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In una lingua esistono anche parole che sono prive di un vero e proprio significato, perché
identificano, all'interno di una categoria generale, un solo specifico individuo: si tratta dei nomi
propri. Il ramo della linguistica che si occupa della classificazione e dello studio dei processi di
formazione dei nomi propri è l'onomastica, le cui specializzazioni principali sono l'antroponimia
(lo studio dei nomi di persona) e la toponomastica (lo studio dei nomi propri di luoghi ed elementi
geografici). I nomi di persona, come i nomi comuni, sono sottoposti al cielo della vita di ogni parola;
la vita di un antroponimo si esaurisce di solito al cambiare delle mode onomastiche tipiche di ogni
periodo storico. Attualmente il criterio di scelta onomastica più diffuso sembra essere il
simbolismo fonetico: i nomi vengono scelti soprattutto perché piacciono per il suono. Se gli
antroponimi sono soggetti allo scorrere del tempo, molto più conservativi dal punto di vista delle
forme risultano i toponimi, ovvero i nomi di luoghi ed elementi geografici. Molti toponimi italiani
sono derivati dal latino, dalle lingue germaniche, dall'arabo, dall'etrusco o dall'italico. A volte, i nomi
di città e località derivano o dall'antico signore di quel territorio oppure dal santo o dall'antico dio
pagano che protegge la località, dall'eroe o antico fondatore. Certe volte le denominazioni sono
direttamente collegate alle circostanze che hanno accompagnato la fondazione dell'insediamento.
Dal nome proprio al nome comune
I nomi comuni che derivano da nomi propri vengono chiamati deonimici e il ramo della linguistica
che ne studia la classificazione e le modalità di formazione è la deonomastica. I deominici sono
frequentissimi nel lessico italiano, al punto che in molti casi risultano difficili da individuare a prima
vista, perché il legame con il nome proprio che li ha generati non vien più avvertito con chiarezza.
Analizzando i processi mediante i quali è possibile ottenere un nome comune da un nome proprio,
possiamo individuare diverse categorie:
- Deonimici ottenuti per antonomasia: sono nomi propri che si sono trasformati in nomi comuni
attraverso la generalizzazione delle caratteristiche peculiari di un personaggio, assunto come
tipo o modello di un dato comportamento o carattere.
- Deonimici ottenuti per metonimia: si ottengono quando un concetto o un oggetto assume il
nome del suo inventore, scopritore o iniziatore.
- Deonimici ottenuti per derivazione suffisale: si ricavano a partire da un nome proprio,
secondo le consuete regole di formazione delle parole dell'italiano, con l'impiego di vari suffissi.
Giusto e sbagliato
La norma e l'errore
Il concetto di norma linguistica ha qualche affinità con quello di norma giuridica. Nel diritto,
l'infrazione alla norma penale fa scattare una sanzione. Nella lingua la sanzione può colpire
attraverso un giudizio scolastico (ripetere un anno di scuola) o attraverso la squalifica sociale.
Nella lingua questo indice di variabilità e ovviamente molto maggiore e si manifesta come
variabilità diacronica, diafasica, diamesica (ovvero attraverso il tempo, i diversi registri linguistici, le
differenze tra lingua parlata in lingua scritta). Per definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in
una lingua, occorre tener conto di una variabile fondamentale: il grado di accettabilità, ossia la
reazione dei parlanti di fronte alla violazione di un certo istituto linguistico.
Possiamo distinguere 4 gradazioni di errore, in ordine di accettabilità:
- Il lapsus, che consiste nel dire una cosa per un'altra; accettabilità zero
- violazione delle fondamentali regole strutturali; accettabile solo a livello elementare
- violazione grammaticale, largamente rappresentata a livelli bassi
- violazione di norme disattese anche da parlanti colti.
Le fonti della norma linguistica
Le fonti della norma linguistica sono più incerte e soprattutto meno delimitabili. Si può dire che un
parlante, in quanto capace di padroneggiare una lingua con le sue regole le sue sfumature,
proceda a una continua verifica della correttezza e dell'efficacia delle esecuzioni linguistiche dei
suoi interlocutori. Naturalmente, il prestigio linguistico del singolo parlante varia a seconda del suo
ruolo professionale, dalla sua età, dalla riconoscibilità regionale. Tra le principali fonti della norma
linguistica ci sono dunque: i dizionari (hanno varie occasioni di illustrare una norma: possono
prevedere appositi inserti dedicati agli errori; omettere una forma scorretta; suggerire preferenze),
le grammatiche (sono più esplicite e diffuse e motivano una norma in base a considerazioni
storiche o pragmatiche), i repertori del buon uso linguistico.
Tipologia e gerarchia degli errori
La diversità tra scritto e parlato si riflette sul diverso peso che assume nei due tipi di lingua la
stessa deviazione della norma. Le infrazioni ortografiche sono sanzionate duramente nella
scuola, nell'ambiente di lavoro e persino nei rapporti privati soprattutto per due ragioni:
- il prestigio dello scritto, legato anche alle occasioni della scrittura, spesso più informali ed
impegnative di quel che non avvenga nel discorso orale
- la fissazione del sistema grafico (insieme di lettere e combinazioni per rappresentare un suono)
e paragrafematico (accento, apostrofo) rispetto alla compresenza di più varietà di pronuncia,
tutte sostanzialmente tollerate. Certo, con il diffondersi dei nuovi mezzi di comunicazione, si è
ormai affermato un tipo di scrittura spiccatamente informale.
Si parla dunque di errori: ortografici (accenti, punteggiatura), ortoèpici (fatti di pronuncia rilevanti
soprattutto per particolari categorie professionali), morfosintattici (errata di una selezione di una
forma grammaticale non ammessa dalla norma), lessicali (uso di una parola per un'altra), gli
errori testuali (la violazione di coerenza e coesione).
Dubbi ortografici
Sebbene l'ortografia sia settore abbastanza stabilizzato, non mancano casi dubbi anche per lo
scrivente colto.
- Segni paragrafematici (accento grave, acuto e apostrofo) (la O finale ha sempre l'accento
grave), (l'accento acuto per la I e la U toniche finali, ad esempio: aprì, Cefalù)
- Consonanti scempie e doppie
- L'uso della i superflua familiare/famigliare, consiliare/consigliare e simili, entrambi accettabili,
ma la più diffusa è la prima.
Questioni d'accento
In alcune lingue la posizione dell'accento è fissa. In italiano, invece, l'unica certezza riguarda
parole come virtù, prenderò (polissilabi accentati sull'ultima vocale per cui c'è l'obbligo di segnare
l'accento grafico) e come pane (bisillabo senza indicazioni d'accento quindi piano). Per le parole di
tre o più sillabe possono sorgere dubbi specie se si tratta di parole poco comuni. Fuori dall'area di
appartenenza, può causare qualche problema anche l'accentazione di nomi di luogo scarsamente
familiari come Friùli. Fonte di incertezza è l'accento dei grecismi, specie quelli di ambito medico:
èdema o edèma? Termini come questi sono sì di origine greca ma sono giunti fino a noi attraverso
un intermediario latino. L'accento oscilla per effetto del diverso sistema accentuativo vigente nelle
due lingue classiche. In greco e latino l'accento non poteva risalire oltre la terzultima sillaba.
Nomi e pronomi
Per gli essere animati e in particolare per l'essere umano, c'è una corrispondenza tra genere
naturale e genere grammaticale. Anche le desinenze possono non bastare per risalire al genere: in
italiano i nomi in A sono solitamente femminili ma diciamo il collega, il pianista; i nomi in O sono
solitamente maschili ma diciamo un'auto, la radio. I nomi maschili in A rappresentano una
minoranza rispetto ai nomi in cui il genere maschile è marcato dalla desinenza O. I nomi femminili
in O, invece, rappresentano quasi tutti il primo elemento di parole composte e mantengono il
genere originario: automobile, auto. Le occasioni di incertezza però non sono queste, le più
ricorrenti sono:
- i nomi di città, quale che sia la terminazione, sono normalmente femminili; eccezione è Il Cairo
- Per i nomi femminili di professione, il gruppo che può causare più problemi è quello costituito da
nomi come avvocato o ingegnere, il cui femminile è oscillante
- Singoli casi di oscillazione si spiegano variamente. In Il/La carcere, il genere è stato affiancato
dal femminile, generalizzatosi al plurale (le carceri).
Gli riferito a un femminile è ancora oggi percepito come una forma di livello popolare che è
opportuno evitare anche nell'uso parlato. Più accettato l'uso di gli per a loro, che appare anzi
raccomandabile nel registro colloquiale, in cui loro risulterebbe affettato. Il pronome loro, invece è
normalmente posposto, conservando sempre la sua autonomia (parlo loro, parlare loro) può
essere anteposto nella lingua di registro sostenuto (loro spettanti) interposto tra un elemento
reggente e un elemento retto (era stata loro affidata).
Un pronome atono si affigge obbligatoriamente al verbo come enciclico in quattro casi:
- dopo un infinito (dirgli)
- dopo un imperativo affermativo (digli) negativo (non dirgli, non le dire)
- dopo un gerundio (dicendogli)
- dopo un participio (dettogli, spettantele)
Questo, codesto e quello
Il sistema di pronomi e aggettivi dimostrativi nell'uso del toscano e nell'italiano letterario presenta
tre forme disponibili: questo, che indica vicinanza materiale e psicologica rispetto a chi parla;
codesto, che indica vicinanza a chi ascolta; quello, che indica distanza sia da chi parla che da chi
ascolta. Oltre che indicare qualcosa nello spazio, i dimostrativi si usano per richiamare qualcosa
detto in precedenza o per anticipare quello che si dirà in seguito.
Indicativo e congiuntivo
Si parla molto, negli ultimi tempi, di una presunta "morte del congiuntivo" nella lingua italiana. In
realtà le cose sono molto più complesse. In moltissimi casi l'alternativa tra indicativo e congiuntivo
è esistita fin dai primi secoli del volgare. E' il caso della pròtasi del periodo ipotetico dell'irrealtà
(se l'avessi saputo, non sarei partito), in cui è sempre esistita la possibilità di ricorrere all'indicativo
imperfetto. Altre volte la scelta del modo verbale è condizionata dal verbo reggente, come nel
caso delle preposizioni completive, cioè quelle proposizioni che svolgono la funzione di
complemento oggetto. Una proposta oggettiva retta da un verbo di giudizio o di percezione
richiede normalmente l'indicativo (Mi ricordo che hai vissuto a lung