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PARTE SECONDA

Note ai saggi – Valentina Peveri

Audrey Richards ha prodotto i testi ancora oggi modelli per questo campo di studi.

Nella sua esposizione adotta il metodo biografico partendo dalla storia di vita di un individuo che

osserva fin dalla nascita e dimostra come questa dipendenza dal cibo attraverso lo svezzamento e

il matrimonio si trasferisce dalla madre al gruppo famigliare sino alla società di cui l’individuo fa

parte.

Richards sostiene che è proprio attraverso l’addestramento alle maniere della tavola che il

bambino acquisisce il senso dello status.

Queste analisi sottolineano come l’autorità e lo status sociale si basino sul potere di usare o

controllare le risorse di cibo. Il cibo acquisisce un valore supplementare come simbolo di

complesse relazioni umane. È su una necessità biologica che l’essere umano costruisce sofisticate

strutture di simboli e credenze.

Lei è stata la madre di quegli studi che poi hanno caratterizzato gli African Food Studies.

Le investigazioni in profondità in un momento storico in cui l’enorme spettacolarizzazione sul cibo

è indice di un tentativo di approfondimento e comprensione.

La disciplina al suo debutto in Africa si spacca fra antropologia accademica come speculazione

teorica che resta nelle roccaforti del potere (maschio) e l’etnografia che batte orti e cucine, che

prolifera di dettagli che nasce femmina.

L’antropologia in contesti africani parte da un riesame della ricerca antropologica precedente su

alimenti e nutrizione e rivela che la dieta di un gruppo non può essere studiata in isolamento.

Cesare Poppi propone un ritorno alle origini. Nel Ghana nordoccidentale i sistemi di produzione e

consumo si trovano costantemente sull’orlo del collasso, è la fame che detta i ritmi e le forme delle

pratiche rituali, della religiosità, dei conflitti etnici. Il problema relativo alla proprietà della terra può

essere tradotto in termini alimentari. Sullo sfondo della tematica scambio/dono Poppi presenta uno

spaccato neorealista di come viene distribuita la selvaggina. La razionalità con cui si taglia e

assegna il pezzo è l’atto di porzionamento secondo regole di condotta e rispetto.

Se in periodi di abbondanza i conflitti si spengono, in tempi ordinari mangia a sufficienza solo chi

ha il potere. Il cibo è quindi portatore di socialità, è nutrimento e profitto.

Nelle società occidentali i gruppi valutano i cibi e le combinazioni in termini di categorie

scientifiche, qui prevale l’intenzione di un gruppo di sopravvivere sia dal punto di vista culturale che

biologico.

In Etiopia il cibo del nord ha colonizzato le terre e il palato di molti gruppi del sud, e un’accurata

selezione dei cibi mangiabili è servita come auto rappresentazione come esclusione in termini di

identità nazionale.

Le credenze che circondano il cibo hanno rafforzato i confini etnici, di genere e di classe.

Il testo di Jack Goody Cooking, cuisine and class. A study in comparative sociology del 1982 resta

uno dei riferimenti per gli antropologi che si dedichino all’analisi del cibo in Africa.

Anche se trattasi di un grande testo va detto comunque che questo è limitante. La sua premessa in

base al quale le grandi cucine del mondo sono quella cinese, indiana, islamica ed europea

originatesi dal consolidarsi di società stratificate ha portato l’autore a contrapporre una cucina alta

e una bassa. Tale visione si avvicina a stereotipi di lunga nata sul continente, soprattutto il

pregiudizio secondo cui l’Africa è un continente senza storia.

La complessità di un sistema che non può essere classificato né occidente e né oriente, sembra

una terza parte nelle gerarchie culturali. L’africa è il pezzo storto che non si incastra. Questo

modello dell’uguaglianza culinaria che Goody ha rinvenuto nel 1950 tra le popolazioni loDagaa e

gonja del Ghana lo ha portato a concludere che gli africani non hanno proprio una cucina definita.

Il cibo oltre che soddisfare un bisogno biologico ha sempre significati rituali. Sostenne che la

cucina africana era banale e insignificante.

Liza Debevec lasciandosi il referente alle spalle, sfida l’idea della povertà di scelta descrivendo

una gamma di stili culinari a cui gli individui fanno ricorso con rilassatezza mescolando gli

ingredienti della tradizione con alcuni occidentali. Tale flessibilità è un modo di essere nel mondo.

Il sistema culinario parte da uno schema di base già descritto da Audrey Richards si basa su un

pasto nazionale a base di una sorta di porridge e una salsa con cottura al vapore o bollito. La

disarmante semplicità di questo piatto viene comunque intaccata dalle influenze straniere, dai gusti

delle nuove generazioni e dagli abitanti.

I confini dettati dal modello di Goody si sono espansi lasciandoci in eredità molte Afriche. Questa

dissoluzione lascia liberi di scoprire una culinaria che non si basa sull’estrema biodiversità e

ricchezza delle materie prime ma che non può essere certo ridotta allo stereotipo di vecchio

ambiente improduttivo. Si è stabilito un dinamismo di cibi che non può essere sottovalutato.

Il padrone ha preso il suo kosso – Valentina Peveri – una ricetta etiope per la cottura in

gravidanza

Le contadine hadiya del sud dell’Etiopia sono protagoniste nel campo della cucina, arricchiscono

gli intingoli con spezie, radici e piante e fanno pozioni per avvelenare o guarire e anche abortire.

Queste donne, soprattutto in fasi precise della loro vita, impongono a se stesse misure di

contenimento nel consumo di cibo, questo per dimostrare signoria dei sensi.

La zona presa in esame non rappresenta un gruppo etnico dominante ma uno ai margini della

scena internazionale, rappresentativo dell’”Etiopia classica”.

Dopo essere stati invasi dagli eserciti dell’imperatore Menelik II tra il 1889 e il 1894, gli hadiya

originariamente pastori e allevatori, furono costretti a sedentarizzarsi. La loro società si basa

ancora oggi sull’agricoltura e soprattutto la coltivazione dell’enset. Una pianta chiave che al nord

però non ha molto valore. L’intero ciclo di lavorazione è opera esclusiva delle donne.

L’Etiopia è un caso ipertipico di cucina, simbolo di identità nazionale. Fu la regina Taitù, moglie di

Menelin, a creare un repertorio culinario nazionale, organizzò una festa su larga scala e il cibo

divenne teatro della politica. Da allora essere etiope voleva dire avere simboli comuni.

Fu il missionario Manoel de Almeida nel 1630 a notare la presenza di peculiarità culturali, i gesuiti

ad esempio si riunivano intorno al qocho un pane scuro e gommoso ricavato proprio dall’enset.

Alcuni cibi sono considerati arretrati, l’Etiopia soprattutto dopo il 2004 ha avuto una massificazione

per istruire la popolazione su come praticare una buona alimentazione e igiene.

Una delle attività proibite è l’uso del KOSSO.

Il Kosso uccide vermi, parassiti da cui l’uomo può essere colpito, soprattutto loro perché usano

mangiare il Kitfo che sarebbe carne cruda di manzo tritata e marinata con spezie.

La storia del Kosso ha inizio nel seicento quando i gesuiti utilizzarono questo prodotto come

bevanda per uccidere i vermi nello stomaco. Poi fu largamente usato come purga, venne poi

riscoperto nel 700 grazie al medico A. Bayern che rimasto colpito iniziò ad importare la pianta e

utilizzarla. In poco tempo continuarono le sperimentazioni, nell’800 si intensificarono i contatti con

l’Etiopia, si moltiplicarono i viaggi di medici e scienziati che volevano la pianta. Poi d’un tratto si

insinuarono le voci del declino ovvero ci si chiedeva se il kosso facesse espellere la testa oppure

spezzasse i vermi e quindi ci fosse rischio di ricaduta.

Il kosso nel 1864 fu introdotto nella British Pharmacopoeia. Si scoprirono poi nuove piante con

simili proprietà come la felce maschio che conteneva lo stesso acido del tenicida.

Questa pianta però oggi è ancora largamente usata in Etiopia e si suole dire “il padrone ha preso il

suo kosso” poiché dopo questa purga sono necessari giorni di riposo assoluto.

Nel sud dell’Etiopia le donne sono perennemente in movimento nel senso che quando vengono

date in matrimonio migrano verso l’età adulta, poi si spostano e abbandonano la casa paterna per

quella del marito. Affrontano un processo di perfezionamento della propria identità dilatato a livello

temporale.

La sposa gravita intorno alle ricchezze maschili ma ha modo di farle sue grazie ai figli maschi che

possono ereditare dal padre.

La fertilità è una cosa fondamentale per una donna, l’ostilità tra donne però è molto forte e spesso

per non mostrare che sono gravide si nascondono sotto ampi caftani.

Durante la gravidanza sperimentano stati di irritabilità che l’uomo deve sospettare, sorgono voglie

inaspettate e le donne si fanno audaci sviluppando gusti particolari. Agli estremi le pratiche di

mangiare letami di asini e buoi e la terra. Le donne sono in balia dei sensi.

I tre ingredienti prediletti sono latte formaggi e carni solitamente esclusiva maschile. Bisogna dire

che gli umani non sono i soli a mangiare lo sporco, ma mentre gli animali lo fanno per sopperire

alle carenze magari di qualche minerale o di antitossine negli umani è un’attività perversa messa

nei disturbi alimentari e del comportamento.

Anche l’argilla viene mangiata per creare uno strato difensivo allo stomaco e rinforzare il feto, la

terra risponde ad un desiderio di cibo autentico. Si dice infatti che la donna incinta ha quattro

occhi, che simboleggiano un’amplificazione del desiderio.

Nei due mesi precedenti al parto però questa sovrabbondanza si ferma e si torna ad una dieta

ferrea, come sono solite fare ecco i loro corpi esili.

Questa dieta prevede prevalentemente verdure e serve per depurarsi e prepararsi al parto. I cibi

banditi sono quelli grassi, bianchi e molli.

Negussie e Bevan infatti sostengono che le donne arrivano al parto in condizioni nutrizionali

estreme. Una delle pratiche utilizzate è proprio quella del kosso, la donna inizia a berlo una volta

ogni due settimane fino al parto a volte anche durante il travaglio. Prepara lo stomaco con tre

giorni di digiuno.

La magrezza è sinonimo di benessere e kosso è un rituale di preparazione al parto.

L’abbondanza è segno di cedimento, l’apporto spermatico riscalda il bimbo meglio del cibo, i

rapporti sessuali sono positivi nutrono feto e donna.

Il paro può essere fatto in ospedale, pianificato, per un parto breve e sotto controllo dove il dolore è

consuetudine che serve a misurare pulizia, spirito di sacrificio, resistenza.

Il parto in ca

Dettagli
Publisher
A.A. 2014-2015
18 pagine
6 download
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-DEA/01 Discipline demoetnoantropologiche

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher ladycroft17 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Antropologia culturale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi L'Orientale di Napoli o del prof Trupiano Valeria.