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L’
organizzazione è all’origine del predominio degli eletti sugli elettori. Mentre però in
Mosca l’organizzazione è uno strumento per la formazione e il consolidamento della minoranza
governante, in Michels il gruppo oligarchico è una conseguenza delle stesse dinamiche
organizzative. Michels formula la cosiddetta legge ferrea dell’organizzazione
, secondo la quale
‘
chi dice democrazia dice organizzazione; chi dice organizzazione dice oligarchia; chi dice
democrazia dice oligarchia
’. Michels riscontra questa legge analzizando precisamente quelle
organizzazioni, come i partiti di impostazione socialista e socialdemocratica, la cui ragion d’essere
potrebbe sembreare la più chiara confutazione empirica di questa legge.
Ciò nonostante Michels riconosce che ‘il fatto che l’oligarchia sia inevitabile non esime i
democratici dalla necessità di combatterla. La democrazia viene concepita in termini di
competizione fra oligarchie.
L’austriaco Joseph A. Schumpeter (1883- 1950), in Capitalism, Socialism and Democracy
(1942) riprende le tesi degli elitisti allo scopo di difendere una concezione puramente procedurale
della democrazia. La definizione di Schumpeter è la seguente: la democrazia è quell’accorgimento
istituzionale per arrivare a decisioni politiche nel quale alcune persone acquistano il potere di
deciderre mediante una lotta competitiva per il voto popolare.
Per Schumpeter non esisterebbe alcuna volontà generale, e quindi nemmeno la possibilità
di pensare il popolo quale depositario della suprema volontà politica.
Il marxismo: 19001920
Si assiste, all’inizio del XX secolo, a una profonda trasformazione del quadro teorico
tradizionale del marxismo della Seconda Internazionale, che vede sempre più sfidato il proprio
assunto di fondo, cioè la sua fiducia nel fatto che la rivoluzione fosse un esito ‘necessario’ e
‘inevitabile’ della collocazione del proletariato nella moderna società capitalista. Infatti, la
rivoluzione
, in molti pensatori marxisti del primo ‘900 assume piuttosto il significato di
un’azione politica volontaria.
Lenin (18701924)
Nell’ottobre del 1917 scoppia in Russia la rivoluzione marxista; ma il paese è un impero
autocratico, privo di istituzioni parlamentari e di libertà politiche e civili, e poco evoluto dal punto
di vista dell’economia capitastistica, e non certo una delle società più sviluppate dell’Europa
occidentale. Dunque, siamo davanti alla radicale smentita storico-politica del progressismo
gradualista di impronta socialdemocratica. Di tale progressismo era allora espressione il partito
menscevico
, per il quel il socialismo si sarebbe potuto affermare unicamente in un paese
economicamente e socialmente maturo. La Russia, essendo un paese ancora arretrato, avrebbe
dovuto così svilupparsi economicamente prima di poter essere trasformata in senso socialista. Per i
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bolscevichi si trattava invece di puntare alla <<dittatura democratico-rivoluzionaria del
proletariato e dei contadini>> attraverso la presa immediata del potere da parte di un potere
dittatoriale diretto dal vertice del partito in funzione della rivoluzione socialista.
Per Lenin la politica proletaria ha come prospettiva la scomparsa della politica
istituzionalizzata e statualizzata, cui va sostituita la diretta partecipazione delle masse
all’organizzazione democratica di tutto lo Stato attraverso i soviet
, termine che in russo significa
consiglio
.
È tuttavia necessario passare attraverso un momento di mediazione politica, ossia
attraverso la macchina del partito
. Quest’ultimo è sempre un’
avanguardia centralizzata
, che
orienta e dà forma al movimento spontaneo della classe operaia.
In Che fare? (1902) Lenin esprime la sua concezione dei compiti del partito operaio in
Russia. Il compito prioritario del partito è di lottare contro lo spontaneismo, ossia contro forme di
rivendicazionismo puramente sindacale, in modo tale da imprimere alle sue lotte economiche una
direzione disciplinata dall’organizzazione politica, affidata a rivoluzionari di professione.
Con Lenin subentra una prospettiva che attribuisce al partito il ruolo essenziale di motore
della rivoluzione. Oltre a manifestare una profonda sfiducia nella capacità rivoluzionaria autonoma
delle masse, che vanno politicamente guidate, questa concezione risponde a quel primato della
decisione sulla mediazione, della dittatura sulla discussione, della rivoluzione sul progresso, che è il
tratto più caratteristico del pensiero leniniano. Il partito è visto come organizzazione separata dalle
masse e distinta dai sindacati, però vi è sovrapposizione del partito, inteso come figura autonoma
della coscienza di classe, e la classe operaia, concepita come materiale da plasmare e dirigere.
In un opuscolo del 1905, Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione
democratica
, Lenin afferma che la borghesia russa non era in grado né di promuovere né di
dirigere un processo rivoluzionario in senso democratico-borghese. Quindi, la rivoluzione borghese
avrebbe dovuto essere opera non della borghesia, ma del proletariato contro la borghesia stessa. La
repubblica democratica avrebbe dovuto assumere il profilo di una dittatura degli operai e dei
contadini. La dittatura del proletariato
si traformerà di fatto nella dittatura del partito.
La libertà, aveva affermato Marx, avrebbe potuto trovare effettiva attuazione solo oltre la
democrazia borghese, quando lo Stato fosse stato trasformato da organo sovrapposto alla società
in organo a essa subordinato.
In Stato e rivoluzione (1917) Lenin riprende proprio l’apologia marxiana della Comune per
giustificare i soviet quali autentica attuazione di una democrazia rivoluzionaria e proletaria
.
Lenin stabilisce un diretto collegamento tra i soviet e l’esperienza comunara e inizia a considerarli
non solo un’organizzazione di lotta, ma un principio di forma politica, opponendoli alla democrazia
di forma parlamentare. La Comune viene considerata come un’anticipazione di quell’esperienza di
vita autonoma delle masse e di partecipazione diretta all’organizzazione democratica. I soviet
infatti trasferiscono la democrazia direttamente nei luoghi di produzione. È decisivo notare che la
partecipazione delle masse lavoratrici alla vita dello Stato viene prevista in funzione della
estinzione di questo. Alla fine del 1920 Lenin riconoscerà esplicitamente l’impossibilità di una
dittatura democratica e dell’istituto della democrazia diretta. Il Partito comunista di governo sarà
così retto del principio del centralismo democratico
, ossia dalla formula organizzativa interna la
partito teorizzata da Lenin, democratico nelle discussioni e centralistico nelle decisioni. Il concetto
di dittatura del proletariato si trasforma così in dittatura del partito politico
.
In Imperialismo, fase suprema del capitalismo (1917), Lenin definisce l’imperialismo come
lo stadio monopolistico del capitalismo e lo caratterizza in base a cinque elementi:
1. concetrazione della produzione e del capitale (monopoli)
2. fusione del capitale bancario e industriale e creazione del capitale finanziario
3. il ruolo svolto dall’esportazione del capitali
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4. il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti
5. la spartizione del mondo in zone di dominio coloniale da parte delle maggiori potenze
capitalistiche.
Il nazionalismo
L’ideologia che contende al marxismo il primato politico è il nazionalismo
.
Quando, alla fine del secolo, gli equilibri fra Stato, società e individuo si spezzano per effetto delle
pressioni esercitate dalla democrazia di massa, in Italia e in Germania gli effetti sono ancora più
dirompenti che nel resto d’Europa. Tanto in Italia quanto in Germania, infatti, la situazione è
caratterizzata sia da un difetto di politica, cioè dalla fragilità della istituzioni politiche, sia da un
eccesso di politica, cioè dalla particolare violenza delle contraddizioni che percorrono il corpo
sociale. La delusione per le angustie del liberalismo e della democrazia parlamentare genera oscure
e generiche volontà di ribellione. Ma anche in francia il nazionalismo è fortissimo, qui però è
piuttosto il veicolo dell’opposizione controrivoluzionaria agli ideali del 1789.
Il nazionalismo si radica dapprima in correnti di pensiero che, come accadeva in Mazzini,
collegano il concetto di nazione a quello di umanità. I movimenti nazionalistici di fine ‘800,
nell’epoca del protezionismo e dell’
imperailismo
, portano alla sua trasformazione, da teoria
potenzialmente progressiva in ideologia reazionaria, che propugna la divisione ‘naturale’ del genere
umano in nazioni sempre più simili a ‘razze’.
Nonostante le sue pretese di scientificità positivistica, questa versione di nazionalismo si
colloca nell’orizzonte del pensiero irrazionalistico del XIX secolo, in quanto aderisce a quel
complesso di reazioni al razionalismo illuministico.
Per i nazionalisti la verità è il prodotto dell’azione politica, che diventa quindi mito
, ossia
un costrutto.
Il nazionalismo acquista un ruolo politico all’epoca della seconda rivoluzione industriale e
della società di massa nel momento in cui sorge il problema dell’integrazione delle masse,
precedentemente escluse dall’area della cittadinanza politica. A esse viene proposta, in funzione
antisocialista, un’identificazione con il destino della nazione, che interpreta la vocazione autoritaria
e bellicistica dello Stato nazionale al tempo dell’imperialismo e del protezionismo.
Il nazionalismo diviene una sorta di religione secolarizzata, uno strumento per realizzare
l’integrazione e l’unità del popolo al di là delle divisioni di classe. L’occasione storica per attuare
questo progetto sarà la prima guerra mondiale - il vero punto di svolta carastrofica del XX secolo -
che realizzerà, nel segno della morte e della tecnica, la piena nazionalizzazione delle masse e il
primo grande passo verso la crisi della moderna forma-Stato. È proprio in questa occasione che lo
Stato liberale, con le sue istituzioni, collassa, mentre il nazionalismo, incontrando il nichilismo,
genera una miscela esplos