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Nel Cinquecento la dottrina dell’imitazione ideale non aveva ancora soppiantato quella più vecchia, e
incompatibile con la nuova, che l’arte sia un’imitazione della natura; e non è raro, almeno fino ad oltre la
metà del secolo, trovarle affiancate. Il concetto dell’imitazione letterale era comparso già nel Trecento e si
accompagnò nel Quattrocento alle tendenze ed alla pratica realistica di quegli artisti che lottavano per
conquistare la perfetta illusione della natura visibile.
Una coerenza maggiore ci si potrebbe aspettare dall’opera critica del Dolce, autore del primo
importante trattato umanistico della pittura del Cinquecento. Eppure, dopo aver definito l’arte come
imitazione della natura, ribadendo che il pittore la cui opera più le si avvicina è il maestro più perfetto,
può più avanti definire che il fine dell’arte non è solo l’imitazione della natura, ma anche il superamento
di essa. Probabilmente il Dolce era conscio dell’incoerenza, poiché tenta di armonizzare la prima
definizione con la seconda, sottolineando che solamente nella figura umana il pittore può far meglio della
natura; in ogni altro campo è nettamente inferiore. Il Dolce può ancora accettare il vecchio concetto
dell’imitazione letterale della natura in generale, ma per quanto riguarda la figura umana il concetto non
si può applicare. Ed è a proposito della figura umana in azione che il Dolce formulò la sua dottrina della
figura ideale.
Distingue due modi in cui il pittore può rappresentare la vita non come essa è, ma come dovrebbe
essere. Egli si può rivolgere direttamente alla natura e, scegliendo le parti più belle da numerosi soggetti,
produrre una figura composta più bella (Zeusi nel dipingere Elena).
La critica figurativa attraverso la tradizione del classicismo rinascimentale e barocco in genere si
mantenne fedele al significato delle parole di Aristotele più di quanto non avvenisse ai teorici letterari. Il
consiglio di seguire i modelli antichi o forse anche un moderno, come Raffaello, tendeva a diventare
norma dogmatica di stretta osservanza di un canone di bellezza artificioso.
Il culto degli antichi produsse nel Cinquecento un’importante modificazione della teoria aristotelica
dell’imitazione, che produsse molte conseguenze. Aristotele infatti non aveva mai consigliato l’imitazione
dei modelli prestabiliti, ma chiaramente pensava che l’imitazione significava della natura sia una funzione
dell’immaginazione selettiva e non dipenda da una norma esterna di perfezione. Né Aristotele, nella sua
profonda concezione dell’imitazione di una natura superiore, intese mai che l’artista debba voltar le spalle
alla natura, per volgersi ad un’idea a priori di perfezione nella propria mente. Eppure verso la fine del
secolo un critico neo-platonico come il Lomazzo poteva far deviare la teoria dell’imitazione col dichiarare
che la bellezza ideale la cui immagine ciascuno vede riflessa nella propria mente, ha la sua fonte in Dio
piuttosto che nella natura.
Ma nel 1664, nell’età laicizzante del Barocco maturo, Giovan Pietro Bellori riprendeva e metteva a
frutto ciò che era stato fino al tardo Cinquecento il punto di vista italiano sull’arte.
L’imitazione di uomini migliori di noi, di una vita così come dovrebbe essere, nel modello di una
tragedia ideale, implica una scelta discriminante di materiali nel mondo della natura umana in azione.
Bisogna ricordare che il Bellori, in un linguaggio platonico che richiama gli scritti dei suoi predecessori
manieristi, aveva descritto l’Idea come “esempio de bellezza superiore” nella mente dell’artista,
paragonandola al modello ideale nella mente di Dio che era stato l’archetipo divino del mondo creato; e il
Bellori aveva insistito nell’opinione dei massimi filosofi, che le cause o i tipi ideali sui quali sono modellate
le opere d’arte dimorano nella mente degli artisti, nella perfezione della bellezza immortale. Egli
considera l’Idea non come archetipo esistente a priori in metafisica indipendenza, ma come derivata a
posteriori, attraverso un processo selettivo dell’esperienza della natura. Il rinnovato interesse per la
natura in quanto fonte di concezioni ideali è il motivo centrale del pensiero del Bellori.
L’invenzione
La novità della pittura non consiste principalmente nel soggetto non più veduto, ma nella buona e
nuova disposizione e espressione, e così il soggetto dall’essere comune e vecchio, diviene singolare e
nuovo.
Era inevitabile che la Bibbia e gli scrittori antichi divenissero le fonti più ricche e che col tempo un
contenuto derivato dalle Scritture o dall’antichità fosse considerato quasi altrettanto indispensabile
all’invenzione quanto la conoscenza della scultura antica lo era per la pratica del disegno.
I teorici francesi del Seicento per primi avevano sostenuto che la scelta di un soggetto nobile era una
condizione fondamentale per lo stile grandioso, mirante alla verità universale attraverso l’imitazione della
“bella natura”; i grandi eventi della Scrittura, del mito o della storia greca e romana si adeguavano alla
rappresentazione ideale.
Alla metà del XVIII secolo il Lessing si trovava a opporsi non soltanto all’ut pictura poesis come veniva
esemplificata nei pittori di soggetti storici, ma anche a quei critici che consentivano un allargamento della
legittima sfera d’azione del pittore. Guardando indietro, come i teorici del Rinascimento italiano
all’autorità di Aristotele, ed opponendosi agli spunti romantici presenti nella critica del XVIII secolo, egli
era influenzato dalle tendenze puristiche di Winckelmann, che identificava la bellezza con la scultura
greca.
Le sorti dell’ut pictura poesis furono varie tra i critici della pittura del Settecento. Il De Piles e il
Reynolds, che entrambi aderivano allo spirito di questa dottrina ne criticavano il carattere troppo ristretto,
accogliendo nell’ambito legittimo della pittura, soggetti che gli Accademici francesi del secolo precedente
avevano considerato deteriori. Il Lessing avrebbe pur ammesso che al di fuori di un soggetto tratto dalla
vita non vi è pittura degna di questo nome; ma nel suo sforzo di depurare il fenomeno artistico di quegli
elementi che lo spingevano in nome dell’espressione a superare i limiti concessi ad un’arte di figure
coesistenti nello spazio, tendeva a minimizzare l’importanza dei fattori emotivi e psicologici.
Nel condannare l’allegoria sulla base del suo carattere arbitrario, il Lessing era stato preceduto
dall’Abbé du Bos, il quale benché fosse disposto ad accettare che le figure allegoriche tradizionali hanno
acquisito il diritto di essere presenti nel mondo delle arti, non può tollerarne i fratelli minori sorti dalle
fertili menti dei pittori moderni. La presenza simultanea di personaggi veri ed allegorie distrugge la
verosimiglianza (la probabilità drammatica di Aristotele) e che le tele del Rubens per la nascita di Luigi XIII
piacerebbero di più se il pittore avesse sostituito i personaggi allegorici con donne del tempo.
L’espressione
Se come diceva Aristotele l’oggetto della pittura è la figura umana in azione, ne segue che i movimenti
del corpo, in quanto esprimo gli affetti e le passioni dell’anima, costituiscono lo spirito e la condizione di
esistere nell’arte, la meta verso la quale tende tutta la scienza della pittura. Lomazzo aggiunge che è in
questo che più la pittura rassomiglia alla poesia: in entrambe le arti l’ispirazione ed il genio risiedono nella
conoscenza e nella capacità di esprimere le passioni.
L’intera tradizione critica del Classicismo in Italia ed in Francia ribadisce non solo che il moto
espressivo è la linfa vitale di tutta la grande pittura, ma che il pittore stesso, come l’attore tragico
oraziano, se deve commuovere il pubblico con l’espressione dei sentimenti e delle emozioni, dovrà in
primo luogo sentirle e soffrirle egli stesso.
L’umanista non sostenere che la grande pittura ha la capacità di stimolare le emozioni mediante il
movimento espressivo, converrà con Orazio che l’artista deve prima di tutto possedere nel proprio spirito
la capacità di una esperienza umana intensa e profonda.
I critici del Rinascimento erano spinti a paragonare la pittura con l’oratoria dall’osservazione di
Quintiliano che non deve destare meraviglia il fatto che il modo di gestire dell’oratore ha un così grande
effetto nell’anima di chi ascolta, quando i gesti silenziosi raffigurati in un quadro possono da soli così
penetrare il cuore da sembrare che superino in efficacia il potere della stessa parola.
Le osservazioni del Lomazzo a proposito dell’espressione hanno perduto del tutto l’empirica chiarezza
di Leonardo, che non ritroveremo più nel corso del pensiero critico rinascimentale e barocco. Le sue
osservazioni sono una serie di ricette ad uso del pittore.
Il trattato di Cartesio Traité des Passions de l’ame, il quale condivideva il profondo interesse proprio del
suo tempo per le perturbationes animae influenzò gli aspetti psico-fisiologici della teoria dell’espressione
durante le ultime decadi del Seicento. Dietro all’esattezza categorica con cui furono catalogate le
manifestazioni visibili degli stati d’animo invisibili, vi era non soltanto la completezza razionale del
metodo cartesiano, ma anche il concetto centrale della fisica cartesiana, che tutto l’universo, al pari di
ogni individuo, è una macchina.
Le regole dell’espressione acquistavano importanza agli occhi dei teorici e dei pittori minori
dell’Accademia, che senza rendersi conto dei pericoli cercavano di praticare una esatta se pur estensiva
retorica del gesto e dell’espressione del volto, in accordo sia con il concetto di “decorum” e della “belle
nature” proprio del loro tempo, che con l’interesse alla rappresentazione delle emozioni. Un tipo di analisi
semiscientifica che non aggiungeva nulla di nuovo alla teoria umanistica dell’arte. Un’osservazione di
Addison: “Gli studiosi, per mostrare ai lettori la loro sapienza, tendono a prendere la materia per le loro
analogie e allusioni dalle scienze in cui sono maestri, anche quando trattano di tutt’altro argomento”.
Un altro aspetto assai più significativo della filosofia cartesiana è il concetto epistemologico
fondamentale che la mente, la quale conosce se stessa con una maggiore certezza di quanto non conosca
il mondo esterno, arriva alla verità attraverso il processo valido in sé delle proprie deduzioni, mediante
l’ordinato progresso da una proposizione chiara e acquisita ad un’altra