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PREMESSA
Il 1492 segna l'inizio di quella che la nostra tradizione storiografica definisce era moderna e che
interpreta per lo più come epoca dell'ascesa dell'occidente o del miracolo europeo. Tuttavia il
pianeta è rimasto a lungo non solo sostanzialmente policentrico, ma anche soggetto all'impatto di
intensi flussi di scambio materiale e di ibridazione culturale. Quella di matrice occidentale fu, in
altre parole, solo una delle modernità del globo, non la solo e forse non la prevalente. In accordo
con ciò, oggi nuove correnti interpretative, simultaneamente all'opera nei vari continenti, hanno
cercato di restituire alla narrazione storica quella polifonia di accenti e scenari che la tradizione
occidentale ha in genere sminuito, nel presupposto di ricavarne una dimostrazione della superiorità
occidentale.
Si parlerà sia di eventi che di interpretazioni, sia di storia che di storiografia.
1. Dalla storia universale alla World History
L'ambizione di scrivere una storia in grado di raccontare le vicende dell'umanità in un'ottica più
ampia possibile è riscontrabile sin dall'antichità: nelle Storie di Erodoto vi è la ricostruzione
cronologica degli eventi di tre continenti (costumi e abitudini dei barbari), al fine di “preservare la
memoria del passato registrando gli straordinari successi sia nostri che dei popoli asiatici”.
Contrapposto al contemporaneo Tucidide, assai grecocentrico. A giudizio di alcuni, una tale
vocazione cosmopolita non si sarebbe vista in Europa fino a Voltaire (700). Ricordare anche Sima
Quian (I sec. a.C) e Ban Gu (I sec. d.C): per lo più dediti alla storia della dinastia Han, inclusero
nelle loro trattazioni i popoli nomadi dell'Asia centrale.
La rivoluzione storiografica cristiana determinò una concezione nuova di storia, vista ora come uno
sviluppo lineare dotato di un unico inizio, la creazione, un evento centrale, ovvero la vicenda
mondana di dio incarnatosi in Cristo, e un fine ultimo, la parousia, ossia la seconda venuta di Cristo
sulla terra. Concezione che sopravvisse largamente all'interno del più popolare genere storiografico
medievale (le cronache). Ricorda le coeve tradizioni storiografiche cinese e islamica: la prima
essenzialmente sinocentrica, secondo una visione del mondo gerarchica che vedeva la Cina
superiore culturalmente e l'imperatore investito di un mandato divino; sarebbe stato così fino al XIX
secolo. La seconda ecumenica, coerentemente con l'eccezionale estensione territoriale, con la
vastezza della comunità dei credenti e con la sua aspirazione universalistica (ricordare Rashid
al-Din, XIII sec.; e Ibn Khaldun, XIV sec.). In una prima fase, quindi, la storiografia universale è
per lo più legata alla religione.
Tra il XVI e il XVII sec., due eventi concorrono a minare le basi dell'usuale modo di concepire la
storia: la scoperta dell'America, per cui la storiografia si trovò alle prese con il dover incorporare in
maniera coerente all'interno del proprio schema gli abitanti delle Americhe, e la scomparsa delle
sezioni bibliche dalle cronache umanistiche. Accadde quindi che “l'unità del sacro e del profano
cominciò a dissolversi, e con essa si dissolse la la storia universale tradizionale” (Breisach). Così si
faceva strada l'idea di uno schema secolare, suddiviso in tre fasi (antica, medievale e moderna), che
prescindeva il racconto della genesi. Esempio più importante è quello di Jean Bodin, che sdoganò
una visione essenzialmente mondana, con la crescente interconnessione mondiale come frutto delle
delle relazioni commerciali tra le diverse parti del mondo. In alcuni casi, in questa fase di
passaggio, le due concezioni si sovrapposero: vedi il Discours sur l'historie universelle del 1681,
del vescovo francese Bossuet, in cui dominava ancora il provvidenzialismo, ma vi era uno sforzo di
riconoscere il rilievo dei processi storici mondani della cosiddetta “città degli uomini”. In ogni caso
si tratta di visioni eurocentriche, con Asia e Africa in ruolo assolutamente secondario.
La vera svolta fu Voltaire, e il suo Essai sur le moeurs et l'espirit des nations: modello fortemente
innovativo di storia universale, soprattutto per via della concezione illuministica della storia: questa
viene intesa ora come “trasformazione di un'umanità potenzialmente razionale in umanità
effettivamente razionale”. In altre parole, la storia diventa storia del progresso, e postula una unità
di fondo del genere umano, rintracciabile non più nella discendenza da Adamo ed Eva, bensì nella
sua natura uniforme contraddistinta dalla facoltà razionale. Difetto di questo modo, col senno di poi,
è la contaminazione del paradigma universalistico di un inevitabile carattere normativo: il progresso
poteva verificarsi solo laddove vi era un percorso verso la piena estrinsecazione della ragione. Così,
se da un lato si rifiutava concettualmente la superiorità occidentale, dall'altro la si sanciva,
declassando ogni sorta di differenza culturale a mero sottosviluppo o arretratezza. Si può parlare di
eurocentrismo latente. Grande merito, in ogni caso, quello di ampliare significativamente gli
orizzonti della visione storica. I pensatori ruotanti attorno a Voltaire sono detti philosophes (Turgot,
Condorcet).
Esempio coevo in questa fase di svolta è quello di una serie di intellettuali ruotanti attorno
all'università inglese di Gottingen (Gatterer, Scholozer, Heeren), che si fecero promotori di un
nuovo genere di storia universale incline a privilegiare gli aspetti culturali, antropologici e sociali su
quelli militari e diplomatici, e di conseguenza caratterizzato da un notevole interesse per i popoli e
le culture extraeuropee. La più significativa differenza rispetto ai phliosophes francesi stava nella
non condivisione del concetto di storia come progressiva ascesa della razionalità umana: lo
dimostra specialmente la categoria di “individualità storica” postulata da Herder. Questi concepiva
la storia universale come multiforme e dinamica, e giungeva ad ammettere la possibilità di
differenti tipi di nature umane, tutte egualmente degne di realizzare la felicità e la perfezione
umana; si riconosceva pari dignità a tutti i sistemi di valore e a tutte le epoche storiche, e si rifiutava
lo schema teleologico alla base della filosofia francese e la nozione di progresso su cui esso si
basava, in quanto tendente a sancire la superiorità europea.
In questo percorso verso la World History, un importante passo indietro fu il XIX secolo, e per due
motivi: la professionalizzazione della disciplina storica, per cui si diffusero un idea e una
prospettiva storiografica prepotentemente nazionali, e le proporzioni senza precedenti delle
conquiste europee, che aprirono un lungo periodo di eurocentrismo trionfale e arrogante. Si
determinò il passaggio “dall'eurocentrismo inclusivo degli illuministi (superiorità europea come
ipotesi euristica) all'eurocentrismo esclusivo (ipotesi scontata)” (Osterhammel). Ne sarebbe una
prova la filosofia della storia universale di Hegel, la quale, individuando il fine ultimo della storia
come conseguimento della libertà dello Spirito, costruì il paradigma evolutivo della civiltà umana
che collocava nel mondo cristiano-germanico (per estensione, in Occidente), lo stadio ultimo del
processo di realizzazione dell'ideale del genere umano. In quest'ottica, filosofi come Comte,
Spencer, Marx e Weber, con i loro studi sulle scienze sociali, non fecero altro che declinare in varie
forme l'identificazione nella civiltà europea del più avanzato modello di modernità. Corollario di
tale interpretazione fu la tendenza ad espellere dalla storiografia i popoli non europei, che
arrivarono ad essere definiti stagnanti o senza storia, e ad essere oggetto della sola attenzione di
discipline più specifiche, come etnologia, filologia, antropologia ecc.
Questa fu la tendenza dominante nel XIX secolo: se si verificarono inversioni di tendenza, o erano
assai deboli, o venivano mal accolte.
Il secolo XX era comunque destinato a un'importante inversione di tendenza, ancora per due motivi:
in primo luogo la presa di consapevolezza dei processi di integrazione planetaria, e poi l'avvento
della prima guerra propriamente globale. Tutto ciò incoraggiò una prospettiva il più possibile
ecumenica. A farsi portavoce di queste nuove tendenze furono i filosofi della storia del primo 900, i
quali trascendettero la cornice concettuale dello stato-nazione e elaborarono un concetto di società
complessa, su larga scala (la civiltà), istituendola come categoria adeguata per l'analisi storica
globale. Ad operare la “rivoluzione copernicana” fu Oswald Spengler, con Il tramonto
dell'occidente, in cui polemizzò fortemente con lo schema eurocentrico e unilineare della storia
universale, opponendogli una concezione policentrica della storia come storia di plurime civiltà. La
sua storia si configurava infatti come una storia di otto civiltà, ognuna delle quali dotata di una vita
organica caratterizzata dalle fasi di nascita, crescita , declino e morte. Nonostante il limite di una
visione così deterministica, il merito sta nell'essere stato il primo a sancire il passaggio da una storia
della civiltà declinato al singolare (Europa) a una storia di molteplici civiltà. Tuttavia queste ultime
erano ancora viste come autonome e indipendenti, e i rapporti tra loro impossibili, o addirittura
dannosi, in quanto tendenti a soffocare il potenziale creativo delle singole.
A sottolineare la portata storica delle interazioni tra civiltà differenti fu invece Arnold Toynbee,
autore di Study of History, e per questo riconosciuto come uno dei moderni padri della World
History. Il due elementi di svolta furono in particolare l'elezione delle civiltà a unità fondamentali
della propria ricerca (superamento definitivo di un orizzonte grettamente nazionale), e la
convinzione che “per comprendere le parti fosse necessario innanzitutto focalizzare la propria
attenzione sul tutto, perché questo tutto rappresentava il campo d'indagine in sé intellegibile”.
Questo approccio globale partiva dalla consapevolezza dell'esistenza di una interdipendenza
mondiale, che la grande guerra aveva definitivamente messo a nudo. Per cui l'elemento più
innovativo della sua visione va individuato nel concetto di “contatti di civiltà” quale dinamica
fondamentale della storia umana (e infatti la sua massima attenzione andò alle dinamiche relazionali
innescate dall'espansione occidentale a livello planetario). Visione che in ogni caso non riuscì a
emanciparsi completamente da una visione f