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Riassunto esame Storia economica, proff. Fumi, Carera, Locatelli e Besana, libro consigliato L'Italia economica: tempi e fenomeni del cambiamento (1861-2000), Pecorari Pag. 1 Riassunto esame Storia economica, proff. Fumi, Carera, Locatelli e Besana, libro consigliato L'Italia economica: tempi e fenomeni del cambiamento (1861-2000), Pecorari Pag. 2
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A determinare il risanamento del bilancio furono i drastici tagli operati alla spesa pubblica ritenuta

improduttiva, in particolare quella militare e delle amministrazioni postale e ferroviaria. Il

quadriennio 1922-25 si connotò per un evidente rilancio dell’economia grazie al completamento del

processo di riconversione industriale, alla ripresa delle esportazioni e al pur lieve alleggerimento

della pressione fiscale; nonostante il notevole dinamismo delle esportazioni, la bilancia dei

pagamenti vide aggravarsi la propria situazione deficitaria per la crescente espansione delle

importazioni – massicce furono quelle cerealicole – non compensate dalle partite invisibili, che

tendevano anzi a contrarsi.

Nel 1925 la prioritaria urgenza della politica economica era di bloccare l’inflazione interna e di

stabilizzare il cambio della lira, svalutatasi a causa della debolezza della bilancia dei pagamenti,

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ascrivibile al disavanzo commerciale con l’estero e a fattori speculativi. Il ministro delle Finanze

Volpi reintrodusse i dazi cerealicoli; le importazioni di grano, infatti, incidevano in proporzioni

ritenute insostenibili sulle passività della bilancia commerciale. Preliminare alla stabilizzazione del

cambio della lira era altresì la sistemazione dei debiti di guerra e la normalizzazione delle relazioni

finanziarie coi Paesi creditori: gli Stati Uniti vincolavano alla soluzione di tale questione l’apertura

di linee di credito, che costituivano la precondizione indispensabile per la stessa stabilizzazione

monetaria e per l’ingresso dell’Italia nel gold exchange standard. Nelle trattative intavolate con gli

Stati Uniti Volpi sottolineò i pesanti sacrifici economici e umani compiuti durante la guerra, la

modesta quota di riparazioni assegnata all’Italia e il carattere costantemente passivo della bilancia

commerciale specie nei riguardi degli Stati Uniti, da cui si importava molto di più di quanto si

esportasse. Si ottenne di dilazionare in 62 anni il rimborso del debito e soprattutto di pagare nei

primi 5 anni quote pressoché simboliche. Volpi inoltre riuscì a ottenere dagli Stati Uniti un prestito

di 100 milioni di dollari, spianando la strada a ulteriori cospicue operazioni di finanziamento a

favore del nostro Paese da parte di gruppi americani. Per quanto riguarda invece i debiti con la Gran

Bretagna, Volpi siglò un ottimo accordo con Churchill ottenendo una riduzione sull’ammontare

riconosciuto del debito addirittura dell’85%, nonché vantaggiose condizioni di pagamento. Gli

accordi sui debiti di guerra con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna determinarono una notevole

contrazione del debito estero complessivo dell’Italia. L’avvenuta sistemazione del debito estero non

bastò tuttavia ad attenuare le tensioni inflazionistiche interne e a contrastare la speculazione al

ribasso della lira; fu avviata pertanto una decisa politica deflazionistica finalizzata alla

stabilizzazione monetaria. Mussolini, che temeva di perdere la propria reputazione se non fosse

riuscito in quella che venne chiamata “battaglia della lira”, nel proprio discorso del 1926 si

pronunciò per una drastica rivalutazione della moneta nazionale a “quota 90” rispetto alla sterlina. A

spingere Mussolini a stabilizzare la lira a un tale livello furono considerazioni di prestigio interno e

internazionale: la volontà di rafforzare il sostegno al regime da parte della piccola borghesia che

avrebbe visto rivalutati i propri risparmi, l’esigenza di rendere meno costose le importazioni di

materie prime, la necessità di far affluire capitali stranieri in Italia. Per conseguire l’obiettivo

occorreva procedere a un riordino strutturale dell’economia, completare il risanamento della finanza

pubblica e in primo luogo riformare il sistema di emissione; a tal fine, nel 1926 fu attribuito il

monopolio dell’emissione alla Banca d’Italia, cui vennero quindi trasferite le riserve del Banco di

Napoli e del Banco di Sicilia. La Banca d’Italia quindi divenne una moderna banca centrale, con il

compito di vigilare sull’attività delle banche commerciali e di autorizzare l’apertura di nuove

banche e la realizzazione di fusioni. Essa dunque assunse il governo della moneta e del credito. Tali

misure ridussero la velocità di circolazione della moneta, spingendo al ribasso i prezzi e nel 1927

fecero raggiungere il rapporto della lira con la sterlina a “quota 90”.

La sopravvalutazione della moneta causò una deflazione che fiaccò l’economia nel suo complesso;

le importazioni divennero meno costose e fu favorito l’afflusso di capitali esteri, tuttavia il ribasso

dei prezzi e dei salari non fu indolore. La deflazione colpì soprattutto i lavoratori dipendenti, le

industrie esportatrici, l’agricoltura e le imprese che si trovavano indebitate. I tagli salariali

concorsero comunque ad abbassare i costi di produzione, avvantaggiando principalmente i comparti

che lavoravano materie prime d’importazione e producevano per il mercato nazionale. Sul piano

finanziario la rivalutazione della lira non solo facilitò l’ingresso di capitali stranieri, ma stimolò

anche la formazione del risparmio interno. In definitiva, per sostenere la produzione industriale e

arginare la crescente disoccupazione, lo Stato moltiplicò le forme di presenza nell’economia,

passando da un indirizzo fondamentalmente liberista a un orientamento sempre più interventista.

Un significativo mutamento avvenuto negli anni successivi alla prima guerra mondiale nell’assetto

proprietario delle campagne italiane fu l’espansione della proprietà diretto-coltivatrice. La

diffusione della piccola proprietà fu resa possibile dai risparmi accumulati dai contadini negli anni

di guerra e nel dopoguerra fino al 1925-26; il trasferimento di terre fu agevolato dalla disponibilità a

vendere di molti medi e grandi proprietari assenteisti, che non ritenevano più remunerativo né

sicuro l’investimento in beni fondiari, a causa delle agitazioni contadine. A partire dalla crisi

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deflazionistica, a seguito della maggiore contrazione dei prezzi dei prodotto agricoli rispetto a quelli

industriali, gli agricoltori vennero a trovarsi penalizzati, e spesso non furono in grado di vendere in

modo remunerativo i loro prodotti. Considerando che il 15% del valore medio delle importazioni

italiane era imputabile all’acquisto di prodotti cerealicoli, i quali quindi incidevano non poco sul

deficit della bilancia commerciale, nel 1925 Volpi reintrodusse il dazio sul grano. La politica di

sostegno dei prezzi fu uno dei principali strumenti di attuazione della “battaglia del grano”, che

prevedeva un aumento massiccio della produzione cerealicola nazionale. Fu istituito un Comitato

permanente del grano, allo scopo di individuare i mezzi atti a incrementare la produzione

cerealicola; si deliberarono provvedimenti di premi e assistenza finanziaria agli agricoltori per

intensificare l’uso di macchine, fertilizzanti e sementi selezionate. I risultati furono abbastanza

soddisfacenti nel medio periodo: le importazioni di frumento si mantennero a livelli elevati fino al

1928, ma dal 1929, in concomitanza con un incremento della produzione interna, se ne registrò una

sensibile diminuzione. Tale indirizzo colturale andò a discapito di alcune produzioni di pregio, in

particolare quelle ortofrutticole. Quindi la “battaglia del grano” rappresentò un freno allo sviluppo

capitalistico delle campagne. Ai costi connessi con le mancate produzioni alternative sono da

aggiungere quelli riconducibili al sostegno sul mercato interno del prezzo del grano, assai più

elevato di quello vigente sul mercato mondiale. Ciò finì per penalizzare i consumatori, rendendo

discutibile la convenienza economica di una politica di indipendenza granaria. Per quanto riguarda

le trasformazioni fondiarie realizzate durante il fascismo, nel 1923 venne approvato il testo unico

sulle bonifiche: nasceva la “bonifica integrale”, in cui alle tradizionali opere di prosciugamento e

colmata si aggiungevano la sistemazione idraulica a monte e a valle, la costruzione di canali

d’irrigazione, acquedotti, strade, insediamenti abitativi, la lotta antimalarica. Questa legge elevava

al 70% la quota del contributo statale per le opere da realizzare nel Mezzogiorno. Altri interventi di

bonifica si ebbero con la “legge Mussolini” del 1928, la quale varò un piano di finanziamenti

destinati in parte ad agevolare opere di trasformazione fondiaria spettanti ai proprietari. La

“bonifica integrale” si risolse in un vasto programma di lavori pubblici, effettuati in buona parte

entro il 1934, nell’interesse prevalentemente della grande proprietà terriera. Gli effetti dei lavori di

bonifica sull’aumento dei rendimenti agricoli furono piuttosto limitati; non sono da sottovalutare

però i risultati complessivi in termini di superficie bonificata, soprattutto al Nord, ma anche al

Centro e un po’ in tutte le regioni. Con la colonizzazione interna, attuata mediante il trasferimento

di braccianti soprattutto padani nelle aree di bonifica, il regime avviò la cosiddetta politica di

“sbracciantizzazione”, che si prefiggeva obiettivi di controllo sociale e di totale smantellamento

delle organizzazioni bracciantili socialiste.

Nel corso del 1925 il fascismo pose fine di fatto al pluralismo sindacale e stroncò le ultime forme di

resistenza operaia nelle fabbriche. Il Gran Consiglio del fascismo stabilì che il fenomeno sindacale

doveva essere controllato e inquadrato dallo Stato; con la legge sindacale del 1926 si disciplinarono

giuridicamente i rapporti collettivi di lavoro: lo Stato riconobbe ai sindacati fascisti il monopolio

della rappresentanza professionale di ogni categoria produttiva e i contratti collettivi da essi stipulati

avevano effetti obbligatori per tutti, compresi i non iscritti; furono dichiarati illegali lo sciopero e la

serrata e le imprese potevano controllare rigidamente il costo del lavoro, mentre il regime poteva

manovrare il livello dei salari in funzione della stabilizzazione monetaria. La vita economica,

dunque, non più abbandonata all’individualismo liberale, veniva a dipendere dallo Stato totalitario.

Le corporazioni erano considerate una rappresentanza “integrale” degli interessi della produzione

nazionale. A differenza dei sindacati, esse non avevano personalità giuridica, ma erano riconosciute

come “organi di Stato”: esercitavano funzioni di conciliazione, coordinamento, organizzazione della

produzione; ebbero la facoltà di elaborare norme per la regolamentazione collettiva dei rapporti

economici e furono investite di compiti consultivi e conciliativi nelle controversie collettive di

lavoro. Il corporativismo quindi fu una delle modalità in cui si esplicò l’interventismo stat

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A.A. 2015-2016
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SSD Scienze economiche e statistiche SECS-P/12 Storia economica

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher caterina.giovanardi di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia economica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università Cattolica del "Sacro Cuore" o del prof Fumi Gianpiero.