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Finito il mondo bipolare, la conservazione dell’egemonia economica e monetaria statunitense si è fatta molto più
complessa: la presenza militare lungo l’asse del male ha un costo esorbitante per la finanza pubblica statunitense,
ulteriormente stremata dopo il credit crunch del 2007, nonostante il contributo dei Paesi interessati al
mantenimento dello status quo, che si manifesta con la stabile detenzione di titoli del debito pubblico statunitense
a lungo termine.
Nella seconda metà degli anni Duemila il volume dei mutui immobiliari raggiungeva il valore del PIL statunitense.
L’estrema disponibilità di mutui a condizioni agevolate ha comportato una riduzione della proprietà in una specie
di conto corrente: l’aumento di valore dell’immobile fa sì che i cittadini si sentano sempre più in grado di indebitarsi
fornendo la loro abitazione come garanzia, alimentando con l’indebitamento il mercato dei derivati. L’ingresso del
flusso strategico di denaro nel mercato dei derivati viene facilitato ad ogni costo, anche abbassando continuamente
il livello di garanzia richiesto per l’accesso al credito immobiliare, fino ai famigerati mutui ninja (no income, no job,
no asset). I mutui subprime vengono garantiti da Fannie Mae e Freddie Mac, le GSE dell’immobiliare, che con le
loro ulteriori cartolarizzazioni non fanno altro che lubrificare il meccanismo del debito. I mutui gonfiano gli utili
delle banche commerciali e d’investimento, facendo salire le loro quotazioni azionarie, che di riflesso confermano
la redditività degli investimenti nei derivati nel mercato-ombra. La fallacia della statistica ufficiale è essenziale per
il buon funzionamento del sistema, modificando legalmente la percezione della realtà economica: per questo,
sebbene sia foraggiato della liquidità artificialmente pompata nel settore, l’incremento dei prezzi si traduce in una
crescita dei valori monetari delle case percepita come reale, che mantiene elevata la domanda di abitazioni. Non
c’è però nessuna crescita demografica che possa dare ragione dello spettacolare raddoppio dei prezzi delle
abitazioni tra il 2000 e 2005: per questo a partire dal 2007 gli acquisti diminuiscono e i prezzi delle case crollano
decisamente verso il basso. Questo fa crescere la propensione alla vendita dei proprietari che avevano acquistato
per speculare, ma anche dei detentori di mutui ipotecari, che si vogliono liberare degli immobili prima che il loro
valore di mercato scenda al di sotto dell’importo del mutuo sottoscritto. La sospensione dei pagamenti dei mutui
(quelli di valore superiore agli immobili di riferimento) innesca lo sgretolamento del credito, di fronte alla quale la
banca ipotecaria non ha altra alternativa che la vendita giudiziaria dell’abitazione per recuperare al più presto
liquidità. L’insolvenza dei mutui ha ulteriormente accentuato la caduta dei prezzi, incrementando ancora la
propensione all’insolvenza e alle vendite; così fino al trasferimento della crisi della liquidità, che dal mercato
immobiliare affluisce a quello dei derivati, giungendo così al credit crunch. Durante il 2007 è stata colpita
soprattutto la fonte di liquidità derivanti dai mutui subprime, che forniva la componente maggiore di redditività e
più a rischio: l’improvviso inaridimento della vena principale toglie liquidità alla ramificazione e stratificazione dei
CDO, amplificando gli effetti dello sgretolamento del credito. L’illiquidità si manifesta in modo imprevedibile sui
derivati, poiché nessuno sa quale sia la composizione dei vari titoli e in che misura essi siano contaminati dagli asset
dei mutui inesigibili. Il sospetto sugli asset rallenta gli scambi e accelera la caduta delle quotazioni dei derivati;
l’andamento negativo dei prezzi e la necessità di far cassa spinge ulteriormente al ribasso le quotazioni.
L’impatto sul sistema economico e finanziario della crisi dei subprime è ulteriormente amplificato dall’interazione
con eventi esogeni che giungono a maturazione nello stesso periodo, ma che avevano iniziato a manifestarsi a
partire dagli anni 2000. Il riequilibrio dollaro-centrico derivante dalla ingresso della Cina nel WTO e della messa
fuori gioco dell’euro aveva subito una brusca battuta d’arresto dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Il proposito di
mettere sotto controllo i flussi monetari offshore dopo l’attentato aveva infatti allontanato da Wall Street i flussi di
riciclaggio internazionale, che virano verso piazze finanziarie meno inquisitive; la leva monetaria USA agisce in senso
espansivo per supplire alla riduzione della liquidità estera, in modo da sostenere il cash flow necessario al mercato
dei derivati. Il prezzo del petrolio in dollari, che nei due decenni precedenti era rimasto stabile, triplica, e la funzione
del dollaro come moneta di riserva appare nuovamente incerta. La svalutazione del dollaro ha come conseguenza
la crescita del debito pubblico, che durante la presidenza Clinton era stato messo nuovamente sotto controllo,
grazie alla riduzione della spesa e all’aumento della pressione fiscale. Dopo il 2002 la FED, per cercare di arginare il
circolo vizioso di svalutazione e deflusso monetario, è costretta a innalzare stabilmente il tasso di rendimento dei
titoli del debito pubblico, pesando sul deficit e facendo raddoppiare in pochi anni il debito pubblico. La crescita del
debito pubblico rafforza il pessimismo sulla tenuta del dollaro, del mercato finanziario e dell’economia.
Se si vuole evitare la bancarotta, non sembra esserci altra soluzione che il salvataggio generalizzato delle banche
d'investimento, fornendo la liquidità mancante per l'insolvenza dei mutui. In questa logica si collocano il salvataggio
di AIG, la più grande compagnia di assicurazioni al mondo, e delle due GSE dell'immobiliare, Fannie Mae e Freddie
Mac, che vengono di fatto nazionalizzate e poste sotto l'amministrazione controllata del Tesoro e poi della FED.
L'intervento a sostegno del settore mutui, anello di congiunzione tra mercato immobiliare e mobiliare, è stato
decisivo per arginare la diffusione delle insolvenze e limitare gli effetti depressivi. Alcuni, specie nei mercati
finanziari, accusano la FED per il mancato salvataggio di Lehman Brothers, che avrebbe funzionato come
moltiplicatore della crisi per la sfiducia e il panico che ha diffuso. A giustificazione del mancato intervento della FED
va richiamata la difficoltà di mettere a fuoco l’entità dello scoperto di Lehman Brothers e dunque l'entità
dell'intervento necessario: era co-creatrice (insieme a LSE) del Bajkal, il più grande e opaco pool di negoziazione di
derivati. Per questa difficoltà la FED ha ritenuto che Lehman Brothers non avesse le idonee garanzie previste dal
suo statuto per accedere al salvataggio (secondo Posner, è prevalsa la cautela burocratica). Come soluzione alla
crisi, si lasciano fallire le grandi banche d’investimento, con il rischio di risucchiare nel vortice anche pezzi
significativi del sistema bancario commerciale, con conseguenti corse agli sportelli; oppure si contrasta lo
sgretolamento del credito, in modo da tenere lontani dalla tormenta i depositi di conto corrente dei privati
risparmiatori, alimentando la circolazione della liquidità nel sistema. A questo punto non sembra ci sia altra
soluzione che iniettare liquidità direttamente nel centro della crisi: si tampona la falla aperta nei conti dei principali
gruppi finanziari e bancari con reiterati trasferimenti monetari, consentendo di contenere e diluire le perdite. Il
costo di questi interventi monetari si scarica asimmetricamente sul risparmiatore, sugli investitori troppo confidenti
e sul contribuente. Questo problema sociale si risolve colpevolizzando le vittime delle istituzioni finanziarie: i
risparmiatori sono dapprima vittime consenzienti del marketing finanziario, che cattura i loro occhi e disinnesca la
mente, poi improvvisamente succubi di ondate generalizzate di panico, aderendo alle quali provocano ancora una
volta senza riflettere il loro stesso danno; la colpa non è dei ciarlatani che hanno la patente speciale per operare
nei mercati finanziari, ma di chi fa loro affidamento.
La crisi ha allontanato i clienti dal mercato finanziario, e bisogna convincerli a tornare per rimettere in moto il
meccanismo. La FED riprende ad acquistare direttamente i titoli del Tesoro, finanziando direttamente il deficit con
trasferimenti di liquidità; per alleggerire le banche d’investimento dai titoli tossici dà inizio alla politica del
quantitative easing, tramite un fondo interbancario (non iscritto al bilancio della FED per non comprometterne la
credibilità) con la missione di comprare i diritti nascenti dai mutui delle banche, liberandole così dal rischio di
credito. Quasi tutti gli Stati occidentali appaiono sempre più indebitati verso l’estero e condizionati dagli acquisti
dei loro titoli del debito pubblico da parte dei Paesi esportatori, in primo luogo la Cina, che rastrella titoli del debito
per poter giocare un ruolo rilevante nella veste di prestatore di liquidità.
Le due strade tentate dall’amministrazione Obama per la soluzione della crisi, la riattivazione dei flussi di finanza
privata e la rinegoziazione dei mutui ipotecari, sono state sostanzialmente fallimentari. Il loro insuccesso è
sintomatico della gravità della crisi interna al meccanismo di finanziamento dei derivati, e indice dell’estrema
riluttanza da parte del mercato finanziario delle banche ad adeguarsi a qualsiasi intervento esterno (anche se
governativo) che metta in discussione la loro autonomia nel regolamentare il meta-mercato. Il primo tentativo, che
ho avuto qualche risposta ma senza esito duraturo, è stato l’appello del governo alle istituzioni private detentrici di
liquidità a contribuire ad allentare la pressione sul sistema bancario. In realtà anche queste istituzioni, soprattutto
gli hedge fund, sembrano avere loro stesse problemi di liquidità: raccogliendo fondi a breve e investendo a medio-
lungo termine, gli hedge fund facevano parte più del problema che della soluzione del credit crunch. In generale i
capitali privati, anche in dollari, hanno preferito prendere altre strade rispetto al mercato di Wall Street, ed è
dunque toccato alla FED immettere liquidità nel sistema bancario.
La ristrutturazione del debito tramite la rinegoziazione del mutuo tra banca emittente e singoli mutuatari era stata
pensata per porre un freno al circolo vizioso che dalla sospensione del pagamento portava all’esecuzione
fallimentare sugli immobili, danneggiando tutti: i mutuatari, che rinunciano forzatamente alla proprietà
dell’abitazione, ma anche le banche, che non riescono così a recuperare il prestito originariamente erogato.
L’abbandono del tentativo è dipeso dall’estrema rigidità del mercato d