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ETICA DELL’IMMIGRAZIONE
Confini chiusi…
Michael Walzer è stato il primo teorico contemporaneo ad affrontare il tema dell’immigrazione. I
suoi interventi, con i quali ha teorizzato il diritto di un popolo di limitare l’immigrazione e imporre
una forma di selezione ai candidati all’ingresso per proteggere la cultura politico-giuridica e i
principi costituzionali di un certo paese, sono diventati un punto di riferimento sia per il dibattito in
generale e sia per chi sostiene che la sovrapposizione fra il demos e l’ethnos introduca una linea di
confine tra cittadini e stranieri che può essere negoziata solo dai cittadini a loro discrezione.
Nell’opera Sfere di giustizia Walzer suggerisce tre diversi modelli interpretativi del fenomeno
migratorio: il primo è il paese come quartiere, dove chiunque può entrare ma godrà solo di diritti
limitati; il secondo è il paese come famiglia, dove possono entrare in pochi e i diritti politici e la
cittadinanza saranno negati a chi non è autoctono; il terzo è il paese come club, al quale si accede
con flussi programmati e del quale con il tempo si diviene membri.
Il presupposto alla base di questi modelli è che l’idea stessa di giustizia distributiva implica un
mondo delimitato, cioè l’esistenza di un gruppo di persone che spartiscono, scambiano e
condividono beni sociali prima di tutto fra di loro. A ogni comunità di appartenenza dovrebbe
essere riconosciuto il diritto di porre dei limiti all’entrata per difendere la libertà, il benessere, la
politica e la cultura di persone che sono legate l’una all’altra e alla loro vita comune. Le comunità
politiche devono essere libere di definire le condizioni del primo ingresso, dal momento che
l’ammissione e l’esclusione rappresentano il presupposto dell’autodefinizione e
dell’autocostituzione del sistema politico, poiché altrimenti non avrebbe senso il problema di come
distribuire il bene sociale principale cioè l’appartenenza. La distribuzione dell’appartenenza non è
completamente soggetta ai vincoli della giustizia, poiché senza il privilegio sovrano del popolo
democratico di definire le regole che determinano l’attraversamento dei confini non sarebbe
possibile parlare di una comunità in senso proprio. E infatti le politiche di accesso ai privilegi
dell’appartenenza non sono completamente sottoposte a vincoli di giustizia, per cui i migranti non
possono fare appello a criteri giuridici riconosciuti per giustificare le loro richieste di ammissione.
Dopo Walzer, l’idea che determinate forme di restrizione alla libertà di movimento degli umani
siano compatibili con la democrazia è divenuta più complessa. Le pratiche di chiusura democratica
sono giustificabili perché le culture etno-nazionali che hanno generato le comunità culturali unitarie
devono essere protette in ragione della priorità morale che spetta ai connazionali.
Immigrazione e comunità culturali
Walzer è il padre della tesi che giustifica il diritto dello Stato di imporre una limitazione all’ingresso
dei migranti in nome della concezione che una comunità politica ha di se stessa, cioè della
particolarità della propria cultura politica, delle proprie tradizioni, narrazioni e appropriazioni
storiche.
Walzer equipara la comunità politica a un club, del quale si diviene membri per cooptazione,
anziché a un vicinato che non riconosce ai residenti originari il diritto di selezionare i nuovi arrivi.
Se una comunità culturale unitaria vuole mantenere stabile nel tempo la propria particolarità, e cioè
il suo valore, il sovrano democratico può imporre un regime migratorio volto a ridurre al minimo
l’ingresso degli immigrati sul proprio territorio.
L’autodeterminazione della comunità è un valore inderogabile e il diritto di limitare i flussi mediante
adeguate politiche di ammissione è radicato nella concezione che questa ha di se stessa e della
sua identità. L’omogeneità etnica o culturale prevale su ogni altra considerazione di tipo etnico-
politico.
Per esempio, Meilaender,che considera il punto di vista di Walzer sostanzialmente corretto,
sostiene che gli Stati hanno il diritto entro certi limiti, di gestire le politiche di immigrazione come
meglio credono, in base alle loro storie, culture, interessi e desideri particolari. L’insediamento di
gruppi con riferimenti culturali diversi da quelli della popolazione nativa rischia di trasformare le
diversità religiose e culturali in minacce nei confronti dei valori condivisi e dell’identità nazionale.
Queste posizioni si ispirano alle tesi comunitariste, che assegnano a ogni singola comunità politica
il compito di preservare la propria cultura nazionale. Ogni qualvolta vi siano degli estranei che
chiedono di attraversare i confini territoriali che delimitano la comunità culturale, un popolo ha tutto
il diritto di respingere gli immigrati che potrebbero minacciare forme di legame sociale e di
appartenenza a un destino comune che si sono consolidate nel tempo e che costituiscono le
matrici della sua identità collettiva. Posizioni come questa sembrano alimentate dal timore che
l’immigrazione rimetta in discussione il senso di appartenenza etnico-culturale che si fonda sulla
omogeneità della discendenza o della forma di vita che dipende da criteri come la nascita o la
lingua e che si alimenta dal senso condiviso di una storia comune già a livello pre politico come
l’adesione alle festività, i simboli, i miti ecc.
David Miller propone una versione più soft, dove gli Stati hanno il pieno diritto di decidere in merito
a questioni di appartenenza. Non dispongono però dei privilegi di un club, perché i vantaggi
procurati dalla cittadinanza sono sostanziali e quelli che contano davvero sono riservati a un
numero di Stati limitato. Gli Stati devono trovare un punto di equilibrio tra l’interesse prioritario della
nazione a preservare la cultura nazionale e gli interessi dei candidati all’ingresso. Questo interesse
prioritario va perseguito in modo da evitare che i criteri di ammissione o di respingimento possano
essere condizionati dalla tendenza a proiettare sui potenziali immigrati caratteristiche moralmente
e socialmente insignificanti o offensive. E’ possibile che l’interesse alla protezione quasi ecologica
della cultura possa avere un peso così rilevante da ignorare l’interesse dei potenziali immigrati,
purchè non siano rifugiati o richiedenti asilo, ma queste politiche non possono essere introdotte
seguendo criteri moralmente irrilevanti oppure offensivi.
Miller non offre nessuna indicazione riguardo ai criteri da adottare per decidere quali interessi
pesino di più e quali meno. Rimane senza risposta proprio la domanda essenziale: perché
l’interesse di alcune persone alla conservazione della propria cultura pubblica deve avere lo stesso
peso morale dell’interesse di altre persone a poter usufruire della libertà di movimento che le
metterebbe in condizioni di vivere meglio? A prima vista si potrebbe pensare che l’interesse
individuale alla protezione della cultura pubblica non sia più rilevante dell’interesse individuale di
vivere in migliori condizioni. Per Miller non c’è una vera e propria simmetria fra le decisioni che
riguardano gli immigrati e le decisioni che riguardano il trattamento degli autoctoni. Quando si
tratta di decidere in materia di immigrazione, gli Stati hanno tutto il diritto di far prevalere l’interesse
generale della comunità sulle richieste particolari dei potenziali immigrati.
Da una parte sembra fuorviante l’idea che vi possa essere qualcosa come un punto di equilibrio tra
l’interesse dello Stato nazione e l’interesse degli immigranti, perché è inevitabile che una
procedura di tipo aggregativo faccia pendere la bilancia a favore degli interessi generali rispetto
agli interessi particolari. E sembra un po’ fatuo preoccuparsi di evitare che gli immigrati vengano
esclusi a causa delle loro caratteristiche fenotipiche e lasciare che i loro interessi fondamentali alla
libertà, alle opportunità e alla sicurezza possano essere sovrastati da una ragion di Stato che
spesso dipende da calcoli elettorali o da opportunismo politico. Considerare rispettose dei diritti
umani le scelte politiche in materia di immigrazione che rispondano al principio del bilanciamento
degli interessi tra gli associati e i richiedenti solo perché ci si astiene dal prendere in
considerazione i tratti somatici o l’appartenenza di genere significa coltivare una concezione
limitativa di ciò che significa riconoscere valore morale agli interessi di chi chiede di entrare. Se si
sceglie di appellarsi alla nazionalità o alla cultura per chiudere le porte è necessario prestare
attenzione alla necessità di confrontare il simile con il simile. Il nazionalismo comunitario di Miller
ha il merito di esplicitare il carattere aggregativo dei criteri culturalistici, per cui ciò che è buono per
noi in quanto membri di una comunità priva di significative differenziazioni interne deve prevalere
su ciò che è giusto per tutti. Ma un nazionalismo davvero liberale dovrebbe occuparsi
esclusivamente dell’interesse dei singoli, senza dare per scontato che l’interesse di chi rientra al di
qua del limite territoriale e confinario del bene comune abbia maggior valore dell’interesse di chi ne
è al di là non per propria scelta.
Per valutare in quale misura l’immigrazione possa incidere sulla cultura di una società è
necessario considerare parecchi fattori: il numero degli immigrati ai quali viene concessa una
prospettiva di insediamento durevole, il paese di provenienza, la densità della popolazione nativa o
autoctona, per citarne alcuni. E’ difficile immaginare che la cultura politica di una società possa
essere il teatro della coesione pacifica tra individui che si ispirano a concezioni del mondo
discordanti e conflittuali e, contemporaneamente, applicare politiche di sbarramento all’ingresso.
Le culture nazionali mutano nel tempo e vengono quotidianamente ricreate o reinventate. Le
culture sono pratiche umane di significazione e rappresentazione, organizzazione e attribuzione,
divise al proprio interno da conflitti che sottopongono a continue negoziazioni i confini instabili e
mutevoli che distinguono e dividono noi e gli altri. Lontani dal danneggiare la cultura politica di un
popolo, i migranti possono rivitalizzarla e arricchirla, dal momento che è proprio la capacità di
rigenerarsi e di auto trasformarsi che aiuta una cultura a evitare fenomeni di ristagno e decadenza.
L’esclusione degli immigrati basata su ragioni