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A determinare il risanamento del bilancio furono i drastici tagli operati alla spesa pubblica ritenuta
improduttiva, in particolare quella militare e delle amministrazioni postale e ferroviaria. Il
quadriennio 1922-25 si connotò per un evidente rilancio dell’economia grazie al completamento del
processo di riconversione industriale, alla ripresa delle esportazioni e al pur lieve alleggerimento
della pressione fiscale; nonostante il notevole dinamismo delle esportazioni, la bilancia dei
pagamenti vide aggravarsi la propria situazione deficitaria per la crescente espansione delle
importazioni – massicce furono quelle cerealicole – non compensate dalle partite invisibili, che
tendevano anzi a contrarsi.
Nel 1925 la prioritaria urgenza della politica economica era di bloccare l’inflazione interna e di
stabilizzare il cambio della lira, svalutatasi a causa della debolezza della bilancia dei pagamenti,
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ascrivibile al disavanzo commerciale con l’estero e a fattori speculativi. Il ministro delle Finanze
Volpi reintrodusse i dazi cerealicoli; le importazioni di grano, infatti, incidevano in proporzioni
ritenute insostenibili sulle passività della bilancia commerciale. Preliminare alla stabilizzazione del
cambio della lira era altresì la sistemazione dei debiti di guerra e la normalizzazione delle relazioni
finanziarie coi Paesi creditori: gli Stati Uniti vincolavano alla soluzione di tale questione l’apertura
di linee di credito, che costituivano la precondizione indispensabile per la stessa stabilizzazione
monetaria e per l’ingresso dell’Italia nel gold exchange standard. Nelle trattative intavolate con gli
Stati Uniti Volpi sottolineò i pesanti sacrifici economici e umani compiuti durante la guerra, la
modesta quota di riparazioni assegnata all’Italia e il carattere costantemente passivo della bilancia
commerciale specie nei riguardi degli Stati Uniti, da cui si importava molto di più di quanto si
esportasse. Si ottenne di dilazionare in 62 anni il rimborso del debito e soprattutto di pagare nei
primi 5 anni quote pressoché simboliche. Volpi inoltre riuscì a ottenere dagli Stati Uniti un prestito
di 100 milioni di dollari, spianando la strada a ulteriori cospicue operazioni di finanziamento a
favore del nostro Paese da parte di gruppi americani. Per quanto riguarda invece i debiti con la Gran
Bretagna, Volpi siglò un ottimo accordo con Churchill ottenendo una riduzione sull’ammontare
riconosciuto del debito addirittura dell’85%, nonché vantaggiose condizioni di pagamento. Gli
accordi sui debiti di guerra con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna determinarono una notevole
contrazione del debito estero complessivo dell’Italia. L’avvenuta sistemazione del debito estero non
bastò tuttavia ad attenuare le tensioni inflazionistiche interne e a contrastare la speculazione al
ribasso della lira; fu avviata pertanto una decisa politica deflazionistica finalizzata alla
stabilizzazione monetaria. Mussolini, che temeva di perdere la propria reputazione se non fosse
riuscito in quella che venne chiamata “battaglia della lira”, nel proprio discorso del 1926 si
pronunciò per una drastica rivalutazione della moneta nazionale a “quota 90” rispetto alla sterlina. A
spingere Mussolini a stabilizzare la lira a un tale livello furono considerazioni di prestigio interno e
internazionale: la volontà di rafforzare il sostegno al regime da parte della piccola borghesia che
avrebbe visto rivalutati i propri risparmi, l’esigenza di rendere meno costose le importazioni di
materie prime, la necessità di far affluire capitali stranieri in Italia. Per conseguire l’obiettivo
occorreva procedere a un riordino strutturale dell’economia, completare il risanamento della finanza
pubblica e in primo luogo riformare il sistema di emissione; a tal fine, nel 1926 fu attribuito il
monopolio dell’emissione alla Banca d’Italia, cui vennero quindi trasferite le riserve del Banco di
Napoli e del Banco di Sicilia. La Banca d’Italia quindi divenne una moderna banca centrale, con il
compito di vigilare sull’attività delle banche commerciali e di autorizzare l’apertura di nuove
banche e la realizzazione di fusioni. Essa dunque assunse il governo della moneta e del credito. Tali
misure ridussero la velocità di circolazione della moneta, spingendo al ribasso i prezzi e nel 1927
fecero raggiungere il rapporto della lira con la sterlina a “quota 90”.
La sopravvalutazione della moneta causò una deflazione che fiaccò l’economia nel suo complesso;
le importazioni divennero meno costose e fu favorito l’afflusso di capitali esteri, tuttavia il ribasso
dei prezzi e dei salari non fu indolore. La deflazione colpì soprattutto i lavoratori dipendenti, le
industrie esportatrici, l’agricoltura e le imprese che si trovavano indebitate. I tagli salariali
concorsero comunque ad abbassare i costi di produzione, avvantaggiando principalmente i comparti
che lavoravano materie prime d’importazione e producevano per il mercato nazionale. Sul piano
finanziario la rivalutazione della lira non solo facilitò l’ingresso di capitali stranieri, ma stimolò
anche la formazione del risparmio interno. In definitiva, per sostenere la produzione industriale e
arginare la crescente disoccupazione, lo Stato moltiplicò le forme di presenza nell’economia,
passando da un indirizzo fondamentalmente liberista a un orientamento sempre più interventista.
Un significativo mutamento avvenuto negli anni successivi alla prima guerra mondiale nell’assetto
proprietario delle campagne italiane fu l’espansione della proprietà diretto-coltivatrice. La
diffusione della piccola proprietà fu resa possibile dai risparmi accumulati dai contadini negli anni
di guerra e nel dopoguerra fino al 1925-26; il trasferimento di terre fu agevolato dalla disponibilità a
vendere di molti medi e grandi proprietari assenteisti, che non ritenevano più remunerativo né
sicuro l’investimento in beni fondiari, a causa delle agitazioni contadine. A partire dalla crisi
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deflazionistica, a seguito della maggiore contrazione dei prezzi dei prodotto agricoli rispetto a quelli
industriali, gli agricoltori vennero a trovarsi penalizzati, e spesso non furono in grado di vendere in
modo remunerativo i loro prodotti. Considerando che il 15% del valore medio delle importazioni
italiane era imputabile all’acquisto di prodotti cerealicoli, i quali quindi incidevano non poco sul
deficit della bilancia commerciale, nel 1925 Volpi reintrodusse il dazio sul grano. La politica di
sostegno dei prezzi fu uno dei principali strumenti di attuazione della “battaglia del grano”, che
prevedeva un aumento massiccio della produzione cerealicola nazionale. Fu istituito un Comitato
permanente del grano, allo scopo di individuare i mezzi atti a incrementare la produzione
cerealicola; si deliberarono provvedimenti di premi e assistenza finanziaria agli agricoltori per
intensificare l’uso di macchine, fertilizzanti e sementi selezionate. I risultati furono abbastanza
soddisfacenti nel medio periodo: le importazioni di frumento si mantennero a livelli elevati fino al
1928, ma dal 1929, in concomitanza con un incremento della produzione interna, se ne registrò una
sensibile diminuzione. Tale indirizzo colturale andò a discapito di alcune produzioni di pregio, in
particolare quelle ortofrutticole. Quindi la “battaglia del grano” rappresentò un freno allo sviluppo
capitalistico delle campagne. Ai costi connessi con le mancate produzioni alternative sono da
aggiungere quelli riconducibili al sostegno sul mercato interno del prezzo del grano, assai più
elevato di quello vigente sul mercato mondiale. Ciò finì per penalizzare i consumatori, rendendo
discutibile la convenienza economica di una politica di indipendenza granaria. Per quanto riguarda
le trasformazioni fondiarie realizzate durante il fascismo, nel 1923 venne approvato il testo unico
sulle bonifiche: nasceva la “bonifica integrale”, in cui alle tradizionali opere di prosciugamento e
colmata si aggiungevano la sistemazione idraulica a monte e a valle, la costruzione di canali
d’irrigazione, acquedotti, strade, insediamenti abitativi, la lotta antimalarica. Questa legge elevava
al 70% la quota del contributo statale per le opere da realizzare nel Mezzogiorno. Altri interventi di
bonifica si ebbero con la “legge Mussolini” del 1928, la quale varò un piano di finanziamenti
destinati in parte ad agevolare opere di trasformazione fondiaria spettanti ai proprietari. La
“bonifica integrale” si risolse in un vasto programma di lavori pubblici, effettuati in buona parte
entro il 1934, nell’interesse prevalentemente della grande proprietà terriera. Gli effetti dei lavori di
bonifica sull’aumento dei rendimenti agricoli furono piuttosto limitati; non sono da sottovalutare
però i risultati complessivi in termini di superficie bonificata, soprattutto al Nord, ma anche al
Centro e un po’ in tutte le regioni. Con la colonizzazione interna, attuata mediante il trasferimento
di braccianti soprattutto padani nelle aree di bonifica, il regime avviò la cosiddetta politica di
“sbracciantizzazione”, che si prefiggeva obiettivi di controllo sociale e di totale smantellamento
delle organizzazioni bracciantili socialiste.
Nel corso del 1925 il fascismo pose fine di fatto al pluralismo sindacale e stroncò le ultime forme di
resistenza operaia nelle fabbriche. Il Gran Consiglio del fascismo stabilì che il fenomeno sindacale
doveva essere controllato e inquadrato dallo Stato; con la legge sindacale del 1926 si disciplinarono
giuridicamente i rapporti collettivi di lavoro: lo Stato riconobbe ai sindacati fascisti il monopolio
della rappresentanza professionale di ogni categoria produttiva e i contratti collettivi da essi stipulati
avevano effetti obbligatori per tutti, compresi i non iscritti; furono dichiarati illegali lo sciopero e la
serrata e le imprese potevano controllare rigidamente il costo del lavoro, mentre il regime poteva
manovrare il livello dei salari in funzione della stabilizzazione monetaria. La vita economica,
dunque, non più abbandonata all’individualismo liberale, veniva a dipendere dallo Stato totalitario.
Le corporazioni erano considerate una rappresentanza “integrale” degli interessi della produzione
nazionale. A differenza dei sindacati, esse non avevano personalità giuridica, ma erano riconosciute
come “organi di Stato”: esercitavano funzioni di conciliazione, coordinamento, organizzazione della
produzione; ebbero la facoltà di elaborare norme per la regolamentazione collettiva dei rapporti
economici e furono investite di compiti consultivi e conciliativi nelle controversie collettive di
lavoro. Il corporativismo quindi fu una delle modalità in cui si esplicò l’interventismo stat