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LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA
La Critica della ragion pratica (1788) si propone la ricerca delle condizioni della morale. Nell'uomo è
presente una legge morale (definita un "fatto della ragione") che comanda come un imperativo categorico,
ossia incondizionatamente. Questa legge del dovere comanda per la sua forma di legge, come norma che
prescrive di obbedire alla ragione, e perciò a differenza della "massima" (la regola di condotta individuale)
deve essere universale, principio oggettivo valido per tutti: indica come fine il rispetto della persona umana
e afferma l'indipendenza della volontà come pure l'autonomia della ragione. "Il dovere per il dovere"
indirizza così a quell'ordine morale, "regno dei fini", in cui il valore di un'azione dipende dalla conformità
della volontà alla prescrizione della legge morale. Postulati della legge sono innanzitutto e
fondamentalmente la libertà (se l'uomo non fosse libero non ci sarebbe moralità), l'immortalità dell'anima
(perché nel nostro mondo non si realizza mai la piena concordanza della volontà alla legge che rende degni
del sommo bene) e l'esistenza di Dio (che fa corrispondere la felicità al merito acquisito). Così le idee della
ragione (anima e Dio), solo pensabili nella Critica della ragion pura, ora si presentano come "postulati" della
moralità.
Fichte
Al filosofo tedesco Fichte si deve l’inizio dell’idealismo assoluto, nel senso che mira a sottolineare la tesi che l’io, o lo
spirito, è il principio unico di tutto e che fuori di esso non c’è nulla. In ciò Fichte si contrappone a Kant, per lui infatti,
l’io era qualcosa di finito, in quanto non creava la realtà, ma si limitava a ordinarla secondo proprie forme a priori. A
ciò è connessa la critica dei post kantiani tra cui Fichte ovviamente, sull’esistenza della cosa in sé. L’ammissione della
cosa in sé all’epoca era un problema filosofico al centro di importanti discussioni. Si chiedevano: come può venir
ammessa l’esistenza di una cosa in se, ossia di una realtà non pensata e non pensabile, non rappresentata e non
rappresentabile? Affermare la cosa in se equivale a supporre l’esistenza di una realtà provvista di senso
indipendentemente dal soggetto. Se non è possibile dimostrare che la cosa in sé non esiste, in quanto non è
conoscibile, per lo stesso motivo non è nemmeno possibile considerarla esistente, come invece sosteneva Kant.
L’esistenza o meno della cosa in sé risulta indecidibile. Per questo Fichte sceglie l’idealismo, ossia, quella posizione
filosofica che consiste nel partire dall’io o dal soggetto per poi spiegare, su questa base, la cosa o l’oggetto; la cosa è
ciò che è posto nell’io. Il mondo esiste in relazione al soggetto, se la realtà fosse indipendente dal soggetto sarebbe
inconoscibile proprio come la cosa in sé. Non ha più senso parlare di ciò che è reale in sé ma di ciò che è reale per il
soggetto conoscente. Nulla è indipendente dall’io, che è identificato pertanto con l’Assoluto.
La dottrina della scienza; i tre principi
L’ambizione di Fichte è quella di costruire un sistema grazie al quale la filosofia, cessando di essere semplice ricerca
del sapere, divenga finalmente un sapere assoluto e perfetto. Infatti il concetto centrale esposto nei Fondamenti
dell’intera dottrina della scienza è quello di una scienza della scienza, cioè di un sapere che metta in luce il principio
su cui si fonda la validità di ogni scienza. Questo principio è l’Io, o l’autocoscienza. L’intera scienza si fonda infatti
per Fichte, sull’atto di “autoposizione del soggetto” attraverso il quale l’Io conferisce realtà a se stesso, e
indirettamente, a tutto ciò che si distingue da sé. Tale attività del soggetto si articola in tre momenti; si tratta di tre
momenti di un unico processo dialettico, all’interno del quale essi assolvono rispettivamente la funzione della tesi,
antitesi e sintesi.
1) TESI: Il primo principio stabilisce che “l’Io pone se stesso” cioè è causa del proprio essere. L’io esiste solo in
quanto pone se stesso, non sussiste in quanto ente, ma solamente in quanto atto del porre se stesso. È evidente
l’analogia con l’io penso kantiano anch’esso esistente solo in quanto agente. Ma mentre per Kant non esiste un
soggetto prima e indipendentemente dalla conoscenza, per Fichte non esiste un soggetto prima dell’autocoscienza,
prima del suo riconoscersi nell’atto di affermare se stesso. Il soggetto esiste solo in quanto è autocoscienza, cioè in
quanto pone se stesso. L’io penso kantiano esiste in quanto elabora i contenuti della conoscenza, l’io puro fichtiano
essendo l’unica realtà originaria, deve porre anche tali contenuti, cioè il mondo. Per l’io penso la realtà esiste al di
fuori di sé (affermazione della cosa in sè) per l’io puro non esiste una realtà al di fuori di sé, ciò che è reale è reale per
l’io (negazione dell’esistenza della cosa in sè). Il corrispettivo logico del primo principio è il “principio di identità”
ossia A=A. Se viene applicato a una realtà diversa dall’Io (ad esempio: il triangolo è triangolo) non comporta la reale
esistenza del triangolo. Qualora, invece, A=A stia per Io=Io, il principio riveste un significato sostanziale, poiché
implica non soltanto l’identità dell’io con se stesso (Io sono io) ma anche l’affermazione della realtà dell’Io (Io sono)
intesa come l’atto in cui il soggetto, affermandosi come identico a se stesso, si pone come tale e si riconosce.
2) ANTITESI: Il secondo principio stabilisce che “l’Io pone il non-io”, ovvero l’io dopo aver posto se stesso, oppone
anche a se stesso qualcosa che, in quanto gli è opposto è un non-io (oggetto, mondo, natura) è qualcos’altro di diverso
dall’io, ma in quanto posto dall’Io non è fuori dall’Io. Ciò che è visto come qualcosa di esterno alla coscienza viene
ricondotto a essa, non esiste se non in funzione di essa. Il non-io quindi può sussistere solo all’interno dell’io.
3) SINTESI: il terzo principio mostra come l’Io, avendo posto il non-io si trovi a essere limitato da esso, esattamente
come quest’ultimo risulta limitato dall’Io. Da ciò nasce un problema: essendo l’Io per definizione infinito, come può
contrapporglisi il Non-io come altro da sé? Come può l’infinito essere limitato e determinato da qualcos’altro posto da
esso stesso? A questo problema risponde il terzo principio: “All’interno dell’Io, l’Io oppone all’io divisibile un non-
io divisibile” Qui, l’Io a cui il non io si oppone non è l’Io assoluto e infinito che sta a fondamento della conoscenza,
bensì gli “Io divisibili”, cioè gli Io individuali e empirici. L’opposizione tra Io finiti e non io finiti è quindi tutta interna
all’attività dell’io infinito. Ponendo se stesso, l’Io assoluto pone anche al proprio interno l’opposizione reciproca tra
una pluralità di Io divisibili (le singole coscienze individuali) e una pluralità di non io empirici (i singoli oggetti del
mondo esterno)
La conoscenza e la morale
L’io e il non io si oppongono e si limitano a vicenda abbiamo detto. Però possiamo anche dire che se da un lato, l’Io
pone se stesso come determinato dal non io, dall’altro pone se stesso come determinante il non io. Queste non sono
altro che le due attività stesse dell’Io: quella teoretica (la conoscenza) e quella pratica (la morale).
Secondo Fichte ogni attività conoscitiva prende avvio dall’intuizione sensibile, cioè dalla presenza di un oggetto che in
quanto dato condiziona il soggetto. Cioè, ogni conoscenza comporta la determinazione dell’Io da parte di un non-io.
Nel momento dell’intuizione il soggetto appare quindi come passivo rispetto all’oggetto intuito, che esercita su di esso
un’azione limitativa: quando vedo il tavolo devo recepire l’immagine così come essa mi è data, senza poterla
modificare, non posso decidere di percepire una sedia anziché un tavolo. D’altra parte però il secondo principio dice
che il non io è posto dall’io, cioè la realtà esterna è prodotta dall’Io. Com’è possibile dunque che l’io da un lato
produca il proprio oggetto di conoscenza sensibile e dall’altro se lo trovi di fronte come qualcosa di dato indipendente
e che lo limita? La risposta a questa domanda è trovata da Fichte nella nozione di “immaginazione produttiva”. Per
Kant l’immaginazione produttiva era la facoltà della conoscenza che organizza l’esperienza sulla base degli schemi
trascendentali, in modo da operare una prima sintesi provvisoria dei dati empirici e prepararli alla sintesi concettuale
dell’Io penso. Per Kant quindi l’immaginazione produttiva si limitava a unificare empiricamente una molteplicità di
dati sensibili provenienti dalla cosa in se. Fichte invece interpreta l’immaginazione produttiva come una vera e propria
produzione del contenuto empirico della conoscenza, il quale appare come dato alla coscienza. L’immaginazione
produttiva è quindi l’attività mediante la quale l’io, in base alle sue leggi costitutive, produce inconsciamente la realtà
come insieme degli oggetti che appaiono dati all’esperienza. In questo modo, Fichte eliminava il problema della cosa
in se e risolveva l’intera conoscenza nell’attività del soggetto conoscente. Questo processo tutto interno all’io non può
però mai concludersi, altrimenti verrebbe meno il non io e con esso l’attività dell’io, quindi il suo stesso essere.
E qui che si collega la morale fichtiana. Il nucleo della morale fichtiana è costituito appunto dal rapporto tra Io e Non-
io e dallo sforzo mediante il quale l’Io, una volta prodotto il non-io, urta contro di esso. Uno sforzo che è però
necessario per raggiungere l’autocoscienza. Ecco perché l’io ha bisogno del non-io, ossia per realizzare se stesso, l’Io
che è costituzionalmente libertà, deve agire e agire moralmente. Tale attività può rivelarsi soltanto attraverso lo sforzo
con cui oppone se stessa a una resistenza, a una materia inerte. Questo elemento re