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Un potente strumento d’integrazione fra i due sistemi fu senz’altro costituito dalla diffusione delle
prescrizioni e dei divieti della religione cristiana. Grazie all’evangelizzazione si diffusero gli
alimenti tipici del mondo mediterraneo, in quanto assunti ad uso sacrale dalla nuova religione, e
grazie ai missionari si operarono bonifiche e dissodamenti.
In una società in cui i potenti si cibavano prevalentemente di carne, non solo se ne astenevano i
monaci ma a tutti i fedeli erano imposte dalla Chiesa, a motivo penitenziale, periodiche astensioni
dai “grassi” che ammontavano a circa centocinquanta giorni di “magro”.
Le prescrizioni religiose non riuscirono tuttavia ad eliminare le differenze alimentari di tipo
sociale, ora non più connesse alle culture d’origine, ma piuttosto alle rispettive disponibilità
economiche. In questo modo il vitto delle classi subalterne era prevalentemente vegetariano e
basato sull’assunzione di cereali minori e di legumi. Questo si distinse non solo da quello dei
potenti, ma pure all’interno del medesimo tipo di alimento si crearono differenze qualitative e
quantitative. Significativo è il caso dei cereali panificabili: prodotto di pregio era il frumento, anche
se la sua coltivazione appariva scarsamente redditizia, a differenza dei grani minori, più produttivi
perché più resistenti alle avversità meteorologiche. Il pane di frumento divenne così appannaggio
dei potenti, mentre ai pauperes era destinato il pane nero, dai cui cereali si ottenevano anche le
tipiche polente. Anche il consumo di carne appare socialmente differenziato, in quanto la carne
fresca è destinata a pochi privilegiati, mentre la maggioranza si preoccupava di conservarla sotto
sale.
Dal secolo v1 al x si affermò un’alimentazione articolata e diversificata a tutti i livelli sociali grazie
al rapporto favorevole fra popolazione e risorse. Il progressivo incremento demografico
capovolse quel rapporto: le tradizionali risorse alimentari divennero così insufficienti e l’unica
soluzione praticabile fu quella di estendere i coltivi, dissodando foreste e brughiere. La dieta delle
classi subalterne pagò comunque lo scotto dello sviluppo, riducendo drasticamente la sua varietà,
ora del tutto condizionata dalla produzione agricola: il pane assunse ora un ruolo esclusivo
nell’alimentazione popolare, circoscrivendo gli altri alimenti alla funzione integrativa di “com-
panatico”. [72]
Nella diseguale distribuzione delle risorse, furono naturalmente privilegiati i ceti dirigenti tanto
delle campagne quanto delle città. Qui lo sviluppo economico connesso con il commercio aveva
infatti favorito la crescita di una società che godeva di un benessere maggiore. Pure il controllo
politico esercitato dai comuni sui cittadini delle campagne drenava in modo sistematico le risorse
rurali indirizzandole al mercato urbano. Le cucine cittadine potevano così sbizzarrirsi alla ricerca di
una maggiore qualità alimentare, in linea con le nuove buone maniere da tavola. La “follia delle
spezie” costituisce un mito da sfatare, secondo il quale esse venivano usate per coprire i cattivi
gusti legati alla decomposizione della carne alimentare. Tuttavia chi poteva permettersi le
costosissime spezie era anche colui che la carne poteva acquistarla freschissima, mentre le tecniche
di salatura od affumicatura appartenevano alle classi meno abbienti proprio per contrastare il
processo di deterioramento naturale delle scorte.
Il ciclo economico toccò l’apice nel Duecento, dopo di cui subentrò un periodo di crisi. La caduta
della rendita fondiaria arrestò l’espansione dei coltivi. La peste del 1348 ridusse poi drasticamente
l’ammontare della popolazione europea, portando alla caduta dell’offerta di lavoro. Il rapporto fra
popolazione e risorse tornò ad essere per forza favorevole. Persino il vitto migliorò grazie ad una
maggiore disponibilità della carne: l’impulso al commercio del bestiame rese accessibile la carne
anche ai ceti subalterni.
Nel corso del basso medioevo, sui differenti regimi alimentari, fu elaborata da parte della cultura
del potere un’articolata ideologia, intesa a definire ed a distinguere gli stili di vita dei diversi ceti
anche per garantire la conservazione di equilibri sociopolitici. La medicina ufficiale sosteneva
infatti che pregiudica la propria salute chi non si ciba secondo il proprio rango. Si giunse persino ad
una classificazione dell’ordine naturale come scala crescente degli alimenti, parallela alla posizione
sociale di coloro che se ne cibavano: bulbi e radici erano destinati ai contadini, erbe e frutti ai ceti
medi, volatili ai ceti superiori. Il fagiano era infatti il cibo per eccellenza dei nobili. In questa
prospettiva contava dunque molto più la forma che la sostanza, attestata dai sfarzosi banchetti
principeschi.
Solo l’impetuosa crescita demografica dei secoli seguenti provocherà un netto peggioramento
alimentare, condannando le fasce deboli ad un tragico monofagismo che perdurerà sino
all’Ottocento.
Cristianesimo e chiese
1. Il cristianesimo come ideologia unificante e le chiese plurali dell’alto medioevo
Nella fase di massima espansione dell’Impero romano si incontrarono culture ed esigenze
spirituali diverse. Le elaborazioni di ricerca religiosa si svolgevano soprattutto nella città e
particolarmente all’interno delle aristocrazie colte.
In India, fra i secoli v111 e 111 a.C., si sviluppò un monismo idealistico convinto che
nell’individuo fosse presente l’essenza del divino: in questa ricerca era impegnato il monachesimo
buddhista. In parziale parallelo, nei secoli x-v1 a.C., condusse una radicale riforma religiosa in Iran
un sacerdote di nome Zarathustra, polemico contro il politeismo e le complessità dei culti pratica
dalla sua stessa casta. Il sacerdote riconosceva l’esistenza di due spiriti suprema in conflitto fra loro
nell’universo del Creatore sommo (Ahura Mazda, da cui la definizione di mazdeismo per il suo
culto). Anche il mondo ebraico non si limitava al culto monoteistico di Yahweh, ma stava pure
sviluppando una dura opposizione contro i sacrifici rituali.
La ricerca della salvezza, oggetto dell’escatologia, divenne un tratto dominante delle religioni
monoteistiche, soprattutto in ambito giudaico con la credenza nell’immortalità dell’anima e
dell’aldilà. Due erano le attese: quella della fine del mondo e quella di un regno di pace guidato da
un Messia.
L’Occidente greco-romano viveva esperienze che all’interno del tradizionale pantheon politeista
valorizzavano culti che potessero essere sentiti e praticati anche dalle plebi. Si attingeva così a ritmi
agrari della semina e del raccolto (il culto della Grande Madre Cibele). Non mancavano pratiche di
espiazione e dottrine che miravano a prospettive di salvezza ultraterrene. Tutto ciò in dimensioni
comunitarie che da un lato rompevano l’egemonia sociale dell’aristocrazia senatoria. Il risultato
[73]
della convergenza fu un’accettazione condivisa delle gerarchie sociali esistenti e di un parallelo
sviluppo di un atteggiamento filantropico dell’aristocrazia.
Nel secolo 111 d.C. riscontrò particolare fortuna il culto di Mitra, che identificava nella “luce”
l’elemento di mediazione fra cielo e terra e che riprendeva, in parte dal mazdeismo, la devozione
verso il dio-Sole. Alcuni imperatori romani fecero proprio il culto di Mitra, la cui origine militare
doveva essere solo depurata dalle componenti più violente e rozze. La strada per un monoteismo
irreversibile era dunque spianata. Le comunità cristiane interpretarono l’adattamento alle loro realtà
sociali di due monoteismi: quello mitralico e quello ebraico. La sintesi cristiana fu poi
gerarchizzata con la creazione di mediatori fra la divinità e la massa dei fedeli: i vescovi, i
presbiteri, i diaconi. L’insediamento urbano dei vertici vescovili delle comunità cristiane accentuò
il peso delle città, portando a forme di collaborazione fra Impero e vescovi.
La convergenza, che ebbe il suo noto coronamento con la conversione di Costantino, pose
inevitabilmente il problema dell’ortodossia del sistema. Con il concilio ecumenico di Nicea del
325 si stabilì la consustanzialità del Cristo e del Padre, dichiarando eretica la teoria di Ario di
Alessandria, che distingueva e subordinava il Figlio rispetto alla superiore entità di Dio. Si andò
affermando come ortodossa l’idea delle tre ipostasi (rappresentazioni concrete di entità astratte)
Padre, Figlio e Spirito Santo. Presso le popolazioni barbariche sopravviveva però l’arianesimo,
poiché di più semplice comprensione.
L’universalismo imperiale aveva trovato un’eredità ideologica interpretata dalle aristocrazie, che
alla professione della fede univano carriere vescovili ed al permanente valore del latifondo univano
la cristallizzazione delle gerarchie sociali.
Sorsero però contrasti teologici, ma attorno alla fine del secolo 1v il dogma trinitario cessò di
essere messo in discussione. Si scatenò successivamente il dibattito cristologico, riguardante il
concetto di Incarnazione e sul rapporto fra natura umana e divina del Cristo.
Il teologo Nestorio provò a distinguere fra persona divina di Cristo e persona umana di Gesù: il
nestorianesimo fu condannato dal concilio ecumenico di Efeso (431). Seguirono le interpretazioni
monofisite, secondo le quali la divinità e l’umanità di Cristo si fondono in una sola natura. In
questo caso la condanna avvenne nel 451. A tal proposito prevalse l’orientamento dei vescovi di
Roma, contrapposti a tutti gli altri, che si definisce diofisita e che prevedeva due nature ma una
sola persona.
Il periodo seguente fu incentrato sulla ricerca di un pensiero teologico unitario. Giustiniano fece
condannare i testi diofisiti ritenuti estremi. Seguito poco dopo dalla sede romana, il risultato fu uno
scisma tricapitolino delle vaste province ecclesiastiche di Milano e di Aquileia, che avevano
accettato un diofisismo senza compromessi. Il patriarca di Costantinopoli, Sergio, tentò un
compromesso che indusse l’imperatore Eraclio a rendere interpretazione ufficiale il monotelismo,
che prevedeva due nature ma arricchiva l’idea dell’unicità della persona del figlio di Dio con quella
della sua unica volontà d’azione. Vi si oppose la Chiesa di Roma, che vedeva riproposta una
variante riadattata del monofisismo. Alla fine anche il monotelismo venne condannato (680-681),
in un concilio in cui si ribadirono che le volontà dovevano essere due.
Non più cristologica fu la controversia legata allo Spirito Santo. Secondo una prima versione del
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