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F GOUBIER
zione come teoria che ha la vocazione tecnica di fornire il più formalmente possibile le condizioni di verità di
una proposizione in base ad alcuni aspetti dei termini che la compongono: proprietà sintattiche e semantiche,
posizioni rispettive nella proposizione, funzioni sintattiche corrispondenti.
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Sunto di filosofia medievale, prof. Bassiano Rossi, libro consigliato “Nuova storia della filosofia
occidentale. Filosofia medievale” di A. Kenny Isagoge
logica di Aristotele all’interno del corso di studî delle scuole neoplatoniche, e la sua
venne presto adottata come testo introduttivo standard per gli studenti.
Isagoge
Una componente importante dell’ era la dottrina dei predicabili, ovvero dei tipi di
relazione in cui un predicato può stare rispetto al soggetto. Porfirio elencava cinque titoli di
differentia
predicabili: specie, genere, , proprietà ed accidente. Gli uomini, veniva spesso so-
stenuto a partire da questo impianto classificatorio, formano una specie appartenente al genere
animale differentia
, contraddistinta dalla «razionale».
I predicati «uomo» e «animale», quando utilizzati in riferimento ad un individuo umano
come Socrate, sono predicati che rientrano nella categoria di sostanza. Il predicato «razionale»,
differentia
la , sembra trovarsi a cavallo della distinzione tra sostanza ed accidente: in quanto
parte della definizione, esso sembra debba appartenere alla categoria di sostanza; d’altronde
però la razionalità è sicuramente una qualità, e le qualità sono accidenti. Una proprietà è un
attributo peculiare di una determinata specie, anche se non ha valore definitorio per essa: la
capacità di ridere era comunemente considerata, in epoca medievale, una proprietà caratteri-
stica della razza umana. Un accidente è invece un predicato che può appartenere o meno ad
un dato individuo, senza con ciò pregiudicare l’esistenza dell’individuo stesso.
Ci sono però specie ultime che non generi (come la specie umana) e ci sono generi ultimi
che non sono specie di nessun genere sovraordinato: tali sono le dieci categorie. Se partiamo
differentia
dalla categoria di sostanza, possiamo aggiungervi la «materiale» o «immateriale»,
derivando così da essa due generi, rispettivamente il corpo e lo spirito. Dal genere «corpo»
differentia
possiamo derivare due generi ulteriori mediante l’aggiunta della «animato» o «ina-
nimato», ottenendo così gli esseri viventi ed i minerali. A sua volta, il genere degli esseri viventi
si scinderà nei generi vegetale e animale, ed il genere animale produrrà infine, per mezzo della
differentia «razionale», la specie uomo, la quale include gli individui Pietro, Paolo e Giovanni.
L’«albero di Porfirio» è una gerarchia ramificata di questo tipo, rappresentata nella forma di
diagramma.
Isagoge
Nell’ Porfirio utilizza la tecnica della diramazione per porre tre questioni riguardo
alla specie ed ai generi. Specie e genere non sono entità individuali come Pietro e Paolo, ma
sono in un qualche senso universali: esistono dunque fuori dalla mente, o sono solo entità
mentali? Se si trovano fuori dalla mente, sono corporei o incorporei? E se sono incorporei,
esistono in cose percepibili mediante i sensi o sono invece separati da esse? Porfirio lasciò tali
domande senza risposta, ma esse costituiranno il programma intorno a cui si svilupperanno
molti dibattiti medievali. Divennero infatti la formulazione canonica del «problema degli uni-
versali».
Boezio stesso rispose alle questioni sollevate da Porfirio affermando che gli universali esi-
stono fuori dalla mente, sono incorporei, ma non risultano separabili dagli oggetti individuali
se non nel pensiero. Le specie ed i generi sono relazioni di similarità, le quali vengono astratte
da un insieme di particolari alla maniera in cui noi componiamo la somiglianza dell’«umanità»
a partire da una collezione di singoli esemplari, gli individui umani. Boezio sostiene che queste
erano le posizioni di Aristotele, ma aggiunge che per gli scopi della logica formale non è ne-
cessario escludere la tesi platonica di un’esistenza separata dagli universali.
Boezio dà anche dimostrazione di conoscere bene la logica stoica, pur sempre inferiore a
quella aristotelica. Egli ritiene ad esempio che gli stoici si sbagliassero in merito ai futuri con-
p
tingenti: quando è una proposizione formulata al tempo futuro, riguardante una materia
p p p p
contingente, allora « o non- » è vera, ma né né non- debbono essere vere di necessità.
Così «domani ci sarà una battaglia navale o domani non ci sarà una battaglia navale» è vera,
ma né «domani ci sarà una battaglia navale» né «domani non ci sarà una battaglia navale»
devono essere necessariamente vere oggi.
Oltre ai commenti a Porfirio e ad Aristotele, Boezio scrisse manuali di ragionamento sillo-
gistico: uno sul sillogismo categorico ed uno sul sillogismo ipotetico. Un sillogismo ipotetico
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Sunto di filosofia medievale, prof. Bassiano Rossi, libro consigliato “Nuova storia della filosofia
occidentale. Filosofia medievale” di A. Kenny
deve contenere come minimo una premessa ipotetica, vale a dire una proposizione introdotta
dai connettivi «se», «o», «poiché». Alcuni sillogismi ipotetici possono contenere premesse ca-
modus ponens
tegoriche oltre che ipotetiche: un esempio è il , già noto alla logica stoica («se è
giorno, c’è luce; ma c’è luce, dunque è giorno»).
Boezio risulta tuttavia più interessato ai sillogismi in cui tutte le premesse e le conclusioni
sono ipotetiche (se A allora B; se B allora C; quindi se A allora C). Egli elaborò schemi sillo-
gistici considerando premesse negative oltre che affermative, nonché premesse in cui figura-
vano altre congiunzioni oltre al «se» («è giorno o è notte»). I sillogismi ipotetici, sostiene Boe-
zio, dipendono dai sillogismi categorici, poiché le premesse ipotetiche hanno premesse cate-
goriche come loro sostituenti. Boezio si schiera così di nuovo con Aristotele contro gli stoici,
stavolta riguardo alla relazione tra logica dei predicati e logica proposizionale.
Nel discutere il sillogismo ipotetico Boezio opera un’importante distinzione tra due diffe-
renti tipi d’affermazioni ipotetiche. Il termine che egli usa per indicare una verità ipotetiche è
consequentia , concetto assimilabile all’odierno termine filosofico d’«implicazione». In alcune
conseguenze non c’è una connessione necessaria tra l’antecedente ed il conseguente: l’esem-
pio che egli adduce è «se il fuoco è caldo, i cieli sono sferici». Questo sembra un esempio di
ciò che i logici moderni chiamano «implicazione materiale», per la quale Boezio usa l’espres-
consequentia secundum accidens
sione . D’altro canto ci sono conseguenze in cui il conse-
guente segue necessariamente dall’antecedente. Questa classe comprende non solo le verità
logiche, che i logici moderni chiamerebbero «implicazioni formali», ma anche affermazioni
ipotetiche la cui verità viene scoperta mediante l’indagine scientifica, come «se la terra si frap-
pone, c’è un eclisse di luna».
Conseguenze vere possono derivarsi da un gruppo di proposizioni universali supreme che
topos
Boezio chiama «loci», traduzione latina che Cicerone aveva dato all’aristotelico greco .
De topicis differentiis
Boezio scrisse un trattato, il , in cui avanza una serie di principî per
classificare le proposizioni supreme in gruppi.
3. La logica di Abelardo
Gli scritti di Boezio costituirono la cornice per lo studio della logica fino a quando non
corpus
venne recepito l’intero aristotelico. A partire da quel momento si cominciò a fare rife-
rimento alla logica trasmessa da Boezio con l’espressione «vecchia logica», per distinguerla
nova logica
dalla praticata nelle università. La vecchia logica toccò il suo apice nei primi anni
del XII secolo, con l’opera di Abelardo: numerose intuizioni geniali contenute nella sua logica
non si conservarono negli scritti dei logici medievali più tardi. Dialectica
Il nome utilizzato da Abelardo per indicare la logica era «dialettica», e è anche il
titolo della sua opera di logica maggiore. Egli ritiene che logica e grammatica siano in stretta
connessione tra loro: la logica è una disciplina linguistica. Come la grammatica, essa ha a che
fare con le parole, ma considera queste ultime come dotate di significato e non soltanto come
suoni.
Aristotele aveva basato la propria distinzione tra nomi e verbi sul fatto che i secondi conte-
nevano un’indicazione temporale. Abelardo rifiutò tale criterio: è vero che solo i verbi possie-
dono una flessione temporale, ma anche i nomi contengono un riferimento implicito al
tempo. I termini che fungono da soggetto in una proposizione stanno principalmente per cose
esistenti al momento presente, e lo si può vedere se consideriamo una proposizione come
«Socrate era un fanciullo», proferita quando ormai Socrate è vecchio. Se il tempo appartenesse
solo ai verbi, l’enunciato avrebbe lo stesso significato di «un fanciullo era Socrate» (da inten-
dersi come «qualcosa che al presente è un fanciullo era Socrate»), ma quest’ultimo enunciato
è sicuramente falso. Il corrispondente enunciato vero è «qualcosa che al presente era un fan-
ciullo è Socrate». 50
Sunto di filosofia medievale, prof. Bassiano Rossi, libro consigliato “Nuova storia della filosofia
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La caratteristica che definisce i verbi in quanto tali non è il loro essere flessi temporalmente,
bensì il fatto che essi rendono completo un enunciato: senza i verbi, afferma Abelardo, non è
completezza di senso. Possiamo avere enunciati privi di nomi («vieni qui!»), ma non vi possono
essere enunciati di senso compiuto in mancanza di verbi. Oltretutto Abelardo considera ca-
nonica la forma soggetto-verbo, mentre vede l’occorrenza della copula «è» come una mera
esplicitazione della funzione di collegamento che si esplica in ogni verbo.
Oltre che collegare fra loro soggetto e predicato, il verbo «essere» può venire utilizzato
est