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La storia è “profetessa di verità” (cfr. Posidonio di Apamea, 11 secolo a.C.) perché
l’annuncia di fronte a chi non è in grado di vedere, ovvero “sacerdotessa” perché se ne fa
in un certo dispensatrice, in un servizio che pare svolgersi per il bene del genere umano.
Lo sforzo di raggiungere l’identità stessa dei fatti, ma comportò anche la capacità di
restituire quegli stessi fatti, imprese di guerre o gesta eroiche, viaggi od azioni politiche,
in una forma dinamica e viva. Lo storico doveva essere capace di dire il “vero”, compor-
tandosi come un giudice onesto di fronte ad una disputa, libero e senza timore per sé: co-
me un pittore di dipingere le scene di battaglia, gli scontri, le grandi vicende, per creare
immagini efficaci dirette al proprio pubblico. Un qualunque scritto da un discorso storico,
vale a dire proprio il conseguimento di una “verità”, non è in alcun modo pensabile senza
l’apporto della tecnica che consente quella “pittura”, senza gli strumenti od i colori che
saranno usati per ritrarre gli eventi e metterli sotto gli occhi degli osservatori.
L’arte del dire offriva anche gli strumenti “oratori” per una dimostrazione, per or-
dinare i dati e per renderli plausibili. Il fine dello storico era quello di persuadere sulla
bontà della propria indagine, senza tradire mai la “realtà” rappresentata.
1.4. Storiografia degli antichi e dei moderni
Il divario fra passato e presente non tocca i fondamenti della disciplina. L’idea che
la storia in senso “moderno” nasca fra Sette-Ottocento, fra tardo Illuminismo ed epoca
romantica, sull’eredità della ricerca antiquaria locale d’epoca precedente è fuorviante per-
ché presuppone una radicale divergenza di prospettive, di obiettivi, di metodi fra antichi-
tà ed evo moderno, che non trova riscontro in un’analisi più attenta. Gli storici possiedo-
no oggi strumenti e tecnologie per osservare ciò che non era possibile né in un passato
remoto, né in uno più recente: niente ci autorizza a pensar che lo storico-giudice d’età so-
fistica, lo storico-investigatore che insegue tracce di una molteplicità di eventi, abbia svol-
to un’altra attività rispetto a quella odierna.
Né l’uso parziale ed indiretto dei documenti, né l’inserzione di discorsi “ricostrui-
ti”, né tanto meno il rapporto con l’arte del dire, con la tecnica oratoria, allontanano da
noi la storiografia degli antichi tanto da non potervi riconoscere le radici del nostro stesso
modo di pensare e di scrivere il passato.
2. Altri testi
Lo storico non scarta nulla di ciò che in qualche modo parla del tempo che egli de-
sidera osservare, e certo non si ferma ai documenti ufficiali, ben sapendo, come gli anti-
chi, che essi non sono così neutri. La distanza fra poesia e storiografia è fissata da Aristo-
[23]
Poetica,
tele senza scampo nella svalutando la seconda rispetto alla prima perché orientata
alla contingenza dei fatti anziché all’universalità del possibile.
E’ lo storico a definire e trovare le proprie fonti: i documenti, se non riduciamo le
definizioni a pietre, cocci, iscritti o meno, a monete e frustoli di papiro, sono tali per chi
attribuisca loro un valore speciale rispetto ad un argomento.
C’è troppo spazio per l’arbitrio personale, per la congettura ardita, per la volatilità
delle parole in un lavoro sui testi che non si lasciano ridurre ovviamente al ruolo di “fon-
ti” a nostro consumo, ed all’opposto si avverte la sensazione goffa di una sana concretez-
za maneggiando pietre, muri, parole scritte in modo apparentemente indelebile, assai elo-
quenti su istituzioni, norme, procedure, cariche pubbliche, ma anche trattati, tributi, con-
tratti e tutto ciò che riguarda aspetti della vita pubblica e privata di una città, di uno stato.
Fra il rigore di una ricerca “scientifica” che stabilisce i suoi fatti con puntigliosa
meticolosità e, d’altra parte, la scrittura di un racconto che ha lo stesso argomento, le stes-
se “fonti”, ma che rimane libero di costruire sopra di essi una realtà “virtuale”, proiettan-
do personaggi e situazioni immaginate o fittizie sullo sfondo di dati reali e meticolosa-
mente ricostruiti.
Le fonti del diritto greco
Ugo Enrico Paoli, che in Italia si è impegnato per primo in questo genere di studi,
pur ritenendo che almeno in tema di diritto di famiglia esistesse un substrato comune,
rappresentativo appunto di un diritto comune greco, in tutte le sue ricerche in effetti si è
dedicato unicamente alla ricostruzione di quello che chiamava diritto “attico”.
1. Le leggi di Gortina
Gli scavi archeologici hanno consentito di ritrovare a Gortina varie epigrafie di di-
versa ampiezza. La prima iscrizione, che comprende ben dodici colonne di scrittura dorica
bustrofedica, va sotto il nome di Codice di Gortina, mentre l’altra è indicata da qualcuno
come secondo Codice. La più ampia epigrafia risale al v secolo a.C., che assieme al 1v se-
colo rappresenta il periodo classico ateniese.
Non ci è dato sapere come sia stato prodotto il diritto qui attestatoci, così come chi
abbia potuto disporre la pubblicazione di esso. Secondo l’ipotesi di G. K. Davis del 1994 si
sarebbe trattato di emanazioni dei singoli magistrati al momento di uscire di carica, ma in
realtà non si conoscono né le circostanze né le date della redazione.
2. Il diritto di Sparta
Degli Spartani non si sa quasi nulla perché non hanno lasciato nessuna documenta-
zione di sé e delle loro caratteristiche istituzionali: gli unici dati sul loro diritto giungono
da fonti letterarie antiche.
Fondamentale si rivela a tal proposito l’opera di Senofonte, l’Elleniká, dov’è conte-
nuta un’appendice sul diritto spartano. Per quanto al diritto privato avrebbe provveduto il
mitico legislatore lacedemone Licurgo, ma le notizie più significative provengono da Ero-
Vite parallele,
doto, Polibio e specialmente Plutarco con la sua importante dove vengono
osservate le vite di altri re spartani.
Non mancano tuttavia anche alcuni dati epigrafici, di difficile interpretazione: è il
caso del famoso poeta Tirteo.
3. Il diritto di Atene: leggi e legislatori
Il dibattito, specie in campo filosofico, sull’origine, i contenuti e gli attributi del
nómos nómoi),
concetto cui ci si riferisce col termine (pl. è assai vivo. In Demostene (Con-
tro Aristogitone) nómos
si parla di come “accordo comune della città in base al quale devo-
thesmós
no vivere tutti i cittadini”. Accanto a questo termine c’è poi quello di (“istituzio-
ne”). [24]
In questi paragrafi ci si riferirà ai principî ai quali avrebbero dovuto ispirarsi nei lo-
ro comportamenti i cittadini ateniesi e che soprattutto si trovano invocate nelle liti da-
vanti alle giurie popolari.
Occorre specificare che anche per molte di tali leggi gli stessi Ateniesi solevano far
riferimento a due importanti e celebri legislatori, Dracone (v11 secolo a.C.) e Solone (v1
secolo a.C.), anche se in molti casi deve ritenersi che si sia trattato di anticipazioni dovu-
te al fenomeno della personalizzazione di provvedimenti che è da credere siano stati as-
sunti in un secondo tempo.
La prima testimonianza è rappresentata dall’orazione di Andocide, dove si mette in
luce, citando anche alcune delibere assembleari, la consapevolezza del popolo ateniese di
essere vissuto fino a quel momento utilizzando, accanto ai costumi patrî, le leggi appunto
di Dracone e Solone, delle quali si decide tuttavia di operare una revisione, attraverso un
meccanismo piuttosto complesso istituito con un apposito decreto.
Come si ricava dai frammenti di varie orazioni di Demostene e di Eschine, in caso
di necessità di ulteriori leggi, sembrerebbe che da questo momento in poi si fosse provve-
duto con un meccanismo non dissimile da quello utilizzato per la revisione delle leggi
draconiane e soloniane, costituito fondamentalmente da un ampio collegio di nomoteti
scelti fra i membri della grande Eliea (assemblea di 6.000 cittadini che avevano prestato
giuramento ad inizio anno). Costoro sarebbero stati chiamati ad operare a seguito di varie
iniziative, diversamente strutturate e variamente finalizzate alla revisione di leggi in con-
flitto tra loro, alla creazione di nuove leggi al posto di altre precedenti od infine
all’abrogazione pura e semplice di leggi preesistenti.
È una dottrina comune, ma non concorde, che per quanto riguarda il v secolo decre-
to e legge sarebbero state la stessa cosa.
4. Varie fonti di conoscenza del diritto attico
Per Atene sono molte poche le epigrafi che ci riportano il contenuto di leggi, alme-
no per quanto riguarda quelle relative a rapporti civilistici e penalistici fra privati, mentre
abbondano le delibere popolari riguardanti rapporti di “diritto pubblico”, il che vale anche
per le altre città del mondo greco, come documentato da moltissimi titoli della grande
Inscriptiones Graecae.
raccolta di
Non si debba rinunciare a rintracciare possibili riferimenti a concetti giuridici utili
per la ricostruzione del diritto ateniese nelle cosiddette fonti filosofiche rappresentate da
Le leggi,
Aristotele e da Platone, ed in particolare per quest’ultimo da un’opera difficile,
ma di grande utilità.
Si dovranno ricordare inoltre in quanto fonte a volte unica e preziosa, pur con mol-
dei dieci oratori
ta cautela, le opere, ancorché tarde, dei lessicografi (Lessico di Arpocrazio-
ne, l’Onomastico di Polluce, la Suda ecc.) dove si illustrano termini di carattere giuridico,
riproducendo spesso anche frammenti di opere antiche e specialmente di orazioni perdu-
te. 5. Testi di legge nelle orazioni giudiziarie
È possibile ricostruire le leggi ateniesi dalle non poche orazioni giudiziarie che ci
sono pervenute per tutte e dieci i più importanti logografi del periodo classico (Antifonte,
Andocide, Lisia, Isocrate, Iseo, Demostene, Eschine, Licurgo, Iperione e Dinarco). Ma le
cose sono piuttosto complicate.
Secondo Ugo Enrico Paoli, filologo e storico italiano, i sistemi per ricavare le leggi
dalle orazioni sarebbero quantomeno due. Il primo, più controverso, è quello di approfit-
tare dei non molti casi in cui il testo stesso della legge sembrerebbe riferito testualmente,
mentre il secondo sarebbe quello di ricavare l’esistenza di un certo precetto dalle discus-
sioni che appaiono svolte per stabilire la presenza o meno di un elemento di fatto, da cui
sarebbe lecito