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Cappella Scrovegni
s Collocata in posizione periferica rispetto al cuore della
Padova medievale, la cappella degli Scrovegni sorge di
fianco alla chiesa degli Eremitani, sui resti dell’arena
romana (di qui anche la sua denominazione di cappella
dell’Arena). Dedicata alla Vergine della Carità, fu voluta da
Enrico Scrovegni, ricco mercante ed esponente di una
famiglia la cui immensa fortuna era stata accumulata dal
padre Reginaldo con la lucrosa attività di usuraio. Proprio
per espiare i peccati paterni e riscattare l’immagine della
famiglia, nel 1300 Enrico acquistò il terreno per la cappella,
la cui costruzione fu avviata nel 1303. L’incarico di
realizzare la decorazione ad affresco fu affidato a Giotto,
che lavorò con tempi serrati. Nel marzo 1305, quando la
cappella fu consacrata, gli affreschi, se non completati,
erano comunque a uno stadio già molto avanzato. r s Di
dimensioni contenute, la cappella ha una struttura
architettonica molto semplice: è un’aula rettangolare
coperta da una volta a botte e con un’abside sul fondo.
Secondo il progetto originario, tuttavia, avrebbe dovuto
avere anche un transetto, come mostra la scena con Enrico
Scrovegni che offre il modello della cappella alla Vergine,
affiancata da una santa e da un angelo, che è dipinta sulla
controfacciata, sopra la porta d’ingresso. r s La cappella è
interamente rivestita da affreschi che Giotto ha concepito in
ogni dettaglio ed ha egli stesso eseguito, coadiuvato da
collaboratori che hanno operato sotto il suo stretto
controllo. Il programma iconografico consta di tre cicli
narrativi, suddivisi in trentasei episodi distribuiti su tre
registri. L’ordine di lettura, per chi entra nella cappella,
procede da sinistra a destra e dall’alto in basso: si comincia
dal registro superiore sulla parete a destra dell’altare con le
Storie di Gioacchino e Anna, si prosegue sulla parete
opposta con le Storie dell’infanzia di Maria, per poi
scendere nei due registri inferiori con le Storie della vita di
Cristo. Sullo zoccolo si fronteggiano le allegorie delle Virtù
(a destra) e dei Vizi (a sinistra). Completano la decorazione,
nella lunetta sopra l’altare, l’insolito episodio di Dio Padre
che ordina all’arcangelo Gabriele di compiere l’annuncio
alla Vergine e, sulla parete opposta (la controfacciata), il
Giudizio Universale. v Nella scena dell’Annuncio
dell’angelo a sant’Anna si manifesta tutta la straordinaria
capacità acquisita da Giotto nel giocare con inquadrature di
scorcio, lontanissime dalla ieratica frontalità della
tradizione bizantina, e nel restituire piena tridimensionalità
alle figure umane, colte in un’estrema varietà di gesti e
posizioni. Nella quieta intimità domestica della sua camera,
con il letto seminascosto da una tenda, il baule con il
corredo e gli strumenti per filare appesi al muro, Anna
ascolta in ginocchio e con le mani giunte sul petto
l’annuncio della prossima nascita della figlia Maria. Fuori
della casa, un’ancella è intenta a filare: avvolta nel suo
semplice abito bianco, in cui la luce scava il contorno di
morbide pieghe, la fanciulla emerge con la plasticità di una
scultura dall’oscurità del sottoscala dov’è seduta. Nello
zoccolo, le allegorie dei Vizi e delle Virtù costituiscono un
dotto commento ai messaggi contenuti nelle storie sacre. Si
tratta di finte statue dipinte a monocromo che si
fronteggiano a coppie antitetiche: per esempio
Fortezza/Incostanza, Giustizia/Ingiustizia ecc. I cosiddetti
coretti prospettici, due raffigurazioni di una stanza vuota
poste ai lati dell’altare, sono una sorta di geniale surrogato
virtuale, creato da Giotto per dare l’idea di quel transetto
che nella realtà non fu mai costruito: essi segnano una tappa
fondamentale nella storia della decorazione illusionistica,
con il loro implicito invito allo spettatore a riempire quello
scenario vuoto ricorrendo alle risorse dell’immaginazione.
v Nella scena più drammaticamente intensa dell’intero
ciclo, il Compianto sul Cristo morto, gli apostoli e le pie
donne circondano il cadavere di Gesù, facendo convergere
ogni gesto e sguardo verso quel corpo livido e nudo, che
costituisce il fulcro emotivo dell’intera scena. Il compianto
si esprime attraverso un’ampia gamma di atteggiamenti,
alcuni più misurati e solenni, altri più urlati ed espliciti, altri
ancora impliciti ma non meno eloquenti, come nel caso
delle due donne accovacciate di spalle in primo piano, che
non ci mostrano il volto, ma ci fanno intuire il loro chiuso
dolore con quel capo chino e il corpo avvolto nel manto.
L’apice tragico è costituito dall’abbraccio drammatico di
Maria che stringe a sé il figlio, avvicinando il proprio volto,
disfatto dalla sofferenza, a quello esanime ma ormai
pacificato di Gesù. Dietro di loro, una nuda quinta rocciosa,
su cui s’innalza un albero rinsecchito, disegna una
diagonale che allontana il nostro sguardo dal baricentro
emotivo della scena, guidandolo verso il cielo, dove anche
gli angeli esprimono il loro cordoglio, volteggiando
scompostamente come uccelli impazziti. La concitata scena
con il Bacio di Giuda è dominata al centro dalla figura del
traditore, che si protende verso Cristo e con il suo mantello
lo avvolge completamente, facendo emergere solo il volto
bellissimo di Gesù, che contrasta con il suo, reso grottesco
da un naso adunco. Tutt’intorno si agita un’animata folla di
soldati e apostoli che brandiscono lance, torce
fiammeggianti e bastoni, con Pietro che, alle spalle di Gesù,
per difenderlo taglia l’orecchio a Malco, servo del sommo
sacerdote Caifa.
Il consolidamento dell’egemonia giottesca
Verso il 1310, la fama di Giotto era ormai indiscussa e si
estendeva a ogni capo della Penisola. Lo proclamano i
contemporanei versi danteschi del Purgatorio (cfr. p. 322),
che certificano l’uscita di scena di Cimabue, oscurato dal
nuovo astro. Tra il 1310 e il 1328 – data quest’ultima che
segna l’inizio di un soggiorno di Giotto alla corte angioina
di Napoli, che durerà fino al dicembre 1333 – il maestro si
divise principalmente tra la sua città e la capitale pontificia,
con probabili, occasionali trasferte di nuovo ad Assisi. La
maggior parte dei documenti attestano la presenza del
capobottega a Firenze, ma nel 1313, per esempio, egli
nomina un procuratore a Roma per recuperare alcune
masserizie che vi ha da poco lasciato. Nell’arco temporale
che si estende, all’incirca, dal 1313 al 1320, cade infatti,
con ogni probabilità, l’esecuzione del Trittico Stefaneschi e,
forse, delle altre opere vaticane a lui attribuite. Sono
comunque assai più numerose e consistenti, in questo
periodo e fino al 1328, le notizie circa le imprese fiorentine,
tra le quali spiccano le decorazioni di due contigue cappelle
in Santa Croce: la Bardi e la Peruzzi . Sulla datazione dei
due cicli c’è qualche incertezza, ma si concorda sul fatto
che quello della Peruzzi debba precedere l’altro di qualche
anno e che entrambi esprimano in modo esemplare l’ultima
fase stilistica di Giotto. Uno stile solenne e armonioso,
caratterizzato da un ordinamento spaziale più aperto, da
panneggi ampi e gonfi che sottolineano la sacralità delle
scene, e da una chiarezza didascalica che punta sulla
semplificazione compositiva e su un numero minore di
personaggi. Sempre attento all’esigenza di coinvolgere lo
spettatore, Giotto si preoccupa anche di agganciarne lo
sguardo e di attirarlo con l’eloquenza di gesti ed espressioni
di un pungente realismo. Le cappelle in questione sono alte
e strette, costringendo lo spettatore a visioni di scorcio
tutt’altro che agevoli. Per ovviare a ciò, e in particolare per
facilitare la lettura delle scene poste nelle lunette superiori,
Giotto ha usato l’accorgimento di rappresentarne gli sfondi
architettonici leggermente angolati rispetto alla superficie
muraria, sfalsando in tal modo la dislocazione dei gruppi di
figure rispetto a quella obliqua delle architetture e
ottenendo così maggiore dinamismo e leggibilità della
rappresentazione. Purtroppo entrambi i cicli decorativi ci
sono pervenuti in condizioni molto menomate, per una serie
di vicissitudini che hanno pesantemente danneggiato i
dipinti, già di per sé resi precari dalla scelta di Giotto di
eseguire parte del lavoro “a secco” e non ad affresco. Il
ciclo della Peruzzi ha subìto qualche grave mutilazione, ma
soprattutto è decisamente impoverito sul piano della
conservazione dei valori pittorici. Commissionato a Giotto
da una delle più eminenti famiglie di mercanti e banchieri
fiorentini, è dedicato a storie dei santi Giovanni Battista ed
Evangelista. Databile probabilmente intorno al 1315-1320,
subì nel corso dei secoli gravi danni per infiltrazioni di
piogge e umidità, finché nel 1714 fu completamente
imbiancato. Riportato alla luce nel secolo successivo, fu
però pesantemente integrato dal restauratore ottocentesco e
quanto si vede oggi è frutto di un apprezzabile restauro del
1958-1961, che si è limitato a eliminare le integrazioni, ma
poco ha potuto fare per recuperare la stesura pittorica
compromessa. Anche i Bardi erano ricchi banchieri e la loro
cappella, che è la prima a destra del coro, è considerata un
po’ come il testamento artistico di Giotto. Affrontandone la
decorazione, infatti, il maestro fiorentino tornò, a una
trentina d’anni di distanza dal ciclo assisiate e con una
diversa maturità stilistica, a rappresentare le Storie di
Francesco descritte dalla Legenda maior di san
Bonaventura, e in particolare sei di esse, centrate sul tema
della rinuncia agli averi, sui miracoli del santo e sulla sua
morte e ascensione in cielo. Inoltre, con il solito parallelo
tra Francesco sopra l’arcone all’esterno della cappella sono
raffigurati San Francesco che riceve le stimmate e, entro
due medaglioni, Adamo ed Eva. Le Storie francescane della
cappella Bardi hanno subìto le medesime peripezie del ciclo
di affreschi Peruzzi: i danni dell’umidità, l’imbiancatura
settecentesca, seguita dalla “riscoperta” ottocentesca, con il
conseguente, pesantissimo restauro integrativo, di cui ci si è
sbarazzati con un restauro del secolo scorso. Le pitture, già
danneggiate dall’inserimento di arche sepolcrali al centro
del registro inferiore, sono però risultate in condizioni
migl