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La natura del selfie non corrisponde solo a quella di una moda
passeggera, anzi: il selfie è sintomatico circa il malessere della
società e il cambiamento dei valori su cui essa dovrebbe fondarsi.
L’uomo da sempre manifesta la tendenza a non accettare la
propria natura caduca, mortale, ed è quindi alla costante ricerca di
un modo per lasciare traccia di sé al mondo, una traccia che gli
permetta di sopravvivere alla propria morte e all’inesorabilità del
tempo. Nell’antichità tale compito era affidato all’arte, spesso alla
poesia, la quale doveva essere veicolo della fama del poeta e doveva
essere testimonianza imperitura della sua esistenza… con lo
scorrere dei secoli, con il cambiare dei princìpi, si è arrivato al
selfie; esso è il nuovo deputato a mantenere viva la nostra
memoria. Le manifestazioni di un individuo, l’esistenza
dell’individuo stesso, sono affidati alla fotografia.
E questo è uno dei primi motivi: la paura dell’uomo di non
sopravvivere al tempo. i ii
ci sono una volta, io non torno più ”
“Io
Gunther Anders, affonta il problema del malessere dell’uomo circa
la propria caducità rapportandolo alle macchine.
L’uomo descritto da Anders ne “L’uomo è antiquato”, è un uomo
che vive in condizione di subordinazione alle macchine, si sente
inferiore ad essere seppur sia egli stesso ad averle create, e seppur
secondo le proprie potenzialità, dovrebbe riconoscersi migliore di
esse. L’uomo che Anders prende in considerazione vive questa
sofferenza e la imputa a diversi fattori, uno tra questi è appunto
l’impossibilità di vivere in eterno come le proprie macchine, ma
soprattutto, vive come un disagio la propria condizione di
insostituibilità. La macchina, una volta consumatasi, può essere
sostituita con un proprio simile, garantendo così una esistenza
eterna favorita dalla produzione in serie; non ci si pone il
problema, in quanto è possibile trovare numerose copie in grado
di prendere il posto di quella precedente.
Per l’uomo non è così. L’individuo dopo la sua morte non può
unicum.
essere sostituito con una sua copia. Egli è un La sua
esistenza si esaurisce con lui e da questa consapevolezza di
malaise.
unicità, nasce un
L’uomo non è fiero di questa sua condizione. Non è fiero della sua
unicità, vorrebbe anzi che dopo di lui si avvicendassero propri
cloni, come lo è per le macchine… ma ciò non è possibile quindi
iconomania.
sopperisce a tale necessità con la
Fenomeno in cui si ha l’imperante mania di immagini.
Essa si traduceva nella pratica fotografica. I motivi che portano
dunque a un’eccessiva produzione di immagini, è la possibilità di
creare una serie di riproduzioni di se stesso per sottrarsi alla
inaccettabile condizione dell’uomo, già citata, a cui egli è
condannato, ovvero quella della unicità. E’ l’unica soluzione
possibile contrapponibile alla sua unica esistenza. Questa pratica
della fotografia, naturalmente, lo avvicina, ma non lo rende
partecipe di quelli che sono i meccanismi della produzione in
serie, ma almeno con le sue effigie si garantisce un’esistenza
multipla.
Il selfie dei nostri giorni, non sono altro che la messa in pratica in
chiave moderna di quelle che sono appunto le pratiche
fotografiche ai fini della sopravvivenza.
Altro motivo fondamentale per cui la pratica del selfie viene
attuata è una tensione dell’uomo all’autocompiacimento.
Nella storia della letteratura, l’uomo, spesso è stato dipinto nelle
sue accezioni negative, nella sua accezione di essere inferiore,
rispetto alle divinità, rispetto alla natura e rispetto alle macchine…
Ora l’uomo si sente costantemente in una situazione di inferiorità
presso la società in cui egli vive e si relaziona. Se prima esso si
sottoponeva ad una condizione di umiliazione circa entità
comunque più grandi e più forti di lui, ora si pone in condizione di
inferiorità nei confronti dei propri simili.
In gergo comune viene resa con l’espressione
“Si fa i complessi di inferiorità”
Ecco, appunto. L’uomo risente, verso i suoi simili, degli stessi
disagi che manifestava verso le macchine.
Nella società odierna, nulla conta di più che l’apparire, e le
convinzioni dell’uomo trovano la propria ragione di essere in quel
mondo patinato proposto dalle riviste, dalla finzione
continuamente rappresentata in tv, ma egli non sa che quella è
pura è semplice menzogna. Egli non è consapevole della
manipolazione perpetrata sulla realtà affinché essa divenga solo
un ammasso di stereotipi di genere e falsità. L’uomo inconsapevole
dei meccanismi subdoli che regolano il comunicare odierno,
prende esempio da quei modelli mostrati.
La realtà televisiva diventa la realtà in cui si cala ogni individuo.
La star televisiva assurge al ruolo di divinità.
Cosa significa propriamente questa espressione?
La tv nel proprio compito di plasmatrice di animi, di
condizionatrice del mondo reale, si serve di personaggi
all’apparenza bellissimi, divini che, con il passare del tempo,
riescono a farsi spazio nell’immaginario sia individuale che
collettivo e si impongono come modelli da raggiungere e imitare.
L’uomo trasforma se stesso, nel suo aspetto e nelle sue pratiche,
per avvicinarsi sempre di più a quell’esempio che la tv gli ha
indicato poiché esso si profila come stato ultimo di felicità.
eudaimonia
L’uomo per raggiungere la propria deve assomigliare
a quel modello.
La felicità dell’uomo moderno quindi consiste nella ricchezza,
nella bellezza, valori privi di significato che si sostituiscono a
quelli dell’onestà o dell’umiltà. Per essere felici bisogna essere
ricchi e belli. Non intelligenti. Ricchi e belli. La vita trova il
proprio fine ultimo in valori che sono destinati a non perdurare
nel tempo.
Il raggiungimento di tali obiettivi, però, non si configura semplice
o scontato, e da questo nasce il senso di inferiorità dell’individuo
normale. Quello che scherzosamente, ma tanto tristemente, si
“un comune mortale”.
definisce Il cosiddetto comune mortale non è
dotato spesso di tali pregi, quindi tenta in ogni modo di
adoperarsi affinché essi sopraggiungano. Per primo la bellezza, o
perlomeno l’essere il più vicino possibile allo stereotipo della
società, e dunque comincia a sottoporre la propria psiche e il
proprio corpo a delle fatiche immense: dieta, palestra, palestra e
dieta. Deve seguire la moda. Deve conformarsi alle tendenze
odierne dell’apparire, trasformandosi sempre di più in una
riproduzione di se stesso, in una copia di ciò che la società vuole
facendo venire meno il proprio carattere individualistico.
E dunque si arriva alla pratica del selfie. L’individuo che cerca
disperatamente di migliorarsi, avverte sempre un senso di
inferiorità: egli non sarà mai bello e perfetto come le star a cui si
ispira e quindi cerca una fonte di compiacimento, e nello stesso
tempo una forma di affermazione… “click”.
e quindi arriva il fatidico momento del
Il soggetto si scatta una foto, anche più volte, studia l’angolazione
affinché possa catturare il suo profilo migliore, fa le prove
dell’espressione da tenere, ma seppur questa sia ben studiata deve
apparire il più possibile naturale.
Prova e riprova.
Una volta ottenuto il risultato desiderato, il nostro soggetto non si
accontenta. Il soggetto modifica la foto. Applica filtri, luci, ombre
tutto perché questo possa far ottenere il risultato sperato:
“amici”, “followers”
ottenere l’attenzione dei propri , insomma ai
propri contatti virtuali. iii
Infatti, il
terzo e
ultimo step
è quello
della
pubblicazio
ne sui vari
social networks, prima fra tutti Facebook. Facebook è diventato il
palcoscenico quotidiano dell’uomo, che non vive più la sua vita
reale nel mondo reale, ma si serve dell’esperienza concreta
esclusivamente per costruire la propria vita virtuale, quella che
per lui veramente conta.
… ma ritorniamo al nostro processo psicologico che si lega al selfie.
Dopo aver pubblicato la foto, il soggetto aspetta con trepidante
attesa di ottenere riscontri positivi circa la propria immagine.
Controlla in modo smanioso ogni notifica ricevuta.
E si compiace.
Ogni like, ogni commeto, ogni tweet, ogni manifestazione di
interesse nei confronti della propria immagine è motivo di
soddisfazione. E’ motivo di fierezza. Il suo intento sta riuscendo,
sta avvicinandosi al modello che egli vuole raggiungere.
Ma il giorno dopo, quando ormai tutti avranno posto
quell’immagine nel dimenticatoio, quando nessuno darà segno di
interesse, il soggetto ricade nella stessa trappola di
autoumiliazione e autocommiserazione. Egli, quindi, ricomincia la
stessa procedura. Un circolo vizioso che rende schiavo un
individuo della propria immagine.
Narciso.
Egli si profila come un novello
iv
Il mito narra di un giovane pastore dalla
bellezza sconvolgente. Narciso non era
consapevole della propria bellezza in quanto
non aveva mai avuto modo di specchiarsi
poiché, qualora questo fosse successo, come
era stato predetto da Tiresia, egli avrebbe
trovato la morte. Un giorno, però, egli
fermatosi nei pressi di una fonte per trovar
ristoro ebbe modo di specchiarsi in una fonte.
Qui Narciso diede inizio alle proprie sofferenze.
Scorta l’immagine di un bellissimo giovane nello specchio d’acqua,
Narciso se ne innamorò perdutamente e tentava invano di
abbracciarlo, poiché ogni volta che ci provava, l’immagine si
dissolveva in cerchi infiniti nell’acqua. Narciso, successivamente,
capì: quella di cui si era innamorata era la sua immagine e ivi perì
per il dolore. Per commiserazione della terribile sorte che gli era
capitata, gli dèi diedero vita al giovane sottoforma di fiore affinché
la sua bellezza non andasse perduta.
Anche l’individuo odierno si innamora e detesta sé allo stesso
modo, ma invece che provocare la morte del corpo, egli consente,
tramite questi subdoli processi di omologazione, la morte della
propria moralità e della propria individualità.
Egli immola