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GIORGIONE
Giorgione nato a Castelfranco Veneto nel 1478, egli sembra aver compiuto il proprio apprendistato presso
Giovanni Bellini. La sua attività pittorica dall’inizio del secolo alla morte avvenuta nel 1510, è intensa e ricca
di aspetti innovatori che condizioneranno lo sviluppo della successiva pittura veneziana. La pala del
Duomo di Castelfranco, raffigurante la Madonna in trono con il bambino, fra due santi, eseguita nel
1504-1505. Il confronto con la coeva Pala di San Zaccardo di Giovanni Bellini permette di valutare appieno
le novità sul dipinto giorgionesco: l’assetto competitivo dell’immagine si stacca dall’impaginazione
architettonica di matrice belliniana per volgere allo schema semplificato e astratto dell’impianto piramidale.
La purezza geometrica della composizione consente in una limpida e agevole disposizione delle forme,
strette in unità tridimensionale dal trono della Vergine. Il gruppo sacro fa da cerniera tra i due piani in cui è
suddivisa la scena, quello inferiore dove si accampano le figure, e quello di sfondo oltre il velluto rosso che
si dilata su un ampio paesaggio. In questa zona il pittore abbandona ogni legame con il paesaggio
architettato di fine Quattrocento e con le stesse formule georgiche di Bellini per dar vita a un’immagine
diretta di natura vivente, i cui accenti di realtà si avvicinano al nuovo naturalismo di Durer e agli studi dal
vero di Leonardo. Tuttavia la soluzione stilistica di Giorgione, tutta risolta sul piano coloristico. La libera e
morbida stesura delle tinte date a macchia, il lieve variare dei toni che sfuggono a ogni precisazione
disegnata, evocano con immediatezza la luminosità e le vibrazioni dello spazio naturale, rilevato il valore atmosferico del colore.
Questo tipico tratto ritorna nella piccola tela della Tempesta (1506-08) dove l’impasto sfocato e la
tessitura continua della pittura senza disegno solo all’origine della fusione atmosferica delle forme.
Contro la durezza smaltata del colore quattrocentesco, le effuse modulazioni cromatiche di
Giorgione s’imbevono di luce, acquistando trasparenza e spessore. La vibrazione dei colori intrisi di
luce da vita a un’immagine mutevole e viva in cui prende copro un nuovo concetto di spazio, libero
da univoche costrizioni prospettiche. La natura raffigurata assume così un’inedita risonanza emotiva
in cui sembra esprimersi il sentimento stesso dell’autore.
L’interpretazione lirica e soggettiva del paesaggio, il suo stesso prevalere sulle figure in immagini di
ardua o indecifrabile lettura, hanno indotto a vedere nel pittore un personaggio ribelle che affidava
ai dipinti l’espressione libera e fantastica del proprio sentimento. Lontano dalla concezione dell’arte
come espressione personale, teneva in primaria considerazione il soggetto dei quadri. La novità dei
temi giorgioneschi e il loro trattamento inconsueto e personale non derivano da un rifiuto della
funzione narrativa della pittura, ma dall’obbedienza del contenuto a criteri particolari. Tali criteri
sono dettati dagli orientamenti intellettuali del committenti di Giorgione che, estranei all’ambiente
ufficiale veneziano religioso e civile, appartengono al colto e ricco ceto mercantile della città. Per
essi, la cultura ha il compito di soddisfare eruditi interessi individuali estranei alla dimensione
dell’impiego pubblico: sollecitando nell’arte un nuovo modo di espressione ispirato a un sottile
ermetismo e destinato a essere compreso da cerchie ristrette e selezionate. Tutto questo favorisce
l’abbandono degli schemi iconografici tradizionali per una sempre maggior autonomia
dell’invenzione del pittore, e spiega la diffusione di nuovi generi artistici com i paesani con figure e
le mitografie. Nella più antica descrizione de dipinto, dataci da Marcantonio Michiel, nel 1530, si
parla laconicamente di “el paesetto in tela cun la tempesta, cum la cingana (zingara) et soldato de
mano de Zorzi da Castelfranco”. E possibile che già non riuscisse a riconoscere il soggetto: è però
un fatto ch’egli parlasse unicamente di una zingara, di un soldato e delle tempesta definendo l’opera un paesaggio. Molti studiosi moderni
ritengono il quadro un delicato idillio, uno spettacolo di luce, di natura, di sentimenti umani, fine a se stesso. Altri controbattono che
questa versione dei fatti contrasterebbe con la realtà storica di un’epoca in cui non si dipingeva un’immagine se non finalizzata a raffigura
una storia. Il problema sarebbe quello d’identificare la storia scelta da Giorgione. Alla metà dell’ottocento il quadro era intitolato “La
famiglia di Giorgione”. Il Wickhoff fu il primo a proporre, alla fine del XIX secolo, una lettura mitologica: Giorgione avrebbe illustrato un
passo della Tabaide di Stazio, con Adrasto che scopre in un busto Hypsipyle in atto d’allattare
Ofelte. Rudolf Schrey propose che il soggetto sarebbe tratto dalle Metamorfosi di OVidio: l’uomo e
la donna Deucalione e Pirra, i progenitori dell’umanità, scampati al diluvio universale. Edgar Wind
interpretò il quadro come un collage di personificazioni astratte: l’uomo rappresenta la Fortezza, la
donna la Carità: devono convivere con i rovesci della Fortuna (il fulmine). Hartlaub parla di un
allegoria dell’iniziazione alchimia destinata a una setta segreta veneziana. Calvesi rilegge la Tempesta
come un allegoria dell’unione del cielo e della terra basata su uno scritto del filosofo neoplatonico
Leone Ebreo. La De Grummond ha ravvisato nella Tempesta l’episodico della vedova e del
figlioletto salvata da San Teodoro, santo protettore di Venezia. Salvatore Settis ha ravvisato come
soggetto della tela Adamo ed Eva dopo la Cacciata. Adamo contemplerebbe Eva che allatta il
piccolo Caino; alle spalle dell’uomo, le due colonne sarebbero un triste memento di morte. La città
dello sfondo è identificata con l’eden perduto, mentre il fulmine sarebbe una metafora dell’ira
divina. Ma non vi è una sola raffigurazione di Adamo ed Eva dopo la Cacciata in cui Adamo sia
vestito; egli è sempre nudo, come Eva o ricoperto da un perizoma di foglie. Inoltre un serpente che
s’infila in un anfratto della roccia sotto un piede della supposta Eva altro non
è che un’ombra del terreno o un rammeto.
Nei Tre Filosofi (1508) Giorgione unisce il nuovo modulo monumentale
della figura umana con lo spazio atmosferico della natura. La solenne presenza dei tre personaggi issati su un
piedistallo naturale, si impone per i vividi colori e la nuova ampiezza dai volumi panneggiati, ma ciò che prevale è
ancora una volta il paesaggio. L’audace disposizione della scena crea l’impressione della vita multiforme e
spontanea della natura, mentre l’unità della rappresentazione ritrovata nell’organizzazione della luce, distribuita in
due triangoli complementari, uno luminoso e uno in ombra. L’immagine esprime l’accordo tra uomo e natura. La
stessa grandezza di concezione che si rivela nei Tre Filosofi e ancora più incisiva nei ritratti. In essi l’autore da
espressione a inediti motivi psicologici. Ritratto di Vecchia che taluni vollero vedere raffigurata la madre stessa di
Giorgione. Esso rivela, accanto al gusto per la resa autentica e naturale del soggetto, una sottile attenzione
all’intensità della presenza umana.
TIZIANO
L’attività artistica di Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore 1490, Venezia 1576) domina gli sviluppi della pittura
veneziana del Cinquecento ed estende la propria influenza anche sull’arte europea dei secoli successivi. La sua
carriera incomincia a Venezia all’inizio del XVI secolo, Tiziano compie la propria formazione nella città lagunare
andando a bottega da Giovanni Bellini. Qui egli viene in contatto con l’artista più innovatore del momento,
Giorgione, dal quale apprende la rivoluzionaria tecnica pittorica basata sull’autonomia del colore. Mutuato da
Giorgione il nuovo registro monumentale delle figure, Tiziano lascia l’astratta sollenità delle forme del maestro per
caricare le proprie immagini di una nuova energia e sicurezza di moti. Fin dall’inizio l’arte di Tiziano si orienta a
sottolineare l’esistenza fisica delle cose, sviluppando del linguaggio di Giorgione gli aspetti più idonei a realizzare
effetti realistici Ma l’indipendenza e l’originalità di Tiziano giungono a piena maturazione
nel 1511, quando negli affreschi della Scuola del Santo a Padova il pittore affronta il registro
a lui congeniale della narrazione drammatica. Ai colti travestimenti allegorici e al loro
misterioso e sospeso di Giorgione, Tiziano contrappone il chiaro e incisivo impianto narrativo delle immagini, in
cui manifesta il proprio dominio della naturalezza del Rinascimento maturo. L’azione è messa a fuoco ne suoi
momenti cruciali con un immediatezza e una vivacità che nel Miracolo della donna ferita dal marito geloso
raggiungono la forza del dramma. La dinamica dell’evento si concentra nello slancio violento dei gesti dei due
personaggi il primo piano, in cui la difficile articolazione del corpo della donna manifesta la sicurezza raggiunta da
Tiziano nella composizione della figura umana e il suo sforzo di vitalizzazione dell’immagine. Al potenziamento
dell’energia della scena contribuisce in maniera determinante il colore che costituisce la struttura stessa della
raffigurazione acquistando più vaste possibilità espressive, le larghe zone cromatiche e i toni risaltanti e aggressivi
valorizzano le qualità più vibranti ed energica del colore, caricandolo di intensa
vitalità.
La prima importante commissione religiosa giunge a Tiziano nel 1516, quando il
convento dei Frati gli richiese una grande pala per l’altare; in essa Tiziano porta a
maturazione gli strumenti linguistici elaborati nella sua precedente attività, dandone
un ritorno all’intonazione dinamica e drammatica degli affreschi di Padova, Tiziano
svolge il tema dell’Assunzione della Vergine (1515-18) come un evento in atto. La
complessità composita e l’animazione dei personaggi, oltre alla scala grandiosa delle
figure e alla loro evidenza plastica, rimandando ai contemporanei saggi raffaeleschi e
michelangioleschi di linguaggio eroico è drammatico. Ma in Tiziano la ricerca della
potenza rappresentativa e dalla suggestione emotiva restano affidate sopratutto ai
valori pittorici dell’immagine: la completa padronanza del colore tonale permette a
Vecellio di esaltare le possibilità dinamiche ed espressive del colore, movimentato
dalla forte illuminazione radente e adesso in toni infuocati.
Nel dipinto con la Madonna col Bambino e Santi commissionato da Alvise Gozzi
per la chiesa di San Francesco ad Ancona, l’artista affrontò il tema, compositivamente
affine alla Madonna di Folign