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LA FESTA DEL RITORNO DEI MORTI
Il bon è la cerimonia collettiva per venerare gli spiriti degli antenati e deriva dal nome di un sutra che
significa ‘estremo dolore’; questo testo buddhista contiene, parzialmente, le premesse dottrinali che
caratterizzano questa prassi. Il bon, infatti, unisce credenze e pratiche che derivano dal buddhismo
indiano.
Yanigata Kunio sosteneva che la scansione temporale dell’anno fosse determinata da due cicli agricoli
e che l’inizio di ciascuno di essi era sacralizzato da una festa, la prima in pieno inverno e la seconda
al culmine dell’estate. Entrambi erano tama matsuri, riti per le anime, e presentavano gli stessi
contenuti religiosi.
Sia nello shogatsu che nel bon si celebra l’arrivo del dio tutelatore del villaggio e delle anime degli
antenati all’interno della comunità. Lo schema rituale prevede la purificazione, la processione dei
bambini, i fuochi di accoglienza, il banchetto cerimoniale, lo scambio di doni, la divinazione e
l’espulsione degli spiriti con pratiche di esorcismo.
La prassi del bon, però, venne assimilata molto lentamente nella cultura giapponese. Fino al 13°
secolo questo rito era di esclusività dei monaci e dell’élite della capitale. Solo nel periodo Kamakura
questa festa enne accettata da più larghi strati di popolazione. Oggi il bon è un atto di venerazione
degli antenati anche se si inserisce al centro di un insieme di riti comunitari di esorcismo delle anime
dei morti inqueti.
La festività dei morti impegna le famiglie per tutto il periodo di agosto. Il 1° del mese è il giorno in cui le
anime iniziano il loro viaggio verso il mondo dei vivi e in casa il capofamiglia pone sull’altare degli
antenati delle offerte di cibo. Il 7 agosto è il giorno che segna l’inizio del rito: i familiari si recano al
cimitero per pulire le tombe. La sera del 13 agosto, al tramonto, il capofamiglia toglie dall’altare le
tavolette degli antenati e le dispone in ordine gerarchico su un altare preparato per l’occasione.
Bambini e anziani nel frattempo salgono in processione sulle alture tenendo in mano dei rami di
sempreverde cantando canzoni di benvenuto. A partire dalla cima accendono dei fuochi per indicare
la strada ai morti. La sera del 15 agosto gli spiriti vengono mandati via dal mondo dei vivi e il bon ha
termine. Si accendono dei fuochi per indicare agli spiriti la strada del ritorno; poi vanno al fiume e
pongono sull’acqua delle piccole lanterne di carta, ognuna col nome di un defunto. Il mattino seguente
sulle tombe verranno posti rami di sempreverde simbolo di eternità e segno di una presenza divina.
Tra capofamiglia e moglie c’è una precisa divisione dei compiti rituali: il marito cura le cerimonie
comunitarie; la donna, invece, si occupa del culto giornaliero (offre il cibo, sistema l’altare).
Al bon si ristabilisce l’unione:
• Tra antenati e famiglie,
• Tra le varie famiglie. Le donne sposate in quei tre giorni vanno a trovare i loro genitori. I parenti
si scambiano visite di cortesia. È l’ikibon, il bon dei vivi, caratterizzato da un grande banchetto che il
villaggio impartisce per tutti, sulla strada davanti al tempio vicino al cimitero.
ICONOGRAFIA DELL’ALDILA’
Nella cultura giapponese le rappresentazioni iconografiche dell’aldilà esprimono una doppia tematica:
all’inizio rappresentano un pericoloso itinerario nel selvatico, simbolo della trasformazione dell’anima e
del corpo; alla fine del viaggio appare una costruzione in cui lo spirito entra e scompare: è la
condizione definitiva di morte.
Varcata la soglia di morte, a volte l’anima percorre una discesa sottoterra verso lo yomi no kuni,
oppure affronta l’ascesa della montagna sacra. Nella tradizione sciamanica, il morto inizia a
camminare nella curva dell’arcobaleno. L’entrata degli inferi indica un luogo dove è impossibile
fermarsi: le leggende parlano di deserti, di distese di ghiacci, di profonde caverne.
Il morto è rapito dal vento, ghermito da uccelli sacri (spiriti guardiani dello sciamano), rapito da esseri
mostruosi, trascinato in catene dalle guardie di Enma (il re degli inferi), traghettato dai demoni oltre il
sanzgawa, il fiume che segna il confine del mondo delle ombre.
Il viaggio del morto verso il paradiso è descritto come difficile e pericoloso e l’anima può essere vinta
dalla paura e dall’angoscia. Su una strada che non conosce, l’anima rischia di perdersi. Il morto può
rimanere intrappolato in un’ambiguità esistenziale.
L’immaginario dell’oltretomba viene visto come un labirinto: la meta appare vicina e subito dopo
lontana, e l’ultimo smarrimento è seguito dalla scoperta della soluzione. Al centro del labirinto vi è un
mostro o un vuoto. Come al centro del paradiso, dio.
Arrivato al centro dell’aldilà il morto raggiunge uno stato di completezza.
L’anima ora entra in un giardino perfetto, o arriva in un’isola felice o arriva nella Terra Pura di Amida.
Lo sciamano riesce a guidare il morto fino alla vetta della montagna sacra.
Osoresan è la montagna (vulcano spento) dei morti. Tutte le anime prima o poi la raggiungeranno.
Realizza perfettamente la divisione dello spazio sacro: alle sue pendici vi è una foresta profonda.
Salendo la vegetazione diventa sempre meno fitta fino a raggiungere un paesaggio fatto di pietra e di
sorgenti puzzolenti. Li c’è un fiume giallastro che sfocia in un lago che riempie il cratere del vulcano.
È una montagna che incute paura. Durante i periodi di carestia salivano lassù, in segreto, gli uomini
dei villaggi della zona per gettarvici all’interno vecchi e bambini indesiderati.
Il vulcano è anche una meta di pellegrinaggio per gli asceti: aprono l’accesso a questo luogo sacro
alla morte. Verso la fine di luglio le sciamane cieche del nord dello Honshu si riuniscono nel tempio lì
vicino e festeggiano il bodhisattva Jizo, protettore delle anime dei morti. In questo periodo anche i
fedeli possono salire al vulcano e incontrare i loro morti, prima di raggiungere la cima però il suo
cammino è sbarrato dal sanzugawa, il fiume che separa il mondo dei vivi da quello dei morti.
Ripercorrendo il cammino di un’anima, passa un ponte simbolo delle arcate che uniscono i cieli. Il
tempio buddhista posto al limite della foresta è una tappa obbligata. Salendo per pendii franosi si
perde la coscienza della direzione, il viaggio verso il lago è ancora molto lungo. Si deve passare prima
per una riva che simboleggia il fiume degli inferi che non può essere oltrepassato dai bambini
abortiti. Dopo aver passato una cappella dedicata a Jizo si arriva alla riva del lago che rappresenta la
spiaggia del paradiso.
Nell’immaginario del paradiso c’è quasi sempre una costruzione umana che tenta di fare vedere
l’opposto della morte rispetto alla vita. Il paradiso, dunque, può essere una città o un grande palazzo,
con mura che lo circondano e lo difendono. L’anima si trova davanti una realtà umana, ordinata e
comunitaria. Viene interrogata dal guardiano della porta ed è riconosciuta grazie all’intervento degli
antenati della sua famiglia; poi passa i portali d’ingresso.
Ci sono due raffigurazioni principali di cosmologia:
1) Un primo tipo di cosmologia si basa su una struttura verticale in cui prevale un sistema di
classificazione monotetico, basato su una rigida tripolarità. Il mondo degli dei nei cieli, il mondo degli
uomini sulla terra e il mondo dei morti sottoterra. Il mondo degli dei è al vertice dell’universo: è
luminoso e puro. All’opposto, gli inferi sono ai margini dello spazio: un mondo buio e impuro. È
popolato da fantasmi, mostri, insetti velenosi. Le porte di questi mondi sono sbarrate da grandi pietre.
Questi mondi tendenzialmente non comunicano, per questo c’è la necessità culturale di creare dei
mediatori (sciamani, demoni, bodhisattva).
2) Nel secondo tipo di cosmologia prevale un sistema orizzontale, incentrato su due poli: il mondo
dei vivi e l’altro mondo posto al limite dello spazio. La terra dei morti è anche il regno degli dei. Alcuni
antropologi ritengono che questa cosmologia derivi dalla tradizione delle popolazioni malayo-
polinesiane. Hanno messo in rilievo una cosmologia coerente: quella di un luogo paradisiaco, il
tokoyo, terra miracolosa dove vanno gli spiriti dei morti e dove regnano gli dei.
La terra divina può essere raggiunta in diversi modi:
• Tuffandosi in mare e abbandonandosi alle correnti marine,
• Calandosi nella profondità di alcune grotte,
• Immergendosi in un lago incantato le cui sorgenti sgorgano dal paradiso.
La collocazione spaziale del tokoyo è molteplice e contraddittoria, tuttavia è sempre nell’oku, al limite
dello spazio. Il tokoyo è uno spazio ambivalente, è paradiso e inferno allo stesso tempo, come il bene
e il male compongono la stessa figura divina. I marebito sono anime di morti e portano nel mondo la
loro morte ma allo stesso tempo portano la vita: infatti sono anche simbolo della fertilità, arrivano
all’inizio del nuovo ciclo di coltivazione, sono in coppia (maschio e femmina) e presiedono ai riti di
iniziazione dei giovani all’età adulta.
La comunicazione tra mondo degli uomini e aldilà non è a senso unico. Il paradiso è un luogo aperto
e, nelle leggende, molti vivi riescono a raggiungerlo (es. leggenda di Urashima).
Il tokoyo assume un altro significato: è il luogo che è all’origine dello spazio e del tempo ed è sognato
come terra di origine delle popolazioni dell’arcipelago giapponese, una terra felice e luminosa.
La visione di questa terra paradisiaca è in grado di adattarsi alla dinamica culturale. In momenti storici
di crisi questa cosmologia viene rielaborata e mondo dei vivi e quello dei morti vengono sovrapposti.
Nelle visioni apocalittiche il mondo presente appare come un inferno in terra e nel messaggio
rinnovatore il leader carismatico annuncia una nuova salvezza e trasforma l’inferno in un paradiso
popolato da fedeli.
Il bisogno di salvezza e l’illusione che questa si realizzi subito si traduce in una fuga dalla realtà con la
tendenza religiosa di trasformare il presente in un altro mondo: infernale o paradisiaco che sia.
IL GIUDIZIO DEI MORTI
Alcuni racconti buddhisti di derivazione popolare descrivono il viaggio di persone che sono andate
nell’aldilà e che poi sono riuscite a tornare tra i vivi e a raccontare le proprie avventure. Sono
narrazioni brevi, in prima persona.
Molte volte ricorre il tema del giudizio dei morti.
Il racconto può iniziare con la descrizione dell’anima che si incammina per il sentiero che va
nell’ombra. In a