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Mutuando le posizioni dell’autore, è in effetti del tutto condivisibile la necessità di superare l’idea
di un pensiero di marca mosso esclusivamente da una “razionalità che pensa ed opera nei termini
rigidi ed esclusivi del calcolo e del bisogno, ovvero da logiche di semplici materialismo e
funzionalismo produttivo. Come cercherò invece di motivare, è possibile sostenere che, più
profondamente, la marca aspiri ad una condizione esistenziale dalla quale proporre valori a cui
tendere, e in nome della quale offrire ai propri destinatari la possibilità di articolare la propria
identità soggettiva. In quest’ottica, diviene lecito e giusto guardare ai prodotti o servizi proposti sul
mercato da una realtà organizzativa quali singole e molteplici manifestazioni testuali dello stesso
discorso di marca. Tale modello interpretativo trova evidente applicazione nelle realtà d’impresa,
ma l’idea di brand come contenitore di senso può essere estesa anche al contesto delle realtà
istituzionali; queste ultime, infatti, pur non avendo il profitto come unico obiettivo strategico,
necessitano allo stesso modo di strumenti comunicativi e semiotici idonei per posizionarsi con
efficacia sui mercati di riferimento.
Di cosa parliamo, ad ogni modo, quando nominiamo la marca? Ad essa si affianca, e in solo in parte
si sovrappone, il concetto di marchio. Quest’ultimo, la cui origine terminologica si colloca nell’atto
di imprimere col ferro rovente il capo di bestiame, rimanda ad un universo concreto di materialità e
di possesso: il marchio come segno inconfondibile di appartenenza, caratterizzato da una
sostanziale funzionalità. Un’etimologia riscontrabile anche nella comparazione con l’inglese, in cui
il termine “brand” indicava nelle lingue germaniche il tizzone ardente e, come struttura verbale,
proprio l’atto di marchiare. Con pochi dubbi, dunque, possiamo attribuire alla marca primordiale
una fondamentale caratteristica differenziale, per la sua vocazione a distinguere tra ciò che
appartiene e ciò che non appartiene.
Ereditando parte di questo sistema interpretativo, la marca moderna nasce con la rivoluzione
industriale, quando il termine ha cominciato ad indicare l’azienda responsabile di una specifica
attività produttiva e, allo stesso tempo, a rivendicare la proprietà dei beni che di quell’attività
rappresentavano il risultato. Con l’aumentare della concorrenza quantitativa e qualitativa tra i
produttori, la marca diviene necessaria perché nasce l’esigenza di trovare una differenza nella
standardizzazione, raggiungendo così una notorietà positiva e, soprattutto, pubblica, grazie ad un
sigillo evidente, riconoscibile, non fraintendibile. In altre parole, il brand è, nell’economia
industriale, l’emblema tangibile e visibile del prodotto/servizio, di cui indica le qualità intrinseche
ed estrinseche, esplicitandone la reputazione. Quella tra marca e marchio è un’identità cognitiva che
può essere considerata sostenibile almeno fino al secondo dopoguerra, quando ancora “l’azienda nel
suo complesso poteva incentrare sul marchio una forte identità o “coscienza aziendale”, come
veniva allora definita tale effimera qualità”.
La marca rappresenta il volto con cui l’impresa si esprime si esprime sui mercati, la proiezione
diretta della sua identità. Anch’essa coinvolta nei profondi mutamenti in atto nel mercato globale,
oggi appare incerta di fronte ai nuovi scenari, talvolta disorientata nel gestire il contesto di profonda
trasformazione che stiamo vivendo. Nell’affollato universo semiotico del consumo postmoderno, il
suo compito è quello di raccontate una storia credibile, creare un universo di senso capace di
muovere (comportamenti d’acquisto) e di commuovere (fidelizzando i consumatori): non a caso,
Semprini la definisce come “una macchina capace di produrre significazioni”.
La marca si presenta come un addensato di attributi tangibili e intangibili, di performances effettive
e affettive, di qualità e coerenza. Non esiste settore del consumo in cui la marca non arrivi: essa va
considerata come l’ipertesto che ingloba ed esprime il patrimonio simbolico e valoriale
dell’impresa. Occorre, pertanto, delineare una distinzione tra marchio, marca e brand. I concetti di
“brand” e “marca” coincidono: sebbene in ambito professionale sia più diffuso il termine in inglese
“brand”, essi presentano la stessa radice etimologica e rimandano allo stesso concetto. Nell’alto
tedesco antico e nell’inglese antico il termine “brand” stava per “fuoco”, “fiamma” o “bruciare” e
ha poi acquisito il significato di “marchiare col fuoco”, proprio come si faceva con gli animali di
allevamento per identificare il possessore. Lo stesso vale per la parola “marca”, proveniente dal
germanico “marka” o “segno”. Il concetto indica quindi l’azione di contrassegnare, distinguere,
rendere facilmente identificabile qualcosa. Nel suo lungo divenire storico, essa è approdata al
variegato mondo dei valori e dell’etica: per questo motivo, il concetto di marchio ha sostituito
quello che inizialmente aveva quello di marca.
Affinché la marca possa trasformarsi in un produttore di ricchezza essa deve associarsi a un buon
prodotto o un buon servizio. Esempi di marche che siano riuscite a sopperire al contratto che essa
sottoscrive ontologicamente con il consumatore, garantendogli il rispetto di questi presupposti, sono
ben difficili da riscontrare. Tuttavia, per conseguire il successo e creare valore non è più sufficiente
che l'impresa si impegni a offrire buoni prodotti a prezzo equo: questo rappresenta sicuramente una
condizione essenziale, ma non è sufficiente. Il mercato globale è pieno di buoni prodotti e servizi le
differenze tangibili tra produttori all'interno dello stesso comparto tendono adesso attagliarsi sempre
più, diventando progressivamente indistinguibili sotto il profilo dei valori d'uso.
Ferrero, una delle marche storiche dell'industria dolciaria italiana è per anni stata titolare di prodotti
che il suo fondatore ha definito prodotti di impresa: prodotti che da soli potevano costituire l'identità
dell'azienda. In tempi recenti invece è stato difficile per questa azienda come per tante altre
mantenere un vantaggio competitivo basato sulle caratteristiche di unicità dei suoi prodotti. Quando
questa azienda immette sul mercato un prodotto fortemente innovativo questo viene riprodotto dopo
pochi mesi da una qualsiasi centrale del latte italiano punto la marca invece è impossibile da
clonare. La marca, quindi, deve costruirsi una propria equity di grande spessore e costruire un
terreno di dialogo col consumatore, mantenendo inalterati i significati di fondo e intervenendo
invece sui significanti, la propria identità se non vuole recitare un impotente soliloquio. I crediti del
passato o del presente possono essere dilapidati in poco tempo: la marca deve essere consapevole di
mettere in gioco il nome e la reputazione dell'impresa tutti i giorni. La marca assumeva valore
quando riesce a sedimentarsi con un'identità chiara, distintiva e coinvolgere le menti del
consumatore appunto la forza della marca e la sua capacità di produrre ricchezza si basano su ciò
che il consumatore ha appreso visto sentito o percepito personalmente col tempo. Senza questi
presupposti la marca diventa pura virtualità, una scatola vuota da divenire agli occhi del mercato
così trasparente da risultare invisibile.
Ciò che negli anni ‘80 ha provocato un'inedita attenzione verso le marche e l'identità d'impresa sono
alcuni passaggi di proprietà che hanno sovvertito i parametri della valutazione dei marchi classici:
in Italia il gruppo Buitoni-Perugina, ad esempio è passato alla Nestlé per un prezzo che non trova
riscontro nei libri contabili. Philip Morris, ad esempio, acquista Kraft per un importo quattro volte
superiore al suo valore. La Nestlé rileva poi la Rowntree per un importo cinque volte superiore a
quello dei suoi asset tangibili. Ciò ci dimostra che la marca ha un valore extra contabile. Il valore
della marca per l'impresa consta quindi nel suo valore di moltiplicatore oggettivo in caso di vendita.
Il valore sulla marca sul mercato si rileva invece dal maggior prezzo che essa riesce a scontare se
rapportata a prodotti simili. Essa rappresenta poi quando autorevolmente gestita dall'impresa, la
possibilità di poter effettuare delle operazioni di estensione della marca o di licensing. O come
maggiore apprezzamento sul mercato azionario.
Ereditando parte di questo sistema interpretativo, la marca moderna nasce con la rivoluzione
industriale, quando il termine ha cominciato ad indicare l’azienda responsabile di una specifica
attività produttiva e, allo stesso tempo, a rivendicare la proprietà dei beni che di quell’attività
rappresentavano il risultato. Con l’aumentare della concorrenza quantitativa e qualitativa tra i
produttori, la marca diviene necessaria perché nasce l’esigenza di trovare una differenza nella
standardizzazione, raggiungendo così una notorietà positiva e, soprattutto, pubblica, grazie ad un
sigillo evidente, riconoscibile, non fraintendibile. In altre parole, il brand è, nell’economia
industriale, l’emblema tangibile e visibile del prodotto/servizio, di cui indica le qualità intrinseche
ed estrinseche, esplicitandone la reputazione. Quella tra marca e marchio è un’identità cognitiva che
può essere considerata sostenibile almeno fino al secondo dopoguerra, quando ancora “l’azienda nel
suo complesso poteva incentrare sul marchio una forte identità o “coscienza aziendale”, come
veniva allora definita tale effimera qualità”
Senza voler sorvolare sull’ampiezza delle ripercussioni concettuali dovute al contributo di Lyotard,
nella prospettiva di questo capitolo appare sufficiente (e necessario) limitarsi a discutere le
conseguenze interpretative all’interno del più limitato universo del branding. È diffusamente
riconosciuto che le marche abbiano tratto vantaggio dalla crisi dei grandi racconti: ereditandone la
responsabilità come istanze discorsive, hanno assunto pubblicamente il ruolo ideologico da essi
lasciato libero. Nella cultura postmoderna, il brand va così ad esercitare molte delle prerogative
precedentemente assegnate all’autore: “si fa centro propulsore di un’unità stilistica e valoriale […]
si propone come istanza che instaura un campo discorsivo