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TESINA
La fine del ventennio fascista
Il 25 luglio 1943 il re Vittorio Emanuele III dimise Mussolini, così che il maresciallo Badoglio salisse al governo (Vittorio
Emanuele III stava attentamente preparando la caduta di Mussolini già da un anno, pur volendo arrivare ad una pace
dignitosa tenendo a bada l'alleato tedesco. La resa avrebbe, infatti, portato ad un ribaltamento dell'unità nazionale, non
sapendo come il popolo e, soprattutto, i tedeschi avrebbero considerato una possibile sostituzione del Duce). Proprio per
paura di una rivolta contro la monarchia, accentuata dal sottile odio fra corona e tedeschi stessi, il sovrano temporeggiò
a lungo sull'estromissione di Mussolini. La decisione finale di uscire dalla guerra fu dettata da diversi fattori: da una
parte, l’inizio dei bombardamenti inglesi, dall’altra, il Re temeva la reazione della Germania ad una possibile uscita dalla
guerra. Inoltre, una terza corrente di spinta era sostenuta dai movimenti insurrezionali che minavano la monarchia, ma
che avrebbero anche criticato una forte indecisione da parte del re, nella speranza di far cadere il fascismo senza dover
risollevare la questione dell'istituto monarchico nella penisola.
Molti furono i personaggi che intervennero sulla questione, consigliando al sovrano di agire. Appoggiato dall’esercito,
dagli industriali e dal Vaticano, e fortemente consigliato da Acquarone, Vittorio Emanuele III pensava, sotto un’ottica
conservatrice, di sradicare la dittatura tramite un graduale abbattimento dei poteri fascisti senza rompere con il regime,
salvando così la monarchia. Le alternative di Vittorio Emanuele III per trattare con gli alleati presentavano molti punti
deboli, per quanto riguardava o le volontà del sovrano o la politica estera. Il 2 giugno Bonomi aveva proposto a Badoglio
(allora quasi eletto Presidente del Consiglio) un piano alternativo a quello del re, che voleva formare due governi: uno
militare per arrestare Mussolini e reagire all'eventuale reazione fascista, uno politico per denunciare l'alleanza con la
Germania e porre fine alla guerra). L’alternativa presentata da Bonomi, invece, prevedeva un governo politico militare in
cui Bonomi stesso (con gli antifascisti) fosse vice presidente, con Badoglio presidente. Questa proposta fu respinta da
Vittorio Emanuele III, che ribadì la necessità di un governo di funzionari guidato dal solo maresciallo Badoglio.
Il Re rifiutò la proposta suggerita da Bonomi per due motivi:
Mettendo al governo una forza antifascista, i nazisti avrebbero scoperto che la corona voleva porre fine
all'alleanza con la Germania
Inoltre, il Re non si fidava dei personaggi proposti (in quanto avevano fallito nel primo dopoguerra, e in quanto
l'antifascismo a quei tempi in Italia era del tutto inconsistente dal punto di vista istituzionale)
Inoltre, nella coalizione proposta vi erano forze antimonarchiche, che non potevano di certo essere una garanzia e una
sicurezza per Vittorio Emanuele III.
Il governo Badoglio
Per questa scelta, il Re ottenne molto consenso popolare: “Mentre si distruggevano gli emblemi del fascismo,
s’innalzavano i simboli della casa sabauda”; ciò dimostrava quanto la monarchia fosse sopravvissuta al ventennio
fascista, interpretando la volontà di tutti, pur assecondando il fatto che il popolo credeva che da lì a breve la guerra
sarebbe finita. “Il vero volto dell'Italia si vide in quei giorni e fu un volto monarchico”: ovvero, dopo il 25 luglio, il popolo e
la corona sembrava si fossero finalmente riuniti. Il governo si aspettava delle rivendicazioni, sebbene cercasse di tenere
a bada l'ordine pubblico, ma la milizia fascista non intervenne. Nonostante questo, i partiti di sinistra inaspettatamente
reagirono con agitazioni nelle piazze, giacché volevano ritagliarsi un proprio spazio politico. La reazione fu una forte
repressione sui molti manifestanti, che fece sembrare il governo Badoglio un governo di stampo militare e dittatoriale, da
quando si iniziarono ad abolire le istituzioni fasciste. 2
Ma da cosa derivava il problema dell'ordine interno? Dal far credere ai tedeschi di poter continuare la guerra nonostante i
cambiamenti politici (sebbene il bluff non funzionò a lungo) e presentarsi, d'altra parte, agli angloamericani come un
alleato valido ed indispensabile (questa prerogativa ebbe sorti migliori, nonostante il comportamento opportunistico di
Eden in disaccordo con Churchill e nonostante l'opinione pubblica angloamericana fosse stata da subito avversa a
considerare l'Italia come una carta su cui puntare, bensì un paese da far collassare tramite bombardamenti). Nel
governo dei 45 giorni s’iniziò a delineare la sottile rottura fra Badoglio (attivo politicamente e che godeva di un certo
consenso antifascista) e la linea dettata dal monarca. Così, Badoglio iniziò ad agire in modo sommessamente
antifascista, favorendo la libertà di stampa, incoraggiando un dibattito politico interno e demolendo le istituzioni fasciste.
I provvedimenti adottati da Badoglio per salvaguardare la facciata agli occhi degli inglesi (e contemporaneamente dei
tedeschi) furono un'ottima scelta strategica dal punto di vista conservatore. In Calabria, ad esempio, vi fu una forte
connessione fra ex fascisti e autorità periferiche, che aspettavano le truppe tedesche per avere una rivincita contro gli
antifascisti. Anche a Padova, le forze fasciste fecero sentire la propria voce con violenze e rivolte. Le autorità
monarchiche non riuscirono a reprimere tali agitazioni, nonostante il processo di defascistizzazione (seppur apparente)
fosse già stato avviato. Il Re rimase scontento perché vedeva con insofferenza il fatto che il Capo del governo Badoglio
non stesse rispettando le proprie linee guida di abbattimento graduale delle istituzioni e del regime fascista, temendo,
inoltre, che un eccessivo appoggio all'antifascismo potesse portare a una successiva rivolta anche contro il potere
monarchico stesso. Uno smantellamento repentino del fascismo avrebbe lasciato la monarchia scoperta e non capace di
assecondare la successione al regime in un quadro di equilibrio politico.
Ad ogni modo, Vittorio Emanuele III prevedeva, e sperava, che il governo Badoglio avesse una durata temporale limitata
e confidava nel fatto che le forze antifasciste moderate avrebbero accettato di buon grado la presenza nel governo
permanente di esponenti ex fascisti onesti, senza considerare, però, gli antifascisti (come Bonomi e De Gasperi
portavoce delle forze e delle linee antifasciste – che preferivano rimanere spettatori dello scenario politico e affidare alla
monarchia il difficile compito di uscire dalla guerra). Queste statiche tendenze preannunciavano l’atteggiamento non
collaborativo con la monarchia e con Badoglio delle forze antifasciste. La mancata partecipazione di tali correnti alla vita
politica ufficiale e alle linee del governo avrebbe causato gli errori di valutazione che successivamente si sarebbero
delineati.
La nondecisione delle forze antifasciste rispecchiava le divisioni già esistenti fra i partiti (fra ala estremista e moderata,
ma anche fra i liberali che risentivano della frattura fra monarchici e repubblicani). Il problema maggiore risiedeva
nell'accettazione della monarchia, cui si rispose con la creazione di un nuovo Partito democratico liberale, che da subito
si schierò apertamente a favore della corona, la quale chiaramente si sentì "obbligata" a parteggiare per questo.
Programmi politici a sfondo monarchico caratterizzavano, nel frattempo, l’attività di movimenti e partiti in tutta la penisola.
Fanelli assunse un ruolo fondamentale, esponendo al Re la gravità della situazione politica, ed offrendo come risposta il
proprio organo di stampa, invito che però fu declinato dallo stesso Vittorio Emanuele III.
Con Selvaggi, Fanelli creò un partito a carattere sociale (per cui il lavoro fosse l'elemento distintivo per l'uomo che si
adatta alla società), che sarebbe diventato poi il Partito democratico. La monarchia, però, continuava a detenere un ruolo
di primaria importanza per la sua stretta connessione con il concetto di famiglia e di religione, principi che il Partito
democratico non sembrava inglobare. Fanelli, inoltre, sottolineava l'importanza dei sindacati come forma di tutela per
l'individuo lavoratore. Non si discostava molto dalle idee di Padoan nella creazione di un partito italiano del lavoro,
d’ispirazione cattolica e fautore dell'indipendenza nazionale, che prevedesse una riforma strutturale dello stato italiano.
Gli aspetti corporativi e sindacali seppur anticomunisti di Padoan e Fanelli, letti sotto ottiche vagamente differenti,
rispecchiavano i caratteri di solidarismo dovuti al ventennio fascista appena concluso. 3
L’armistizio
Le iniziative furono bloccate dalle vicende di settembre, quando il governo Badoglio si vide messo alle strette per le
difficoltà incontrate in materia di diplomazia e di politica estera. Infatti, se da un lato l'Italia era silenziosamente invasa
dalle truppe tedesche, dall'altro doveva fronteggiare l'ostile atteggiamento angloamericano della "resa incondizionata".
L'armistizio si avviava ad essere il frutto di disattente valutazioni degli alleati ed errori nel giudizio della situazione
italiana, in quanto Badoglio aveva temporeggiato troppo lungamente con gli alleati per non far scoprire ai tedeschi le
proprie mosse. Il popolo italiano, dunque, riteneva che i nazisti si sarebbero ritirati verso il Nord (dove per le truppe
italiane sarebbe stato più difficile arginare le forze tedesche che al Sud), lasciando Roma al controllo regio. La scarsa
fiducia delle alte cariche del governo nelle truppe italiane, però, causò una mancata organizzazione difensiva, tanto che i
vertici consideravano Roma praticamente indifendibile. Questo spiega probabilmente la mancata difesa di Roma, che
sarebbe potuta diventare una seconda Stalingrado.
Con l'annuncio dell'armistizio, la struttura politica italiana sembrò andare in frantumi, specialmente per l'assenza di
direttive da parte dei vertici del governo. Se la figura del Re era stata un punto di riferimento per i più dal 25 luglio, iniziò
a venire meno questa considerazione da parte del popolo. La partenza della famiglia reale da Roma, per mettersi in
salvo, lasciò un vuoto non solo fisico ma anche istituzionale nel governo. Il principe Umberto fu l'unico a pensare di
tornare a Roma per salvare la famiglia reale dalla considerazione di essere dei "fantocci". Umberto si rese effettivamente
conto del pericolo in cui si stava imbattendo la famiglia Savoia tra l'8 e il 9 settembre, cosicché il 10 la Corte, Badoglio,
tre ministri e alcuni generali si misero in fuga andando a Brindisi, dove sarebbe nato il Regno del Sud nella continuità del
potere sabaudo.
Al prefetto Innocenti fu a