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Et qui ne peuvent plus sourire!
In questa poesia rovescia il dolore inflitto ad altri in dolore inflitto a sé stesso. Il tormento inflitto a
sé stessi deriva dall’energia che colpisce l’altro. Questa derivazione si sviluppa sul filo di una serie
di immagini in cui il pianto si amplifica nelle dimensioni di un paesaggio fluviale e marino, mentre le
varie comparazioni moltiplicano e frammentano il soggetto lirico. Inaspettatamente attraverso la
concatenazione delle immagini acustiche si effettua il ritorno all’io. Abbiamo quindi l’entrata in
scena dell’Ironia. Secondo Hoffmann la riflessione vota gli uomini alla tristezza dell’esilio, ma la
liberazione arriverà grazie ad un raddoppiamento della riflessione, cioè attraverso lo humour e
l’ironia. Ma l’ironia secondo Baudelaire non possiede alcun valore liberatorio. L’ironia, come la
malinconia, come l’immagine rinviata dagli specchi, continua ad essere proprietà di Satana. Nella
tradizione della medicina umorale classica, la malinconia era definita come un “nero veleno”.
Sostituendo nella sua poesia l’ironia alla malinconia, Baudelaire sostituisce un’aggressività
umorale con l’aggressività di un atto di coscienza. Con il morso, la voracità, l’ironia assume
immediatamente un’immagine bestiale. Se l’ironia fa del poeta un “falso accordo” è perché appare
un antico attributo della malinconia. Infatti se all’inizio della poesia il soggetto lirico assume il ruolo
di persecutore, poi inizia a parlare solo di sé stesso proclamandosi vittima dell’ironia e ancora
attribuendosi il duplice ruolo di perseguitato e persecutore. La ripetizione della prima persona del
verbo essere imprime il suo movimento alle ultime quattro strofe della poesia, mentre le sevizie
inflitte all’amante occupavano solo le prime tre quartine. La relazione con l’altro è stata sostituita
dalla relazione a sé. L’ironia ha soppiantato la vittima passiva. Si assiste inoltre alla duplicazione
degli attributi del verbo essere, che giustappongono i predicati antagonisti (piaga e coltello,
schiaffo e guancia…). Vi si aggiunge l’allegorizzazione di sé che nella forma di una dichiarazione
d’identità (je suis) moltiplica le figure dell’alterità. “Io sono il sinistro specchio” allegorizza l’io
materializzandolo, facendo di esso un oggetto. Ma diventare specchio significa ridursi a essere
solo superficie riflettente, infatti la coscienza mutata in specchio sperimenta la riflessione in modo
passivo. L’ironia sotto le sembianze di “megera” ha il potere dell’autocontemplazione. L’io-specchio
raffigura un aspetto estremo della malinconia: non si appartiene, è puro spossessamento. La
megera ha il potere di medusa, congela colui che fissa (la vetrificazione è una variante della
pietrificazione). L’Irrémédiable
I
Une Idée, une Forme, un Etre
Parti de l'azur et tombé
Dans un Styx bourbeux et plombé
Où nul oeil du Ciel ne pénètre;
Un Ange, imprudent voyageur
Qu'a tenté l'amour du difforme,
Au fond d'un cauchemar énorme
Se débattant comme un nageur,
Et luttant, angoisses funèbres!
Contre un gigantesque remous
Qui va chantant comme les fous
Et pirouettant dans les ténèbres;
Un malheureux ensorcelé
Dans ses tâtonnements futiles
Pour fuir d'un lieu plein de reptiles,
Cherchant la lumière et la clé;
Un damné descendant sans lampe
Au bord d'un gouffre dont l'odeur
Trahit l'humide profondeur
D'éternels escaliers sans rampe,
Où veillent des monstres visqueux
Dont les larges yeux de phosphore
Font une nuit plus noire encore
Et ne rendent visibles qu'eux;
Un navire pris dans le pôle
Comme en un piège de cristal,
Cherchant par quel détroit fatal
Il est tombé dans cette geôle;
— Emblèmes nets, tableau parfait
D'une fortune irrémédiable
Qui donne à penser que le Diable
Fait toujours bien tout ce qu'il fait! ossimori
II
Tête-à-tête sombre et limpide
Qu'un coeur devenu son miroir!
Puits de Vérité, clair et noir
Où tremble une étoile livide,
Un phare ironique, infernal
Flambeau des grâces sataniques,
Soulagement et gloire uniques,
L’Irrémédiable è un poema nominale (senza io né tu). La serie degli emblemi sfocia in una duplice
lezione: la prima concerne nella perfezione delle opere del Diavolo; la seconda, messa in evidenza
dalla separazione delle ultime due quartine, riduce tutte le immagini a un denominatore ultimo che
è l’autoriflessione. Il legame che unisce l’essere nell’atto di cadere con l’ambiente avverso è
rappresentato dall’uso delle preposizioni “au fond”, “contre”, “au bord”. Lo “Stige fangoso” è
analogo al vaso in cui nell’Inferno di Dante sono racchiusi gli accidiosi. L’esperienza affettiva della
malinconia è inseparabile dalla rappresentazione di uno spazio ostile che diventa il completamento
esterno della pesantezza interna. La successione degli emblemi va verso l’inanimato, la
despiritualizzazione e la disumanizzazione: dall’acqua nera e fangosa alla prigione cristallina della
cinestesia infelice (dibattersi, lottare, incespicare), alla completa immobilità; dall’ Idea e dall’Essere
angelico alla nave. La “trappola di cristallo” annuncia lo “specchio” della seconda parte. Con l’aiuto
del Diavolo tutto è stato preparato perfettamente per la scena deserta “dell’incontro a due” in cui si
accoppiano i contrari, lo “scuro” e il “limpido”, il “chiaro” e il “nero”. In questa seconda parte
vengono decifrati gli emblemi che precedentemente si sono dispiegati. L’antagonismo si riduce alla
più semplice struttura “dell’incontro a due” e si condensa negli ossimori. “Un cuore” diventando il
proprio “specchio”, si scinde per farsi altro nei confronti di sé stesso. Ma il cuore e lo specchio
sono ancora esseri parziali che frammentano l’unità dell’io. Il pozzo, il faro, la torcia sono oggetti
portatori di evidenza, in essi si esalta il potere luciferino della pura constatazione dell’irrimediabile.
Baudelaire, che spesso ricorre alla parola “torcia” per dire la luce di uno sguardo, rende omaggio,
nelle “grazie sataniche”, al suo ideale di bellezza, carico di malinconia: il Satana di Milton.
Nell’ultimo verso, “la consapevolezza nel Male” è la risultante di tutte le immagini allegoriche che la
prefiguravano. E nello stesso tempo rinvia a quella che è stata la prima parola della poesia:
“un’Idea”, come in un cerchio, come se l’irrimediabile della malinconia votasse la caduta a ripetersi
all’infinito e la prigionia a eterizzarsi.
III – Le figure chinate: “Le Cygne”
Per Aristotele il malinconico è colui che può innalzarsi ai più alti pensieri, ma se la bile nera finisce
col consumarsi e si raffredda, diventerà glaciale e si convertirà in “nero veleno”. L’atteggiamento
dell’essere chino, il capo talvolta sostenuto dalla mano, può assumere significati ambigui. Questo
gesto dice la presenza aggravata del corpo, l’assenza dello spirito. Questo tipo di personaggio si
china sul vuoto o sull’infinito delle lontananze. L’occhio del malinconico fissa l’insostanziale e il
perituro: la sua immagine riflessa. Nell’ultimo Spleen, l’associazione della malinconia e della figura
chinata si verifica pienamente in una reclusione popolata da animali malinconici (ragni, pipistrelli).
Ancora più importanti sono i testi di Baudelaire in cui la figura chinata non è l’io stesso, ma
l’oggetto contemplato. Nel Salon de 1859, il capitolo sulla scultura inizia con un percorso tra statue
immaginarie. È singolare che si trovi qui, distribuito in più figure (la malinconia, il sepolcro, la figura
del Lutto), tutto ciò che in Le Cygne sarà riunito nell’immagine di Andromaca.
Le Cygne
I
Androma
que , je pense à vous! Ce petit fleuve,
Pauvre et triste miroir où jadis resplendit
L'immense majesté de vos douleurs de veuve,
Ce Simoïs menteur qui par vos pleurs grandit,
A fécondé soudain ma mémoire fertile,
Comme je traversais le nouveau Carrousel.
Le vieux Paris n'est plus (la forme d'une ville
Change plus vite, hélas! que le coeur d'un mortel);
Je ne vois qu'en esprit tout ce camp de baraques,
Ces tas de chapiteaux ébauchés et de fûts,
Les herbes, les gros blocs verdis par l'eau des flaques,
Et, brillant aux carreaux, le bric-à-brac confus.
Là s'étalait jadis une ménagerie;
Là je vis, un matin, à l'heure où sous les cieux
Froids et clairs le Travail s'éveille, où la voirie
Pousse un sombre ouragan dans l'air silencieux,
Un cygne qui s'était évadé de sa cage,
Et, de ses pieds palmés frottant le pavé sec,
Sur le sol raboteux traînait son blanc plumage.
Près d'un ruisseau sans eau la bête ouvrant le bec
Baignait nerveusement ses ailes dans la poudre,
Et disait, le coeur plein de son beau lac natal:
«Eau, quand donc pleuvras-tu? quand tonneras-tu, foudre?»
Je vois ce malheureux, mythe étrange et fatal,
Vers le ciel quelquefois, comme l'homme d'Ovide,
Vers le ciel ironique et cruellement bleu,
Sur son cou convulsif tendant sa tête avide
Comme s'il adressait des reproches à Dieu!
II
Paris change! mais rien dans ma mélancolie iperbole
N'a bougé! palais neufs, échafaudages, blocs,
Vieux faubourgs, tout pour moi devient allégorie
Et mes chers souvenirs sont plus lourds que des rocs.
Aussi devant ce Louvre une image m'opprime: Iperbole
Je pense à mon grand cygne, avec ses gestes fous, antitetica
Comme les exilés, ridicule et sublime
Et rongé d'un désir sans trêve! et puis à vous,
Andromaque, des bras d'un grand époux tombée,
Vil bétail, sous la main du superbe Pyrrhus,
Auprès d'un tombeau vide en extase courbée
Veuve d'Hector, hélas!