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Kantor parla di imballaggio un’azione, una funzione, un processo legato all’oggetto. Imballare,
impacchettare l’azione nasconde il bisogno, molto umano, di conservare, proteggere, isolare, far
durare, trasmettere. L’imballaggio evita di trasformare l’oggetto in feticcio e ne conserva
l’inconoscibilità e l’impenetrabilità. È un modo di proclamare l’inaccessibilità dell’essere e, al
contempo, di conservarne il mistero. Si tratta dell’imballaggio delle potenzialità metafisiche di cui
parla nel Manifesto degli imballaggi (1962). Cifra, questa, del successivo lavoro kantiano.
Idea della vita e dell’arte come viaggio senza fine. Questo tema si lega con quello dell’imballaggio:
elementi come zaini, valige, balle di stoffa riempiono al scena.
L’imballaggio si fa una sorta di rito, di iniziazione che conserva un po’ della magia del gioco dei
bambini.
Contemporaneo alla sperimentazione dell’imballaggio è l’happening, tale tipo di genere di
performance era in voca tra gli anni Sessanta-Settanta, ma l’approccio kantoniano risente della
poetica degli oggetti appena delineata.
Se significato esiste negli spettacoli in cui il tema dell’imballaggio è determinante, esso si identifica
col processo stesso dell’azione.
Happening e imballaggio sono parenti stretti, anzi congiunti. Sono entrambi finalizzati alla
medesima posizione assunta nei confronti della vita quotidiana: l’artista deve sottrarre la
dimensione della funzionalità e dello scopo, ridare autonomia alla materia, trasformare la sua
gravità in un’opera d’arte, creare legami invisibili fra le cose, fra gli attori e la realtà, svelare le
infinite possibilità, teatralizzare l’inanimato.
5.3 Il teatro come album fotografico. L’arte dell’attore
Per Kantor la società dei consumi ha disarmato l’attore, addomesticato alla e leggi e alle
convenzioni teatrali. Affetto da una sorta di nomadismo psichico che lo rende estraneo a ciò che di
normativo esiste nella società, è di conseguenza eternamente inappagato, insoddisfatto di tutto ciò
che esiste nella realtà, afflitto da perenne nostalgia, in viaggio, attraverso un mondo indifferente,
sempre alla ricerca di un porto.
Queste riflessioni hanno a che fare con le pratiche dell’imballaggio e dell’happening. L’attore
coinvolto in simili esperienze rimane sé stesso, senza travestimenti né trucchi, libero e liberato,
autonomo, immerso in una sfera di comportamento artistico gratuito, svincolato da ogni
demarcazione convenzionale.
L’attore kantoriano rinuncia a trasformare la realtà quotidiana. Semplicemente, la abbraccia, la
prende per quello che è. L’attore si trova a operare con l’object trouvé, sia esso l’oggetto pronto, il
personaggio fatto e finito, il testo. L’artista è chiamato a scardinare il tran-tran quotidiano. È
ancora, è dagli spazi dell’anonimato, cioè della morte, che si staglia l’arte dell’attore attori
marionette, attori “morti”. L’identificazione fra morte e vita è il terreno su cui si impianta la necessità
dell’attore-oggetto, fisso, immobile, interscambiabile con il non-vivente, esso stesso ricondotto a
manichino. L’attore è come un fotogramma fisso.
All’attore è richiesta una operazione creativa a ritroso: non un processo di elevazione ascetica, di
riconoscimento dello spirituale nella materia come ha fatto Grotowski, bensì di arretramento verso
al condizione reificata, di fissità, di immobilità dell’oggetto.
Kantor, con l’idea della marionetta, si discosta dalla visione di Craig della super marionetta. L’idea
di eliminare l’attore vivo sostituendolo con una marionetta o una macchina o un manichino non è
condivisa da Kantor che supera tale idea in virtù della poetica della “realtà pronta” che mette in
moto l’immaginazione. Kantor si assume la responsabilità di riabilitare il manichino o la statua di
cera non come sostituto dell’attore bensì come “modello che incarna e trasmette un sentimento
profondo della morte e della condizione dei morti”. Il manichino è assunto a paradigma etico ed
estetico.
Il manichino non è semplicemente il doppio, l’immagine retificata e depotenziata dell’uomo ma
l’oggettivazione della stessa legge del divenire in contrapposizione dialettica di pieno e vuoto, di
vita e non vita, di luce e di tenebra, di adesione e di ribellione limite, mancanza, incompiutezza. Il
non essere è insediato nel cuore stesso di ciò che chiamiamo vita. La maschera mortuaria del
manichino è l’altra faccia dell’attore vivo: li connette alla vita stessa.
Interessante rivisitazione del tema del manichino che mette in scena una situazione di doppio sia
nella trame che nella forma della rappresentazione è Classe morta, uno dei capolavori del
Novecento teatrale. In esso la rappresentazione è abitata tanto da attori vivi quanto da manichini
che li accompagnano e rappresentano il loro doppio. Si mette in scena l’inglorioso passaggio dal
mondo dei vivi al mondo dei morti.
Anche il Ritorno di Odisseo è un allestimento emblematico: lo spettacolo mette in scena un trauma
metafisico, la conversione della morte in vita, possibile perché la vita è morte. Attore vivo e
manichino sono nella scena kantoriana due tessere speculari.
Tra le conseguenze poetiche di queste premesse c’è la reificazione della recitazione dell’attore:
spazio che rende il distacco insormontabile tra attore e spettatore. Il manichino si sdoppia
nell’attore, lo contagia con la sua fissità, il flusso vitale di passaggio dalla vita alla morte si
sclerotizza e si ipostatizza nella contrapposizione visiva e teatrale del manichino e dell’attore. Si
arriva a un’operazione di erosione della contrapposizione fra il vivente e il non vivente: l’attore si fa
oggetto, l’oggetto si fa attore bio-oggetto: pone gli attori in una condizione di limitazione sia fisica
sia psicologica
Usi di molte macchine molto surreali e anche complesse che, secondo Kantor, hanno a che fare
con la morte: la evocano, la procurano, schiacciano, torturano, uccidono. Hanno la possibilità di
mostrare e far vedere il reale, e in particolare, la contraddittoria condizione del vivere come
compresenza di vita e di morte. Contraddizione che nel teatro di Kantor diventa metafisica.
La metafisicità del divenire ha una sua cifra artistica nel grottesco, una delle chiavi di accesso alla
produzione kantoriana.
5.4 Scolpire materia teatrale
Il problema dello spazio assilla Kantor. Lo spazio ai suoi occhi non è un vuoto da riempire ma
piuttosto un volume definito dai corpi, dagli oggetti, dalle cose.
Lo spazio diventa concretizzazione simbolica di un mondo personale elevato a universale: i suoi
sogni, i suoi ricordi, la sua infanzia, la sua angoscia, la sua ironia, sono immessi nella corrente
dello scambio simbolico con gli attori e con gli spettatori.
Kantor osserva la scena come fosse un quadro, dove lui stesso si rispecchia
5.5 Il teatro, come una piramide
Il teatro kantoriano non intende essere rappresentativo né interpretativo di un testo. Eliminato ogni
sguardo prospettico, Kantor ama piuttosto muoversi in uno spazio abitato dal senso dello scacco,
del limite, anche nella sua estrema espressione che è la morte.
In nome della reversibilità il teatro, opera d’arte per sua natura vivente, diviene nelle sue mani un
grande monumento funebre, luogo di nascondimento e di rivelazione, metaforica piramide, alla cui
ombra la vita, che sa di essere sconfitta, cerca un riparo.
6. La regia come lavoro sulla luce. Robert Wilson
6.1 La forma della scena fra analisi e ascesi
Robert Wilson è ormai un fondamentale punto di riferimento della vicenda teatrale contemporanea.
L’originale sintesi fra la tradizione occidentale del grande attore e quella orientale del Teatro No, la
ricerca di un teatro totale in cui parola, danza opera, arti visive, performances, cinema, canto,
vaudeville si sintetizzano in un’unità di segni e di senso, sono state riassunte nella definizione del
teatro wilsoniano come teatro d’immagine.
Wilson conosce il teatro attraverso la dolorosa esperienza della terapia, per curare una seria forma
del linguaggio che lo disturba.
Nonostante gli studi di economia, che poi abbandonerà, trova il tempo per organizzare laboratori di
teatro-terapia per bambini con menomazioni cerebrali e deficit mentali.
Nel 1962 decide di trasferirsi a New York per coltivare la sua vocazione artistica. Studia design,
architettura, pittura e conosce le punte dell’avanguardia coreutica americana.
La via wilsoniana al teatro passa quindi attraverso la psicoterapia e la formazione artistica. Lo
affascina la danza. L’impegno artistico continua a intrecciarsi con l’attività didattica e terapeutica
nella quale Wilson si distingue per la capacità di creare nei gruppi un’atmosfera sciolta da tensioni,
atta a liberare l’energia attraverso il movimento, secondo un metodo che sarà costante nei futuri
procedimenti artistici.
L’iperattivismo lo porta a una crisi esistenziale che lo spinge a tentare il suicidio ma anche a
ripensare alla sua vocazione e a riconoscere la necessità del teatro nell’insufficienza della pittura a
contenere l’immaginario.
A New York affitta un locale che diventa luogo di ritrovo di artisti, pittori, artigiani, uomini di affari,
casalinghe, portatori di handicap: un’umanità variegata , accomunata dalla necessità di esprimersi
attraverso il canale della corporeità la Byrd Hoffmann School of Byrds organizza workshop di
danza, teatro e arti affini che confluiscono nelle rappresentazioni del giovedì sera. Wilson fa
l’assistente sociale, senza soluzione di continuità fra arte, terapia e teatro.
Wilson va sperimentando un linguaggio complesso, sinestetico, dove prelievi dell’universo visivo,
cinematografico, musicale, si fondono fra loro, insieme alle esperienze degli artisti di varie
estrazioni che compongono il gruppo.
La motivazione psicotecnica e l’ispirazione artistica, convergono intorno al centro di interesse
wilsoniano: la percezione.
Il teatro si configura ai suoi occhi come viaggio. Seguendo il criterio di una suddivisione non solo
cronologica ma anche metodologica , possiamo segnalare quattro fasi:
1. La fase delle Silent Operas, di cui il problema centrale è la sperimentazione di nuove
possibilità percettive.
2. La seconda fase, caratterizzata da opere limitatamente verbali, anche con attori
professionisti, e con un’originale ricerca del linguaggio. L’a