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Guerra dei Trent’anni (1618). Gli studi meno recenti sulla stregoneria avevano negato che la
confessione religiosa potesse essere uno dei fattori scatenanti della caccia alle streghe. Stuart Clark
invece ribadì proprio il fattore religioso come causa dell’accanimento giudiziario, che doveva
leggersi come paura del nemico incombente: non solo l’eretico esterno ma soprattutto il diavolo,
che creava sette stregonesche, nemici interni dunque che minavano la stabilità della società e dello
stato. 23
Questo clima spingeva le formazioni statuali a rafforzare le relazioni con le chiese, a darsi una
costituzione politico-ecclesiastica il più possibile purificata da eretici e streghe. Proprio questi stati
confessionali più rigidi conobbero violente cacce.
Questo valeva anche per gli stati privi di forti organi centrali che potevano porre un freno agli abusi
dei tribunali locali.
Per spiegare la follia collettivo della caccia alle streghe nel periodo 1580-1660 la tesi di Clark pone
al centro del quadro il fattore religioso, nella forma degli irrigidimenti confessionali: furono più
favorevoli alle cacce gli stati che si mostravano intolleranti verso le altre confessioni e sette
religiose, tra cui la setta stregonesca.
L’argomentazione di Clark può apparire verosimile anche per spiegare la relativa assenza di cacce e la
moderazione delle Inquisizioni cattoliche nel perseguire e punire stregoneria e maleficio. Le Inquisizioni
mediterranee operarono in un contesto oramai privo di conflitti religiosi.
La lotta contro i protestanti era ormai conclusa in Italia entro il 1580; e quando Sisto V, con la bolla Coeli et
Terrae (1586), indirizzò l’azione inquisitoriale contro stregoneria, divinazione e magia, lo fece non per
competere con gli stati tedeschi nella caccia alle streghe, ma per consolidare il ritorno del clero al vertice
della gerarchia del potere, come parte integrante dello stato ma da esso separato. Si trattava di eliminare
qualsiasi minaccia al ristabilito monopolio della Chiesa sulla consacrazione e sui miracoli.
La Congregazione cardinalizia del Sant’Uffizio fece circolare dal 1624 la celebre Instructio pro formandis
processibus in causis strigum, sortilegiorum et maleficiorum, un manoscritto improntato a moderazione e
cautela. L’Instructio affermava che troppo spesso i processi per stregoneria si basavano su indizi dubbi e
inconsistenti. Questi casi si dovevano trattare con prudenza e scetticismo, con l’obiettivo non di punire ma
di mettere a tacere (in particolare nei casi di possessione tra le monache, per evitare ogni scandalo
conventuale, come quelli di Loudun o di Carpi).
L’Istruzione conferma la dialettica tra grandi tribunali centrali che frenavano e giudici periferici che
spingevano o, come in Germania, agivano in preda al panico e senza competenze giuridiche.
Il Sant’Uffizio istruiva i suoi inquisitori a non punire severamente le presunte streghe, questo perché le
Inquisizioni mediterranee non erano tribunali penali, come quelli che condussero la caccia alle streghe
nell’Europa transalpina, ma tribunali che avevano lo scopo di reprimere il dissenso religioso, la diversità di
fede e l’apostasia attraverso l’imposizione dell’abiura. Per tanto nelle accuse di stregoneria non avevano
l’obiettivo di punire il delitto di omicidio (come infanticidio o un malattia mortale) ma avevano il fine
costringere all’abiura la rea confessa o convinta di apostasia e patto col diavolo.
Le streghe non erano eretiche convinte e la presunta apostasia per patto col diavolo non era un dogma.
Non ci furono problemi dunque per l’Inquisizione ad ottenere l’abiura (la cosa cioè che interessava i frati
inquisitori, che non essendo giudici penali non si curavano di lasciare i delitti impuniti). Solitamente le
streghe erano punite con la pena infamante – la penitenza pubblica con le frustate – e con il bando dal
villaggio. 24
CAPITOLO 10 – Tribunali vescovili e polizia del buon costume in età tridentina
In Italia l’acquisizione del potere di giustizia capitale da parte del Sant’Uffizio dalla metà del Cinquecento
ebbe come conseguenza un aumento dell’autorità di polizia dei tribunali vescovili nei reati morali. I vicari
del vescovo ampliarono gli interventi nel campo della polizia correzionale o di buon costume, che
perseguiva reati morali e sessuali utilizzando procedure sommarie.
Questa polizia sommaria non solo fu esercitata dai vescovi durante le visite pastorali, ma consentì ai parroci
e ai vicari foranei di comminare scomuniche e pene sommarie per reati-peccati riservati (stabiliti di volta
volta dall’attività legislativa dei vescovi, come ad esempio i rapporti sessuali tra promessi sposi prima del
matrimonio).
Il principale strumento di questa attività di controllo rimase la scomunica, nella forma esecutiva latae
sententiae o ipso facto, promulgata dopo tre ammonizioni (avvisi o monitori che minacciavano gli effetti
della pena – la sospensione dei diritti civili – per ottenere la sottomissione).
Con questo strumento si poteva procedere contro i reati morali come “casi riservati”, soprattutto quando
erano commessi da peccatori pubblici e scandalosi. Parroci, vicari foranei e vescovi potevano minacciare o
colpire di scomunica i peccatori notori in base alla pubblica fama: secondo la procedura romano-canonica
infatti in caso di cattiva fama non era necessaria l’accusa di parte per avviare il processo, ma al giudice era
consentito l’avvio ex officio.
Le procedure sommarie dei vescovi e dei parroci si valsero di nuove applicazione dei monitori di scomunica.
Un primo caso di una sua nuova applicazione si trova nel monitorio di scomunica (intesa ipso facto) che si
può definire precetto penale o di buona condotta. Se il peccato era di pubblico dominio, ai rei si intimava di
non frequentarsi più e di evitare qualsiasi contatto e altre analoghe ingiunzioni di cessare quella condotta
disonesta. Il precetto imponeva all’ammonito di impegnarsi a lasciare il peccato, sottoscrivendo un atto
notarile corredato da cauzione in denaro o dalla fede di un garante; oppure – se non obbediva – lo
minacciava direttamente di una pena pecuniaria o di carcere.
Il precetto si poteva usare contro ogni genere di pubblici peccatori, obbligandoli ad abbandonare la cattiva
condotta, con la minaccia di procedere sommariamente per atto esecutivo di polizia contro gli ostinati che
non si ravvedessero. La censura o monitorio di scomunica divenne lo strumento ideale per procedere per
vie sommarie contro i reati morali.
Per due reati specifici, concubinato e adulterio, le pene di ammenda furono corredate da frusta e bando
(usate già dai giudici secolari). Solo le pene di sangue, ossia di morte e di mutilazione, restavano vietate ai
giudici ecclesiastici dal diritto canonico classico, ma ad esso fu derogato per i giudici del Sant’Uffizio.
Un canone tridentino ampliò i poteri di polizia dei giudici spirituali. Il canone stabiliva che gli scomunicati
ostinati non solo dovevano essere esclusi dai sacramenti e dalla comunione, ma potevano incappare in un
processo per sospetta eresia.
Il Concilio di Trento attribuì dunque nuovi poteri di pena ai giudici ecclesiastici nel caso dei due reati morali
la cui definizione e repressione, in età post-tridentina, fu correlata al nuovo valore sacramentale attribuito
al matrimonio, che delegittimava le unioni civili di diritto consuetudinario. Le norme tridentine mostravano
una certa intolleranza verso le donne adultere o concubine, che potevano essere bandite dalla città o dalla
diocesi (anche con l’aiuto del braccio secolare) se dopo le tre ammonizioni continuavano a vivere nel
peccato. 25
Altre pene previste per adultere e concubine erano le penitenze pubbliche, che potevano essere inasprite
con la rasatura dei capelli nel caso di donne etichettate come pubbliche adultere o meretrici, come la frusta
per le donne e i tratti di fune per gli uomini. Il bando ad arbitrio dell’autorità ecclesiastica poteva colpire
anche l’eventuale complice, in aggiunta alle solite penitenze salutari.
Quando l’adulterio era continuo diveniva concubinato pubblico, ed anche i concubini potevano essere
scomunicati ipso facto se il delitto era notorio (quindi senza il ricorso ad un’azione giudiziaria).
Dopo il Concilio di Trento iniziò una vera e propria caccia ai concubini, cioè agli sposi civili secondo gli
sponsali consuetudinari, che aveva l’obiettivo di imporre il matrimonio in chiesa al cospetto del parroco. La
lotta al concubinato talvolta fu portata avanti con il sostegno degli sbirri, che procedevano agli arresti e
all’esecuzione delle condanne (tratti di corda, lavori forzati, galera, oltre che penitenza pubblica). La
penitenza pubblica restò la tipica pena a disposizione dei giudici vescovili, ma poteva anche essere
commutata in ammenda (in base all’onore delle persone).
I monitori erano l’equivalente canonico dei mandati d’arresto. I vescovi non mancavano di forze di polizia,
come carceri e personale (bargelli) addetti agli arresti e ai sequestri e confische di beni. Ma oltre ad avere il
proprio personale di polizia, i vescovi e i parroci ebbero il diritto – secondo il Concilio di Trento – di
chiedere l’aiuto del braccio secolare e le autorità civili ebbero il dovere di assicurarlo.
La richiesta del braccio secolare, cioè la facoltà di dare ordini agli sbirri al servizio dell’autorità civile senza
passare dai Supremi tribunali, fu utilizzata per tutto il Seicento per tradurre la scomunica ipso facto in
arresto. I casi di conflitto riguardarono solo l’arresto dei laici da parte della polizia vescovile senza
notificarlo ai tribunali regi; ma solitamente i giudici ecclesiastici davano ordini agli sbirri come i giudici laici.
Questi poteri d’arresto non erano consentiti ai vescovi e ai sacerdoti transalpini, dove gli arresti erano
guidati dai tribunali regi. Mentre in Italia, per eseguire i monitori di scomunica, sbirri regi e vescovili agivano
insieme. I tribunali ecclesiastici, per i settori di loro competenza, avevano dunque non solo un cospicuo
personale di giustizia ma anche di polizia, carcerieri e carceri, ed erano parte integrate anche del sistema
giudiziario statale.
I poteri di polizia dei parroci erano invece contestati dove, al confine tra Svizzera e Italia, vigeva una netta
separazione tra potere temporale e potere spirituale.
Secondo il Cantone di Uri (Val Leventina) i preti non avevano facoltà di punire, ma dovevano denunciare gli
inadempienti al precetto pasquale al potestà, cui spettava comminare le pene d’ammenda. Le autorità
svizzere ribadivano la separazione dei poteri in uso nell’area un tempo imperiale, nella quale i giudici
ecclesiastici non avevano potere coercitivo e penale se non delegato dall’autorità secolare.
Le autorità cantonali svizzere cont