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IL CINEMA: PER UN’AUTODIAGNOSTICA DELLA CRISI

2.

Nella scena madre di Entrapement (1999), la ladra interpretata da Catherine Zeta-Jones si

addestra a fare a meno dello sguardo. Si allena a operare a occhi bendati. Con una benda

sugli occhi prova a passare in mezzo a dei fili senza sfiorarli. Addestra il suo corpo a

compiere gesti e movimenti di precisione millimetrica senza mai usare gli occhi. Quasi una

coreografia. Che implica prima una simulazione territoriale, poi un rigido addestramento

prossemico-gestuale, quindi la capacità di produrre una replica del percorso più e più

volte. Questa sequenza si offre come sintomo di un destino epocale che sembra

interessare tutto il cinema contemporaneo: la consapevolezza del progressivo declino

della vista nella gerarchia degli organi di senso unita alla percezione della crescente

importanza che vanno assumendo l’udito e il tatto. Che i due protagonisti del film siano poi

ladri di immagini esprime la nostalgia della civiltà dello sguardo. Tutto l’impianto diegetico

di Entrapment è congegnato in modo tale da inserire il tema dell’eclissi dello sguardo in

uno scenario complessivo che richiama molti dei contrassegni connotativi della

postmodernità: l’invisibilità del territorio, l’imlposione dei suoi segni, la sua perdita di

identità. Non è il controllo dello spazio che inquieta il personaggio postmoderno, quanto

piuttosto la paura di perdere il contatto con il flusso del tempo.

Se Entrapment tematizza la necessità di cominciare a fare a meno dello sguardo, per Ciprì

e Maresco lo sguardo è già morto da tempo. Sopravvive come residuo, ma non funziona

più. Il cinema di Ciprì e Maresco nasce da questo lutto: dalla trasformazione dell’occhio in

un simulacro che mantiene la forma di quel che è stato, ma non sa più captare i segni del

mondo. È un cinema “post-oculare”. Capace di trovare un guizzo di vitalità metalinguistica

e intertestuale solo nella pratica cinica e autoironica della mise en abime: l’incipit di Totò

Che Visse Due Volte replica quello di Lo Zio Di Brooklyn attraverso la simulazione di una

proiezione del primo film agli attori che lo hanno interpretato. L’uomo che si toglie l’occhio

è così attore e spettatore: si mutila sulle schermo mentre in platea assiste alla

rappresentazione del proprio gesto accecante ripetendolo per la seconda volta. Il cerchio

si chiude. Oggi l’occhio è solo un simulacro di quel che è stato. Il cinema contemporaneo

lo sente e lo sa. Tanto che riempie le sue storie di personaggi che vogliono fare a meno

degli occhi. Che non si fidano più della vista. Che spesso scelgono addirittura di non voler

vedere, e optano per la cecità, e se la procurano da sé.

La metafora dell’accecamento

2.1.

A venire a galla nel cinema contemporaneo è la consapevolezza dello scarto inevitabile

che si è creato tra visione e conoscenza. Una volta che l’immagine è entrata nel dominio

della simulazione, la perdita ontologica del suo legame con la realtà la rende del tutto

inaffidabile e spinge a diffidare dello statuto di verità di ciò che viene captato dagli occhi.

Già a partire dalla fine degli anni ’50 la modernità filmica si fa carico criticamente e

problematicamente del problema. Il cinema moderno vive, insomma, della contraddizione

fra il culto del falso e li ricerca del vero. Se il cinema moderno era comunque convinto di

poter sopperire con la propria tecnologia riproduttiva alle debolezze o alle miopie dello

sguardo umano, il cinema contemporaneo non ci crede più. Sa che la tecnologia serve

sempre più spesso a simulare il falso, e non si fida. Non crede più che il semplice gesto

del guardare un’immagine significhi anche conoscere il mondo che in quell’immagine

viene mostrato. Lo scarto risulta evidente in Blow-up di Antonioni (1966 - Un fotografo fa

delle foto ad una coppia. Facendo degli ingrandimenti si accorge che la donna era

spaventata da qualcosa e ingrandisce il dettaglio delle foto. Quindi solo tramite la

8

macchina lui ha potuto conoscere. Con gli occhi poteva solo vedere) e in I Misteri Del

Giardino di Compton House (1982 - Un disegnatore è ossessionato dall’idea di predisporre

i luoghi del visibile che vuole rappresentare).

In entrambi i casi siamo di fronte a un produttore di immagini o a un artista del visibile (un

fotografo e un paesaggista) che si trova a realizzare alcune prise de vues in un tipico

spazio di “natura umanizzata”. In tutti e due i film lo spazio che è oggetto di

rappresentazione è stato il teatro di un delitto di cui né il fotografo né il disegnatore sono a

conoscenza: tanto le fotografie quanto i 12 disegni contengono dettagli o indizi rivelatori

dell’omicidio. Il fotografo di Antonioni, osservando non la realtà ma la sua

rappresentazione fotografica, intuisce che davanti all’obiettivo della sua macchina

fotografica può essere successo qualcosa che l’occhio umano non è stato capace di

captare. Così, grazie alla tecnica dell’ingrandimento fotografico (blow-up) riesce a rendere

visibili dei particolari inquietanti che lo rendono certo della presenza di un cadavere e gli

consentono di far coincidere, appunto, visione e conoscenza. Il fotografo di Blow-up

rappresenta alla perfezione la condizione tipica del cinema moderno: capace di

interpretare l’immagine e di riflettere matalinguisticamente sui suoi modi di

rappresentazione, ma anche convinto della sua ontologica contiguità con il reale. Al

contrario, il disegnatore di Greenway non vede quel che pur riproduce, non si rende conto

dei dettagli allarmanti che pure registra nelle sue “vedute”. Nella sua smania di riprodurre il

reale, Mr. Nerville non riesce a guardarlo. La visione e la riproduzione non gli garantiscono

la conoscenza. Il cinema contemporaneo sente la frattura fra visione e conoscenza come

una dolorosa menomazione. Il destino finale di Mr. Nerville – non a caso – è quello di farsi

bruciare gli occhi.

Dunque: non voler vedere. Reagire alla rottura fra visione e conoscenza con il rifiuto di

continuare a rapportarsi al mondo attraverso lo sguardo. I ciechi del cinema

contemporaneo rifiutano lo sguardo tout court. Come accade nel film A Prima Vista (1999),

dove il protagonista, cieco dall’età di 3 anni, ritrova per poco la vista, ma preferisce subito

dopo tornare nel limbo oscuro della sua cecità. Nella vita di un cieco le cose sono sempre

al loro posto, gli oggetti hanno un ordine fisso e immutabile. Di contro, la visione è

l’illogico.

La visione “differita” è quella tipica del cinema. Solo al cinema vediamo ora (in sala) quel

che è già accaduto prima. Che la metafora dell’accecamento presente in tanto cinema

contemporaneo sia dal leggere, sulla scia di Occhi di Tenebre, come una sorta di

autopunizione per l’eccesso di fiducia che il cinema stesso ha concesso tanto all’illusione

di saper riprodurre il reale? L’archetipo dell’accecamento nella cultura occidentale nasce

da un gesto di autopunizione. Edipo, nella tragedia di Sofocle, si acceca quando si rende

conto che i suoi occhi non gli sono serviti né a riconoscere il padre nell’uomo che ha

ucciso, né a vedere la madre nella donna che ha amato.

Il cinema contemporaneo mostra come il visibile perda terreno di fronte al sempre più

marcato affermarsi dell’acustico e del tattile; prende atto del processo di indebolimento, se

non addirittura del vero e proprio sfiguramento, che investe anche lo statuto specifico delle

forme. La crisi del visibile

2.2.

L’esigenza di ridefinire la logistica del territorio percettivo investe non solo il cinema, ma un

po’ tutti i linguaggi della cultura contemporanea.

Perfino quella “fantasmagoria della merce” che definiva in modo accecante il nuovo

territorio della metropoli moderna cessa di esercitare il suo fascino sulla vista e sugli occhi

per diventare prima di tutto una “fantasmagoria tattile”. 9

Prima, dunque, accarezzare con gli occhi. Poi, uscire da un grande magazzino con

l’occhio ebete e vuoto, sazio per aver toccato a dismisura l’oggetto-feticcio. All’inizio delle

fantasmagorie del moderno l’acquirente aveva bisogno della vetrina come soglia di

mediazione fra sé e lo spettacolo delle merci così come lo spettatore abbisognava dello

schermo come luogo deputato al dispiegamento della visione; ora, invece, tanto

l’acquirente quanto lo spettatore vogliono entrare dentro lo spazio delle proprie visioni e

immergervisi senza più filtri. Il visibile cede al tattile.

Il cinema avverte evidentemente la crisi del visibile con un’intensità ancora maggiore, ma

sente anche la complicazione specifica che lo riguarda in quanto linguaggio deputato alla

messinscena di visioni. Il problema di fondo: la crisi del visibile nel cinema contemporaneo

si configura innanzitutto come crisi ontologica dello statuto di credibilità dell’immagine.

La dialettica tra visibile e invisibile è al centro della riflessione moderna sul cinema e

coinvolge temi come la tensione tra campo e fuoricampo (la struttura centrifuga

dell’immagine filmica induce lo spettatore a immaginare il non visibile che sta oltre lo

schermo) o quello ancor più radicale del non filmabile o dell’irrapresentabile. Esemplari in

questo caso le 5 grandi “figure dell’assenza” individuate da Marc Vernet: nello sguardo in

macchina di un personaggio, nella soggettiva, nella sovrimpressione, nei ritratti appesi alle

pareti del decor e infine nei personaggi che si pongono come modelli ideali di altri

personaggi lo spettatore incontra i sintomi di un “altrove” che si sottrae a qualunque

rappresentazione ad esperisce l’invisibilità come elemento costitutivo della stessa

immagine visibile. Tuttavia, l’irrappresentabilità o il non visibile si danno come tali solo a

uno spettatore esterno che rifletta sui dati esperienziali del proprio percepire. Nel cinema

contemporaneo, invece, la situazione è diversa. Quello contemporaneo è un cinema che

tematizza la non visibilità.

La crisi del visibile nel cinema contemporaneo si articola su 3 livelli:

La rappresentazione del limite filmabile (Contact di Zemeckis);

- La rappresentazione dello scarto rispetto al già firmato (Psycho di Gus Van Sant);

- La rappresentazione del limite del virtuale (Matrix dei fratelli Wachowski).

-

Tutti e 3 questi livelli configurano una nuova e inedita esperienza del sublime: che si dà

come scoperta dell’incommensurabilità dell’Altro (Contact), dell’Identico (Psycho), e del

Virtuale (Matrix).

Contac

Dettagli
Publisher
A.A. 2014-2015
28 pagine
4 download
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/06 Cinema, fotografia e televisione

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Marlaclo di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di storia del cinema e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM) o del prof Canova Gianbattista.