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UN MODELLO DI AUTOREGOLAZIONE
Molte persone con DPB sperimentano autolesionismo, ideazione suicidaria, minacce di suicidio e tentativi
non letali di suicidio, il che rende difficile stimare il rischio di suicidio. Il 75% di individui con DPB ha
commesso un tentativo di suicidio non mortale, e nell’arco della vita il tasso di suicidio in questi individui è
del 9-10%. Inoltre, l’80% di questi, tra la popolazione ricoverata per DPB, ha commesso atti di
automutilazione.
L’autolesionismo include due forme di comportamento autodistruttivo: una con l’intenzione di morire
(tentativi di suicidio) e una senza (comportamento autolesivo).
Il tentativo di suicidio è definito come un atto autodistruttivo compiuto con l’intenzione di morire. Tale
intenzione può essere difficile da determinare attraverso la domanda diretta, in quanto resoconti
retrospettivi possono essere influenzati dalla reinterpretazione e dal risultato. Dal punto di vista clinico,
l’intento suicidario è spesso dedotto da fattori quali il livello di letalità del comportamento autolesivo o da
altre circostanze (quale la probabilità di essere scoperti durante l’atto autolesivo). Il metodo più utilizzato è
l’overdose. Un problema legato alla valutazione dell’intenzionalità suicidaria è che gli individui con DPB
tendono a interpretare i loro tentativi di suicidio come meno letali di quanto siano realmente.
Il comportamento autolesivo (chiamato anche autolesionismo non suicida) è definito come un
comportamento, come lo sbattere la testa, messo in atto senza intenzione di morire: si tratta di un
fenomeno che può essere compreso come uno sforzo per regolare le emozioni. Il termine automutilazione
sta ad indicare alcune forme di autolesionismo, come il tagliarsi e il bruciarsi, che compromettono
l’integrità di un organo. Si tratta di un fattore di rischio per il suicidio. Il termine parasuicidio sta ad
indicare, invece, ogni comportamento autolesivo, con o senza intenso suicida, che non risulti in decesso.
Comportamento autolesionistico: ragioni e funzioni
L’autolesionismo non suicida non è sempre un modo per attirare l’attenzione, anzi è un comportamento
privato, nascosto e negato, qualcosa di cui ci si vergogna. Solo il 17% lo fa per cercare aiuto dagli altri. Ciò
non toglie che tale fenomeno attiri l’attenzione, anche se i pazienti con DPB non sembrano esserne
consapevoli. Uno dei problemi legati a tutto ciò è che l’attenzione ottenuta può diventare, in seguito, un
rinforzo. Le funzioni dell’autolesionismo più frequentemente riportate dai pazienti sono:
1. regolazione delle emozioni, in quanto riduce la tensione emotiva;
2. distrazione dal dolore emotivo, in quanto molto auto-coinvolgente;
3. autopunizione, perché fornisce sollievo da sensazioni di vergogna, rimorso e cattiveria;
4. concretizzazione del disagio emotivo: questi individui stentano a credere che si possa star male fino
a quel punto senza una prova visibile, perciò una cicatrice o un livido possono fornire la prova
concreta del loro stato emotivo. La Linehan ha descritto il processo di auto-invalidazione che si
verifica nel DPB, per il quale gli individui credono di iperreagire o di non aver motivo per sentirsi in
quel modo;
5. tentativo di controllo: nel DPB si hanno difficoltà con la regolazione delle emozioni, per cui ci si
sente fuori controllo. Per ristabilire il controllo delle emozioni, ci si fa del male;
6. alleviare la depersonalizzazione, dovuta al sovraccarico emotivo;
7. espressione della rabbia.
L’esperienza dell’autolesionismo: c’è un processo tipico che conduce all’autolesionismo. Il fattore
scatenante è quasi sempre una perdita interpersonale, reale o immaginaria, attraverso una separazione o
un abbandono. Segue un’interpretazione cognitiva dell’evento, che solitamente include vergogna o
autocondanna. Si verifica allora un’escalation emotiva in cui il giudizio è offuscato e le emozioni, fuori
controllo, si trasformano in una qualche forma di odio auto diretto. Spesso, ma non sempre, questo
conduce ad una risposta dissociativa, che porta dal dolore all’intorpidimento. La persona non resiste
all’intorpidimento, si fa male e sperimenta immediatamente un senso di sollievo. Pertanto,
l’autolesionismo è estremamente efficace nell’indurre il sollievo. Alcuni autori hanno ipotizzato che
l’autolesionismo stimoli il rilascio di un agente biochimico in grado di ridurre il dolore, un’endorfina. A
supporto di questa spiegazione, uno studio mostra la presenza di un’alterata concentrazione di oppioidi
endogeni nel fluido cerebrospinale di chi pratica autolesionismo.
Conoscenze e fattori cognitivi: gli autolesionisti hanno spesso due credenze fisse, definite miti o credenze
distorte. La prima è la convinzione di non poter gestire il dolore emotivo, e che quello fisico sia più
tollerabile. La seconda, frequente in quegli individui che utilizzano l’autolesionismo come espressione della
rabbia, è la convinzione che sia meglio fare del male a sé stessi piuttosto che esprimere sentimenti di rabbia
verso gli altri.
Dissociazione, comportamento autolesivo ed esperienza del dolore: i pazienti autolesionisti con DPB
possono essere divisi in due categorie a seconda che sentano dolore o meno mentre compiono atti
autolesionistici. Chi non sente dolore è generalmente più compromesso, presenta alti livelli di depressione,
ansia, impulsività, dissociazione, sintomatologia traumatica e numerosi tentativi di suicidio e abuso
sessuale. L’analgesia durante l’autolesionismo è associata a fattori neurosensoriali e psicologici.
Fattori neurobiologici e cognitivi: esiste un substrato biologico per tutte le forme di comportamento
autolesionistico. Il funzionamento serotoninergico è implicato nel suicidio, nei tentativi di suicidio,
nell’impulsività e nell’aggressività. Inoltre, un’iperattività dei sistemi neuroendocrini centrali sensibili allo
stress e un aumento della secrezione di cortisolo possono causare episodi di automutilazione.
Il modello convenzionale di comportamento suicidario: un modello concettuale di comportamento
suicidario è una teoria sulle caratteristiche del suicida e sulle cause che lo portano a togliersi la vita. Un
modello ingenuo è quello secondo cui il suicida sia un depresso che ritiene che non valga la pena vivere:
questo modello non è applicabile al DPB, in quanto i tentativi di suicidio possono avere una funzione di
regolazione delle emozioni, al pari degli episodi autolesionistici.
Il modello di autoregolazione dell’autolesionismo e del comportamento suicida nel DPB: il modello di
autoregolazione propone che autolesività e comportamento suicidario compiano due funzioni: infliggere
dolore fisico e regolare il sé e le sue emozioni ripristinando un senso di equilibrio. Secondo questo modello,
l’individuo sperimenta una serie di emozioni e pensieri intollerabili, caotici e vissuti come fuori dal
controllo, condizione spesso accompagnata dall’autocondanna perché ci si sente in tale stato. Gli individui
sentono allora di dover fare qualcosa per modificare come si sentono, e l’impulso ad agire può esplicitarsi
in un tentativo di suicidio o un episodio di autolesionismo. L’episodio ristabilisce il controllo e il benessere.
Ridurre il comportamento autolesivo: la terapia cognitivo-comportamentale e la terapia dialettica
comportamentale riducono l’autolesionismo. Tuttavia, una valutazione dell’esperienza dell’autolesionismo
è preliminare ad ogni tipo di trattamento. Dovrebbero essere valutati i seguenti aspetti:
1. funzione dell’autolesività;
2. intenzionalità dei comportamenti suicidari passati;
3. conoscenze e processi cognitivi che contribuiscono all’autolesività;
4. conseguenze dell’autolesività (ad esempio i rinforzi).
Infine, per quanto riguarda la valutazione del rischio e la decisione di ricovero ospedaliero, il clinico deve
tenere conto del fatto che ricoveri multipli compromettono gravemente l’abilità e l’autonomia del paziente.
LA TERAPIA FARMACOLOGICA NEL DPB
Il DPB non è una malattia in senso strettamente medico, cioè con una singola causa biologica. Piuttosto, è
una sindrome, cioè un insieme di sintomi. Di conseguenza, diversi farmaci possono essere necessari. Il
sollievo dai sintomi cognitivi, emotivi e impulsivi raggiunto attraverso la farmacoterapia può rendere
possibile alle persone con DPB di impegnarsi con maggior successo nella psicoterapia, ma non agisce sulle
relazioni interpersonali disturbate, mostra risultati modesti e spesso lascia sintomi residui. La terapia
farmacologica è aggiuntiva all’interno di un approccio globale.
Le relazioni interpersonali hanno un impatto significativo sul sistema nervoso ed endocrino: bambini
maltrattati precocemente mostrano alterazioni del sistema endocrino ipotalamo-ipofisario, diminuzione
delle dimensioni dell’ippocampo e dell’amigdala e un cattivo funzionamento del sistema serotoninergico,
importante nella regolazione di emozioni, impulsi e comportamenti.
Principi di base: i domini sintomatologici che costituiscono il target della terapia farmacologica nel DPB
sono tre: 1) sintomi cognitivi e percettivi; 2) instabilità emotiva; 3)sintomi comportamentali impulsivi.
Alcuni farmaci agiscono su un solo sintomo, mentre altri, come gli antidepressivi inibitori selettivi della
ricaptazione della serotonina (SSRI) agiscono sia sull’aggressività impulsiva, sia sulla depressione. La
migliore strategia è quella di introdurre un farmaco alla volta e valutare l’intera portata di effetti prima di
aggiungerne un altro. IL DECORSO LONGITUDINALE DEL DPB
Si conosce poco sulla prospettiva a lungo termine per gli individui con DPB e sul perché alcuni pazienti
compiono progressi e altri no, in quanto sono pochi gli studi ad aver monitorato il decorso del DPB. I primi
studi su piccola scala hanno trovato che i pazienti presentano difficoltà a livello del funzionamento sociale
fino a 7 anni dopo la diagnosi e continuano ad avere bisogno di cure psichiatriche. Gli studi prospettici su
campioni numerosi identificati attraverso le cartelle cliniche hanno mostrato che il decorso del DPB è molto
variabile: alcuni pazienti mostrano buone situazioni sociali e lavorative e altri no, e una percentuale che va
dal 3 al 10% si suicida. I due studi prospettici a lungo termine sul decorso del DPB, attualmente in corso,
mostrano risultati differenti: uno rileva una comune remissione dei sintomi borderline, ma con una più
lenta diminuzione dei sintomi affettivi rispetto all’impulsività; un altro ha fornito dati che supportano una
più veloce remissione: a 1 anno di follow-up, più della metà