello e di goderne, nonché di
cogliere nella pratica il punto giusto delle cose. L’uomo colto può dirsi tale perché possiede la
capacità di assumere un libero distacco dalle cose della vita e della società. Sul gusto si basa cioè
quella che si chiama la “buona società”. Essa si riconosce e si legittima non più in base alla nascita
o alla classe, ma essenzialmente solo in base alla comunanza dei giudizi, ed è questa la ragione
principale per cui il gusto perde il suo carattere privato e si fa, in età moderna, fenomeno sociale.
L’estetica e la critica d’arte contemporanee hanno registrato una nozione di gusto più ampia, estesa
a ogni contesto sociale e storico, ovvero al complesso di scelte stilistiche operate da un singolo
artista o da una corrente in rapporto alla tradizione e alla contemporaneità. Nel dibattito estetico
contemporaneo, in generale si intende per gusto un sistema di preferenze, individuali o collettive,
cui è di norma connesso un certo piacere, che è immediato e ha pretesa di universalità nei suoi
giudizi. Esso «si suole riferire a creazioni artistiche […], ma anche ad attività ludiche, alla
contemplazione di oggetti naturali, alle preferenze di carattere erotico […], all’abbigliamento, non
importa quanto diversi siano […] tutti questi ambiti». L’arte può dirsi così testimonianza del gusto
di ciascuna epoca, e le sue norme direttive mutano con il variare dei fattori che determinano le
preferenze di una certa società. Del resto, oggi le norme del buon gusto non vengono più dettate
necessariamente da un’alta cultura minoritaria, ma possono essere stabilite dai mezzi di
comunicazione di massa, possono essere diffuse dal mercato, perdendo quindi quell’aura elitaria
che avevano sempre avuto. La cultura di massa, nonostante l’apparente molteplicità di sollecitazioni
e di offerte estetiche di cui è prodiga, mostra un tratto accentuato di omologazione. Oggi, nell’epoca
della cultura massificata, il kitsch e le sue derivazioni hanno alterato le norme che sembravano più
consolidate, e la stessa nozione di «cattivo gusto» ha finito per essere spesso sovvertita. Gillo
Dorfles, grande critico d’arte, parla del kitsch come una categoria estetica più che esistenziale.
Fuori dall’estetica il kitsch è un’esibizione di conformismo. Dorfles afferma che alcuni capolavori
della storia dell'arte come il Mosé di Michelangelo, la Gioconda di Leonardo sono divenuti