Riassunto esame Teorie e Tecniche del Giornalismo, prof. Agostini, libro consigliato Giornalismi
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Quando il giornale smette di essere bottega artigiana non può che esserci uno
spostamento di potere. Se la bottega diventa impresa, se la creazione artigianale
diventa industria, il primato di potere si sposta.
Oggigiorno pochi grandi settori e pochi grandi gruppi detengono il potere editoriale
italiano. Situazione molto diversa rispetto alle mille testate degli anni Settanta. Si
tratta di una situazione non ancora digerita.
Questi pochi gruppi dettano le regole e tali regole sono legate a motivi
economico-finanziari. Ma vendite e acquisti si realizzano ormai su basi totalmente
diverse rispetto a quanto siamo stati abituati per anni.
Passaggio decisivo che deve essere schematizzato in fasi:
Il primo passaggio avviene con la differenziazione e con l’espansione multimediale
delle aziende editoriali. Si parla della carta perché i due colossi televisivi restano al
palo nella seconda metà degli anni Novanta. La Rai ingessata dal controllo pubblico
che nessuno ha mai voluto veramente scalfire. Mediaset impegnata allo spasimo nel
controllo del territorio, quello rigorosamente televisivo.
È qui che, tra il 1999 e il 2000, scattano gli editori italiani corsa ai servizi online e
alla multimedialità. Il terreno era già stato preparato e si andava verso una nuova
visione del giornale al di fuori del giornale. Prima scattano i grandi giornali poi si vanno
avanti le iniziative pionieristiche dei piccoli gruppi.
Con la differenziazione produttiva delle aziende editoriali si prepara il terreno alla
Borsa. Alla fine del 1999 quasi tutti i grandi gruppi sono quotati.
Complice l’euforia finanziaria, complice l’innamoramento per il digitale, nel campo
editoriale entrano finalmente nuovi soggetti. Situazioni di convergenza multimediale.
La televisione non è l’unico orizzonte al quale si possa guardare. Stampa, editoria,
radio, Tv, multimedialità e servizi online: il vasto conglomerato lascia intravedere
nuovi spazi di mercato, permette di intuire strategie imprenditoriali innovative.
La novità è chiara, anche se viene subito temperata dalla volatilità che s’intuisce
dietro i nuovi orientamenti finanziari. Ci sono alcune eccezioni come il caso di Borse.it
ma sono rare.
Passata l’euforia internettiana, spigolature, segni e novità hanno smesso di essere
interpreti, almeno sui quotidiani.
2. Un settore con valenze non industriali
Nel 1989 esce un documento: la Commissione Cultura del Parlamento realizza
un’indagine conoscitiva sul Sistema dell’informazione in Italia. Quel testo potrebbe
essere preso a sintesi una stagione. Conteneva indicazioni precise sull’articolazione
che avrebbe potuto prendere tanto la legge sul sistema radiotelevisivo e su una
normativa antitrust. Riportava anche con rigore e lucidità insoliti, giudizi decisivi
sull’informazione in Italia.
Da questa indagine emergeva che “fino agli anni Ottanta il monopolio Tv e la realtà di
un sistema editoriale finanziariamente passivo e vivo prevalentemente grazie ai
contributi dello Stato, hanno dato al settore i contorni e la definizione di un settore con
valenze non industriali e con investimenti finalizzati a ritorni non tanto di natura
economica, ma piuttosto politica e culturale”.
Definizione in contrapposizione tra il termine settore e il termine sistema: editoria e
media erano settori, non sistemi. Pesavano poco o nulla sull’economia italiana, non
avevano valenza industriale; se contavano qualcosa era perché qualcun altro faceva
politica e cultura.
Si parla quindi di un settore che doveva ancora diventare sistema negli anni Ottanta.
Tre sono i fattori che cambiano volto al sistema dei media, anzi lo creano per la prima
volta in Italia:
1. L’esplosione del mercato pubblicitario;
2. L’introduzione delle tecnologie elettroniche sui quotidiani;
3. L’incredibile espansione diffusionale.
L’esplosione pubblicitaria è storicamente legata al genio imprenditoriale di Silvio
Berlusconi che crea Publitalia. Nessuno si era mai sognato prima di allora di andare a
cercare, uno per uno, i potenziali utenti pubblicitari; nessuno aveva costruito per loro
spot e campagne; nessuno aveva mai messo loro a disposizione registi e attori,
pianificatori media e venditori invenzione e creazione praticamente dal nulla del
mercato pubblicitario dei media.
Il flusso televisivo si avvia con la pubblicità. È una novità sul piano economico e
strutturale. La pubblicità non è soltanto offerta commerciale. La promozione dei
programmi non soltanto invito all’ascolto, è anche costruzione forte d’identità di rete,
di canale, di testata.
Un’altra innovazione è la legge 5 agosto 1981, n.416 “Disciplina delle imprese
editrice provvidenze per l’editoria”. È una legge che arriva dopo dieci anni di
battaglie, guidate dal sindacato dei giornalisti. Un decennio di mobilitazione per avere
una legislazione antitrust nel settore dell’editoria quotidiana e periodica. È una legge
che fissa per la prima volta limiti antitrust nel comparto editoriale, anche se limiti
insufficienti, ma che portano con loro la prima sistemazione la prima regolarizzazione
dei contributi pubblici alle imprese editoriali.
Vengono investiti dei soldi nell’editoria grazie alla prima regolazione dei contributi
pubblici alle imprese editoriali risanamento e ristrutturazione tecnologica del settore.
Venivano stabilite le condizioni per introdurre le tecnologie elettroniche in redazione. Il
processo tecnologica cambia radicalmente il processo tipografico tradizionale.
Nel 1981 cambia tutto. Un grappolo di fattori concomitanti innescano il mutamento:
Nasce un vero e proprio sistema televisivo misto, sebbene destinato ad essere
regolamentato dal duopolio.
Nasce un sistema di raccolta pubblicitaria finalmente industriale.
Si espandono possibilità concrete di sviluppo commerciale per tutti i media nel
loro complesso. Il settore più arretrato, quello dell’editoria a stampa, trova i
mezzi per finanziare l’innovazione tecnologica.
Pubblicità e tecnologie permettono di vedere prospettive industriali fino ad allora
impossibili. Nascono per esempio le sinergie. Il settore arretrato dell’editoria si
risolleva e anche i giornali locali hanno vita più facile.
Si passa gradualmente da settore a sistema.
3. Anni di piombo. Quando sferragliavano le linotypes e i giornali erano in crisi
Cause della crisi del giornalismo degli anni Settanta:
• Conflittualità sul piano delle relazioni industriali;
• Ostacoli all’ingresso delle nuove tecnologie;
• Rigidità derivanti dal prezzo amministrato e impossibilità di trasferire
tempestivamente in avanti gli aumenti intervenuti dei costi;
• Scarsa dinamica della produttività connessa alla non favorevole situazione del
mercato sul piano della domanda;
• Assenza di un piano organico dotato di strumenti di intervento finanziari e
sociali, in grado di assecondare gli sforzi di riorganizzazione e ristrutturazione
delle imprese finalizzati al ripristino degli equilibri economici;
• Marcata contraddizione tra un’economia entrata nella fase post-industriale del
terziario avanzato ed una struttura dei servizi incapace di adeguarvisi, con
effetti particolarmente penalizzanti nel settore giornalistico.
Il giornalismo italiano è stato per lungo tempo un giornalismo a diffusione limitata e a
grande soggezione politica. Rapporto di subalternità e scambio tra editori e potere
politico con l’atteggiamento ambiguo del giornalismo.
I giornalisti italiani non hanno saputo, voluto e potuto sviluppare una significativa
autonomia professionale fino all’inizio degli anni Ottanta. Due fattori sono da
analizzare:
Il prevalere di modelli di un giornalismo fatto per una ristretta cerchia di lettori,
→ incapace di proporre soluzioni appetibili per un pubblico di massa.
Una grandissima dipendenza dal mondo politico per motivi economici e per una
→ storica subalternità culturale al mondo politico. Il teatrino politico: una lunga
stagione nella quale il giornalismo vive su tre basi: tecnica, politica e culturale.
Un paio di esempi sostengono le interpretazioni storiche e sociologiche:
• Il pastone: nato appena dopo la Liberazione, è un articolo in cui sono
concentrate tutte le notizie politiche di giornata. Nasce nei primi giorni non
sottoposti alla dittatura fascista e in cui non ci sono molti mezzi a disposizioni:
mancano carta, inchiostro, tipografie. Nasce quindi dall’esigenza di dire tutto in
poco spazio. Questo genere è però sopravvissuto e vive ancora oggi.
Il pastone presuppone attiva partecipazione e passione del lettore che per
capirlo deve essere pratico di politica. Oggi, che l’interesse è molto scemato, a
cosa serve?
• L’elzeviro: articolo culturale d’élite di terza. Si trova in mezzo alle cronache.
Esempio di un giornalismo che ha avuto la pretesa di essere d’élite.
Due vizi d’origine del giornalismo italiano che pretendeva di essere d’élite:
Assoluto disinteresse degli editori ad allargare il mercato e fare del giornale un
o prodotto in grado di essere venduto a un pubblico più vasto.
Incapacità dei giornalisti di inventarsi la lingua, i temi, gli spazi, i formati per
o cercare un pubblico più vasto.
4. La breve stagione del sogno
Negli anni Ottanta cambia tutto per davvero. Accanto alla televisione pubblica nasce
quella privata, che prende rapidamente le forme di un solo antagonista della Rai. Le
risorse pubblicitarie diventano motore principale per i media. Il panorama mediatico è
finalmente diversificato.
È in questo decennio breve, di rapida e generale effervescenza mediatica, che il
giornalismo italiano cambia pelle, illudendosi per un attimo di poter essere da solo
l’artefice del proprio rinnovamento. Nutre per poco il sogno d’essere, in piena
autonomia, creatore del proprio destino.
L’idea e l’illusione del quotidiano che scopre il gusto di raccontare il paese e per
questo si fa comperare, ma solo dai lettori. Il giornale che sceglie e prende posizione e
proprio perciò trova pubblico e mercato. Il giornale che nasce dall’idea di un
giornalista e del gruppo di giornalisti raccolti attorno al fondatore, e da quell’idea
riesce a cavare un progetto imprenditoriale, fondendo cultura e impresa.
Repubblica trasforma un’operazione culturale in strategia industriale.
Due date simboliche, che includono la breve stagione del sogno:
Il 5 agosto 1981: quando esce la legge sull’editoria 416. Da una parte arrivano i
finanziamenti pubblici che permettono il risanamento delle imprese editoriali,
dall’altra giunge finalmente la prima normativa antitrust.
Il 1° dicembre 1989: quando si conclude la breve stagione del sogno.
Il culmine arriva quando il giornale di Scalfari diventa davvero mainstream per il
giornalismo italiano, quando inizia per davvero a fare scuola, a diventare modello e
termine di riferimento per tutti gli altri. e il sogno non finisce quando cambia l’assetto
azionario di Repubblica. Lì si interrompe piuttosto la prima fase di una vicenda
imprenditoriale. Il sogno svanisce quando è chiaro che nell’editoria italiana ci sono
condizioni che neppure lo strepitoso successo del quotidiano di Scalfari ha mutato.
Il sogno aveva preso corpo quando altri avevano potuto pensare di emulare quella
vicenda e s’interrompe quando ritorna evidente come nessuno, neppure Repubblica,
può sfuggire all’anomalia italiana.
Gli anni delle battaglie prima della legge 416 sono stati gli anni di piombo, un’etichetta
che rende bene la cupa atmosfera che il terrorismo aveva imposto al paese, ma lascia
in ombra l’altro volto degli anni Settanta: un vero e proprio crogiuolo dove accadde di
tutto.
In quegli anni, per la prima e unica volta in maniera così vasta, il giornalismo italiano
vive una fase di protagonismo collettivo. La battaglia per la legge sull’editoria e la
stampa accomuna tutti. Il conflitto è sui temi, più che sulle posizioni: l’informazione
giornalistica come strumento essenziale di partecipazione democratica, la richiesta di
una legislatura antitrust negli anni dei giornali “comprati e venduti”, la rivendicazione
del lavoro giornalistico come lavoro intellettuale collettivo il giornale viene visto
come una macchina collettiva complessa, il cui compito è raccontare e interpretare
quotidianamente il mondo.
A questo clima, di suo Repubblica aggiunge due elementi fondamentali:
Le straordinarie capacità giornalistiche di Eugenio Scalfari.
L’attenzione alla dimensione d’impresa.
In dieci anni la formula Repubblica diventa quella vincente su tutta la scena
giornalistica.
È dentro un’atmosfera febbrile, effervescente e attenta ad ogni manifestazione di
creatività e indipendenza giornalistica che Repubblica s’impone, trovando per altro un
buon contraltare del Giornale di Montanelli.
Montanelli solo in parte, Scalfari completamente, i due giornalisti dimostrano
comunque che fare un giornale non è indispensabile il solito industriale che voglia
scambiare favori con il potere politico.
Il 1° dicembre 1989 quando esce la notizia di un rovesciamento di fronte dentro la
grande Mondadori. La Fininvest di Berlusconi s’accorda con Luca Formenton e
Leonardo Forneron Mondadori. I due cugini rompono il patto di sindacato che li legava
a De Benedetti, portando così Silvio Berlusconi alla presidenza della Mondadori.
Mondadori era da sempre socio importante del Gruppo l’Espresso – Repubblica. Poi,
nella primavera dell’89, Caracciolo e Scalfari vendono a De Benedetti le proprie quote
di Espresso – Repubblica. Caracciolo diventa presidente della Mondadori. Scalfari entra
in consiglio di amministrazione. E infine, quel primo dicembre arriva il ribaltone.
Con il controllo di Berlusconi sulla Mondadori nasce un Moloch multimediale.
Fininvest possiede per proprio conto i tre network televisivi commerciali, un
quotidiano a diffusione nazionale, il Giornale, il più diffuso settimanale, Sorrisi e
Canzoni TV, e la concessionaria Publitalia.
Mondadori possiede e controlla i tre principali settimanali d’informazione (L’Espresso,
Panorama, Epoca), l’allora più diffuso quotidiano nazionale, la Repubblica, tredici
testate locali e la concessionaria di pubblicità Manzoni.
l’appartamento tra i due gruppi crea la maggiore concentrazione multimediale
italiana.
Nell’agosto 1990 arriva la legge Mammì.
Il 29 aprile 1991 arriva una soluzione. La politica, fatta uscire dalla porta è entrata
dalla finestra la breve stagione dei giornali che scrivono di politica senza rendere
favori alla politica, segno più forte dei giornali che sanno stare sulle proprie gambe,
quella stagione è finita. Per tenere il controllo del proprio Gruppo, anche gli editori più
autonomi, anche Caracciolo, Scalfari e De Benedetti, devono ricorrere ad una
mediazione politica.
5. Processo e prodotto: il giornalismo nell’industria editoriale
Anni Ottanta, cambiamenti epocali del sistema dei media e del mondo giornalistico.
Molte polemiche e dibattiti sul cambiamento dei giornali: non si vedevano gli aspetti
positivi. Robusta crisi delle vendite. Le cause di tutto ciò sono complesse.
Fino a quando il Paese è cresciuto, i media sono stati al passo. Nel momento in cui, con
la crisi degli anni Novanta, la crescita s’arresta, i media non sanno rinnovare l’offerta.
L’espansione economica crea nuovi bisogni sociali, la recessione li contrae. E i
consumi seguono a ruota, inclusi quelli mediatici e di informazione. Peccato però che,
nei media italiani la consapevolezza di vivere oramai in una dimensione di mercato
fosse poco diffusa.
Il mercato era una dimensione verso la quale le redazioni nutrivano atteggiamenti
oscillanti, a seconda dei casi, tra l’ignoranza, l’indifferenza e la malcelata diffidenza.
La condizione diffusa agli inizi degli anni Novanta era l’urgenza quasi drammatica di
rinnovare l’offerta d’informazione, nella difficoltà via via crescente di liberare la
creatività giornalistica capace di assumersene il carico.
Carlo Lombardi, vicepresidente della Federazione degli editori, scorse in anticipo le
ragioni delle difficoltà che stavano rivelandosi. Lombardi annotava come l’innovazione
tecnologica, cambiando drasticamente il modo di fare giornalismo e produrre giornali,
avesse comunque privilegiato più il processo che il prodotto le tecnologie editoriali,
finalmente arrivate nelle redazioni e nelle tipografie, erano state finalizzate quasi
esclusivamente alla razionalizzazione dei processi produttivi. La qualità del prodotto
non era invece mai comparsa tra le priorità, dove qualità sta per capacità di
differenziazione, innovazione e creare prodotti editoriali in grado di stimolare anche
nuovi bisogni d’informazione, non solo di rispondere a domande già esistenti. La
diagnosi di Lombardi è straordinariamente simile a quella del Censis.
Due esempi spiegano bene le condizioni che hanno portato alla flessione tra il ’90 e il
’97. La crisi fu dovuta anche all’aumento dei costi e in alcuni casi alla parziale
contrazione della pubblicità, eppure nella prima metà degli anni Novanta le difficoltà
maggiori vengono dal fronte dei contenuti.
Il primo esempio viene dai quotidiani locali: le sinergie, la produzione
centralizzata di materiali comuni per più testate locali appartenenti allo stesso
gruppo editoriale, modificano profondamente il ciclo produttivo e
l’organizzazione dei quotidiani locali. Quelli tradizionali, quelli già radicati, non
hanno bisogno di organici pesanti, destinati a coprire tutta l’offerta informativa:
interni, esteri, sport, spettacolo e inserti speciali, che vengono realizzati ora
dalle redazioni centrali del gruppo, oppure redistribuiti tra le varie testate
appartenenti alla stessa catena. S’abbassano così i costi di produzione, ma
soprattutto aumenta l’offerta di informazione locale, cittadina, provinciale,
regionale. Aumenta però anche la foliazione e il risultato è quasi sempre il
medesimo ovunque: le redazioni sempre più impegnate al desk, il lavoro di
cronaca affidato a collaboratori avventizi, precari è il processo che vince sul
prodotto. Le cronache sono affidate a pochi cronisti interni e moltissimi esterni.
Gli esterni hanno poche o nulle tutele contrattuali, ma non hanno soprattutto
voce in capitolo nell’ideazione e nella progettazione del giornale.
Tra gli anni Ottanta e il decennio successivo, i cronisti sono sempre meno
giornalisti inquadrati contrattualmente nell’organico redazionale. La maggior
parte di loro sono invece esterni, avventizi, precari, abusivi.
Il secondo esempio è il caso delle promozioni editoriali: scoppiano dalla seconda
metà degli anni Ottanta. L’anno di svolta è il 1987, parte per primo Repubblica
con un gadget, Portfolio. Risponde poco più tardi il Corriere e raddoppia. Tutto
ciò fa passare in secondo piano la coltivazione di una comunità di professionisti
mentre si punta tutto sugli strumenti di marketing per aumentare gli introiti.
Non contano più professionalità, bravura nello scrivere e nel creare articoli,
reportage, editoriali, elzeviri etc.
L’editoria diventa un’industria, il giornale diventa un prodotto industriale.
Ancora comunque il marketing doveva ben integrarsi con il sistema
giornalistico.
Oggi si sono stabilite delle soglie nel marketing del giornalismo: una soglia alta,
quelle delle strategie che potenziano le caratteristiche intrinsecamente
giornalistiche del prodotto editoriale, una soglia bassa, quella che non incide per
nulla sui contenuti, ma mira soltanto ad attirare il lettore con offerte di natura
completamente diversa.
Lombardi aveva ragione, ma solo in parte. Il suo giudizio oggi va rivisto: l’innovazione
tecnologica ha innescato una modificazione profonda del processo produttivo dei
giornali, ma lì è partita anche una lunga stagione di mutamenti, al termine della quale
lo stesso prodotto risulta radicalmente cambiato. Magari è meno giornalistico nel
senso tradizionale del termine; eppure oggi è davvero cambiato tutto: processo,
prodotto, produttori e forse anche consumatori.
6. Tra due crisi?
Storia della stampa italiana di Valerio Castronovo e Nicola Tranfaglia lavoro completo
e documentato dal punto di vista della ricerca storica. Per essi, gli elementi
d’innovazione sono evidenti: l’introduzione delle tecnologie elettroniche, l’aumento
della foliazione, delle rubriche, dei servizi, degli inserti e dei supplementi, il
rinnovamento grafico, l’ampliamento dei temi.
Per quanto sia cambiato, il giornalismo italiano ha vissuto comunque una stagione di
mutamento che è come racchiusa tra due crisi: quella di partenza, alla metà degli anni
Settanta, e quella nella quale è ripiombato a metà degli anni Novanta.
Ci sono molti elementi di continuità: non sono mutati gli assetti delle proprietà
editoriali; il mercato editoriale e la diffusione della stampa rimangono angusti;
s’acuisce il divario tra Nord e Sud del Paese; il quadro legislativo continua a fare
acqua. Molte preoccupazioni relativamente alla salute del sistema editoriale.
Ma tra il 2000 e il 2001 il sistema presenta caratteri di netta, radicale diversità. Nel
mercato pubblicitario il sistema ha trovato nuovi equilibri. L’Italia del Sud continua a
leggere meno dell’Italia del Nord, e in tutto il Paese si vendono ancor meno copie di
giornali che nel 1990. Questi sono elementi di continuità sicuri. Eppure accanto a
questi, se ne trovano molti altri di sicura, radicale discontinuità.
Il settore pubblicitario è molto rilevante: tra il ’98 e il ’99 i ricavi pubblicitari
aumentano del 30,2%. Un risultato eclatante i cui effetti sono però forse meno duraturi
del fatto che nel 1999 le entrate pubblicitarie superino per la prima volta nella storia
del giornalismo italiano quelle delle vendite. Nel ’97 la pubblicità fa entrare nelle casse
dei giornali il 46% dei ricavi, nel ’98 si raggiunge il pareggio, l’anno dopo arriva il
sorpasso.
Le conseguenze sono chiare: la stampa quotidiana si avvicina inesorabilmente ai
modelli di reddittività delle altre imprese editoriali nel settore dei media. Novità
profonda e sconvolgente.
La svolta più radicale viene poi con la progressiva quotazione in Borsa dei grandi
gruppi editoriali e con la loro espansione nei servizi digitali e online.
Ci sono delle eccezioni: il Gruppo del Sole 24 Ore per i contratti interni a Confindustria;
Rcs-Corriere della Sera per i rapporti con la controllante Hdp e per gli incerti destini
della famiglia Romiti che ne ha oggi la guida; la Rai perché per la sua collocazione nel
gruppo pubblico radiotelevisivo. Con queste eccezioni comunque il nuovo millennio si
apre con tutti i più grandi gruppi quotati in Borsa.
Lunedì 10 settembre 2001 Corriere Economia esce con un dossier sul ribasso
clamoroso dei titoli editoriali.
Nella seconda metà degli anni Novanta un insieme composito di fattori, talvolta
eterogenei, converge a modificare profondamente i modelli di redditività dei gruppi
mediatici. Cambiando quei modelli, non possono che mutare anche le strategie delle
politiche editoriali e quindi anche i rapporti di potere.
La quotazione in Borsa porta altre novità, come la radicalizzazione dell’oligopolio
dell’informazione e dell’intrattenimento, in cui i grandi continuano a mantenere
interessi industriali e finanziari in altri settori, oltre all’editoria.
In conclusione non si può chiudere il cambiamento nella cornice delle due crisi perché
è qualcosa di più radicale e duraturo.
7. Il duopolio monopolistico
La stampa è ormai succube della tv: è quest’ultima ormai a fissare l’agenda della
stampa.
I media events decretano la supremazia del mezzo televisivo su qualunque altro
medium in ciò che è prevedibile, tendenzialmente eccezionale, ma soprattutto
possibile di trasmissione in diretta.
I giornali rimangono succubi. Qualunque notizia che riguardi l’universo televisivo
finisce in prima pagina, e senza più troppe distinzioni tra le notizie che riguardano il
mondo e quelle che riguardano, invece, chi il mondo lo mostra o racconta attraverso la
televisione.
È vero che i giornali italiani siano stato sottoposti ad una straordinaria pressione dallo
sviluppo impetuoso e rapidissimo della liberalizzazione televisiva. È anche vero che la
risposta a quella pressione sia stata culturalmente debole, che il giornalismo non abbia
saputo trovare rapidamente percorsi autonomi e ridefinirsi.
È meno verosimile tuttavia che tutto questo sia avvenuto soltanto in forza delle
caratteristiche tecniche del mezzo televisivo: non è la tempestività, la rapidità, la
simultaneità, a dettare da sola le condizioni del suo rapporto con la stampa. Ancor
meno quelle condizioni possono essere rintracciate nel passaggio dalla paleo alla
neotelevisione.
La neotelevisione è però per forza di cose quella che dilaga sulle pagine dei giornali: lo
sviluppo impetuoso del mercato pubblicitario muta davvero in profondità il modo
stesso di fare e concepire le comunicazioni di massa in Italia.
Più che una subalternità della stampa minoritaria alla televisione, tra la metà degli
anni Ottanta e la metà degli anni Novanta vediamo piuttosto qualche cosa di più
profondo e radicale. Sotto i colpi del conflitto Rai e Fininvest non cade soltanto
l’intento educativo del servizio pubblico radiotelevisivo, ma finisce in pezzi anche
qualunque altra idea televisiva che non sia quella generalista.
Muore sul nascere qualunque spunto per un progetto editoriale tematico o di target, e
questo avviene tanto in tv quanto nell’editoria.
Sotto i colpi di questo conflitto emergono due fenomeni molto importanti:
La nuova idea di mercato televisivo.
→ La centralità delle concessionarie pubblicitarie in un settore così delicato
→ dell’industria culturale.
La televisione generalista si afferma con il duopolio, e diventa l’unico possibile modo di
essere della Tv e per estensione di tutti gli altri media. La situazione di duopolio cela in
realtà dietro di sé una condizione di monopolio assoluto prima delle risorse
pubblicitarie, poi sui contenuti, quindi sulle forme di sviluppo dell’intero sistema dei
media in Italia.
Questa situazione resta tale fino alla seconda metà degli anni Novanta. Nel campo
strettamente televisivo il duopolio monopolistico mantiene inalterata la sua forza
addirittura nel nuovo decennio, che ha affermato in Italia una sola forma di televisione
su tutte le altre possibili. Ha giocato a lungo e decisamente sulle forme economiche
dell’intero sistema dei media nel nostro paese, imponendo la massificazione delle
risorse pubblicitarie con un unico modello imprenditoriale, e innervandosi
inestricabilmente nelle vicende e nei destini del sistema politico.
Alla tv si sono combattute partite economiche e politiche decisive giornalismo non
poteva non esserne influenzato.
8. La manutenzione dei luoghi comuni
Come dice Eco “non esistono più i fatti” perché ciò che rende tale un fatto è la sua
notiziabilità, la capacità di suscitare l’interesse dei media.
Una redazione seleziona le notizie da mettere in pagina sulla base di due grandi
imperativi:
Rendere i fatti lavorabili nell’arco della giornata;
→ Cercare di stare in sintonia con ciò che il mondo si aspetta.
→
Convinzione ben radicata che nulla esiste se sta sui media:
• Versione popolare;
• Versione più raffinata.
Se ci sono eventi molto forti per l’opinione pubblica, questi prendono il sopravvento su
qualsiasi altra notizia. Si mette in secondo piano la normalità mentre si amplia in
maniera enciclopedica l’informazione su un certo evento. Esempio, 11 settembre
2001.
I momenti eccezionali sono appunto eccezionali, da rientrare subito nello schema delle
priorità: l’emergenza crea una soglia di attenzione più alta rispetto a quella normale
ed è qua che i media devono rispondere alle esigenze di informazione. I media sono
fondamentali in questi momenti perché orientano l’opinione pubblica.
Ragionamento del Censis di Giuseppe De Rita: quando accadono eventi che si
impongono quasi automaticamente all’opinione pubblica, la capacità di racconto e
analisi del giornalismo italiano rimane a livelli accettabili. Quando la cronaca si
impoverisce, si atrofizza la capacità di descrizione e interpretazione.
2. In redazione
1. Piazza Indipendenza: il giornale partito
Il 14 gennaio 1976 esce Repubblica. È un quotidiano smilzo di ventiquattro pagine
poco più. Vivacchia a stento i primi due anni, anche se flirta con successo con l’area
socialista e con quella del Movimento del ‘7.
Arriva il 16 marzo 1978: Moro viene sequestrato. Repubblica è uno dei giornali della
fermezza contro le richieste delle Brigate Rosse, come altri quotidiani, il Corriere in
testa. Questi quotidiani respingono sia le richieste di pubblicazione dei comunicati
delle BR, sia le proposte di trattative tra Stato e BR, sostenute con maggior forza dal
Psi di Craxi.
Nel 1978 Repubblica sale dalle 80-90mila copie alle 145mila. E continua a crescere
negli anni successivi.
Costruisce le sue fortune proprio sulla formula politica. repubblica fa politica davvero.
Fa politica chiaramente sin dagli esordi. C’è l’autocollocazione nella vasta area della
sinistra, esplicitata nell’editoriale di presentazione del giornale. Ci sono poi gli atti
concreti: il 20 giugno 1976 Scalfari firma il fondo, l’appello al voto. Dice chiaramente
che tutti gli altri quotidiani ravvisano nella Dc la colonna dell’ordinamento democratico
e sostiene che la Dc non è più il pilastro della democrazia italiana, anzi, rischia di
esserne il becchino. Chi spera e vuole specifici progressivi deve dunque volere
adeguati mutamenti politici e comportarsi di conseguenza.
Mercoledì 23 giugno 1976 Giorgio Bocca è tutt’altro che delicato usando parole dure
nei confronti di Bettino Craxi. Nel 1979 Giampaolo Pansa mette impietosamente e
drammaticamente sotto accusa quella stessa sinistra. Tanti da sinistra gli spararono
addosso.
Questi sono tutti esempi per capire come Repubblica sia diventato il punto di
riferimento per tutta la sinistra.
Repubblica era un giornale che faceva politica, ma imponendo una presenza politica
autonoma. Nulla, o quasi, del collateralismo storico dei quotidiani italiani verso il
partito di maggioranza o di opposizione. Non legata al carro delle coalizioni
tradizionali. Capace di leggere e raccontare umori della politica italiana senza inserirsi
organicamente dentro una corrente o dentro uno schieramento, com era stato, sul
versante delle opposizioni, nella tradizione del giornalismo italiano di sinistra.
Ugo Intini accusava Repubblica di essere il giornale partito o peggio il partito
responsabile dell’informazione: pretendeva che Repubblica fosse semplicemente una
posizione politica, una delle tante voci del coro e neppure sottoposta al giudizio degli
elettori. Non era del tutto fuori segno, ma non aveva capito la molla in più non aveva
compreso lo scarto che aveva fatto di un giornale politicamente orientato un
quotidiano che poteva indirizzare ben più di una scelta di voto. C’era ben più di un
orientamento politico dentro le posizioni e l’influenza di Repubblica.
Formula imposta da Repubblica al giornalismo italiano: settimanalizzazione dei
quotidiani trasmutazione di stili, formule e temi dal giornalismo settimanale a
quello quotidiano. Certi tratti caratteristici di Repubblica sono presi pari pari
dall’Espresso vecchia maniera. Ma scavando un po’ più a fondo si arriva a conclusioni
più radicali: lo stile è la manifestazione di una operazione cognitiva. Il giornale di
Scalfari si è sempre sforzato di trasformare la notizia in un tema, oppure, più
precisamente, di fare un evento-notizia.
Repubblica si è mossa fin da subito contro il tratto distintivo della tradizione del
giornalismo italiano: giornale come neutrale registratore dei fatti salienti accaduti il
giorno prima. Attraverso le tecniche stilistiche ogni notizia diventava una storia in sé
conclusa, con attacco, svolgimento e fine.
Erano giustapposti, senz’altro schema logico se non quello della divisione del lavoro
delle diverse redazioni, i resoconti di un mondo che dava invece sempre più il segno
della frammentazione.
Repubblica rompe immediatamente questo schema. Innanzitutto nel giornale non
c’era tutto: soltanto i temi e le notizie importanti. Quegli stessi temi erano poi trattati
con schemi radicalmente innovativi per il giornalismo italiano. Ci si focalizzava su
determinate notizie e se ne parlava per più articoli e più pagine sottolineando quindi
l’importanza di quel tema per quel giorno.
Le singole notizie cedevano il passo alla tematizzazione, alla costruzione di un
imponente approfondimento giornalistico attorno al tema, o ai temi, di giornata.
Ciò portava alla costruzione esplicita di un’agenda di priorità.
Quella che ne emerge è una scrittura differente rispetto a quella della tradizione del
giornalismo quotidiano: una scrittura di settimanale, ricca di aneddoti, colori,
retroscena, particolari sui personaggi. Ricca di scrittura e narrativa diverso approccio
cognitivo e modo diverso di affrontare il mondo.
Repubblica non era più il giornale al quale era affidato di raccontare obiettivamente
tutto quello che era accaduto il giorno prima. Il nuovo quotidiano raccontava soltanto
ciò che di realmente importante era accaduto il giorno precedente e di quei fatti
raccontava tutto.
È chiaro che tutto si giocasse sull’agenda, sulle motivazioni che dovevano spingere
redazione e lettori a dare così tanta visibilità a un determinato fatto rispetto che a un
altro.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher DeliaLeggio di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Teorie e tecniche del giornalismo e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Libera Università di Lingue e Comunicazione - Iulm o del prof Agostini Angelo.
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