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L’INTERRUZIONE
Vi è anche la possibilità di un’interruzione e di una proroga, quando in pendenza del termine breve
o lungo di impugnazione si verifichi un evento interruttivo.
*Domanda d’esame: collegamento con INTERRUZIONE.
E’ possibile che un evento interruttivo si verifichi in pendenza dei termini di interruzione
dell’impugnazione. Questa eventualità è disciplinata dall’art. 328 che distingue a seconda che
l’evento interruttivo si verifichi in pendenza del termine breve o del termine lungo.
Il 1° comma dice che se durante la decorrenza del termine BREVE sopravviene alcuno degli
eventi previsti nell’art. 299 (relativi alla parte), il termine stesso è interrotto.
Interruzione significa che il termine si azzera e ricomincia a decorrere, il nuovo termine decorre dal
giorno in cui la notificazione della sentenza è rinnovata.
Il lettore attento nota subito che l’art. 328 annota gli eventi del 299 e non anche quelli disciplinati
dall’art. 301 (cioè relativi al difensore). Per questa lacuna l’art. 328 è stato dichiarato
incostituzionale nella parte in cui non prevede gli eventi relativi al difensore disciplinati dall’art. 301.
Questo effetto dell’interruzione del termine di impugnazione, si verifica quindi anche in caso di
morte del difensore. Questo se si tratta del termine BREVE.
Per quanto riguarda il termine LUNGO, originariamente era di un anno dalla pubblicazione della
sentenza. Riguardo a questo termine l’art. 328 prevedeva che se dopo sei mesi dalla
pubblicazione della sentenza si verifica uno degli eventi disciplinati dall’art. 299, il termine fosse
prorogato a tutte le parti di altri sei mesi dal giorno dell’evento. Il 328 divideva quindi il termine
annuale in due periodi di 6 mesi. Se l’evento interruttivo accadeva nei primi 6 mesi era irrilevante.
Se invece si verificava nei secondi 6 mesi il termine era prorogato a tutte le parti di altri 6 mesi.
Quando la riforma del 2009 ha portato il termine LUNGO a 6 mesi (e non più a un anno) il
legislatore si è dimenticato di adeguare l’art. 328 che si riferisce ancora al termine annuale. Questa
disposizione è inapplicabile al termine semestrale di impugnazione, perché dopo sei mesi la
sentenza è passata in giudicato ormai.
Sono possibili due interpretazioni estreme a riguardo:
1. Nel senso dell’abrogazione di questa norma, che non è applicabile perché dopo sei mesi la
sentenza è passata in giudicato.
2. La ratio della norma era quella di far sì che le parti potessero avere a disposizione almeno sei
mesi puliti. Ogni qualvolta, in pendenza del termine oggi semestrale, si verifica un evento
interruttivo in questi sei mesi si verifica ancora la proroga del 328. Considerare i sei mesi che oggi
compongo il termine come se fossero sempre i secondi sei mesi interpretare come se la proroga si
verifichi comunque.
Però qui sarebbe opportuno un intervento del legislatore perché l’interpretazione è difficilmente
praticabile.
Sempre con riguardo alle vicende estintive del potere di impugnazione, che si perde con
conseguente inammissibilità dell’impugnazione. Si perde per scadenza del termine o per
acquiescenza.
L’ACQUIESCENZA
E’ una rinuncia proveniente dalla parte legittimata a impugnare. Questa acquiescenza alla
sentenza può essere espressa o tacita.
ESPRESSA:
E’ una dichiarazione, proveniente dalla parte che ha il potere di impugnare, di accettazione della
sentenza.
TACITA:
E’ quella che risulta dal compimento di atti incompatibili con la volontà di impugnare.
Si è discusso se tra questi atti incompatibili vi possa essere l’esecuzione spontanea della
sentenza. Se la parte soccombente da esecuzione alla sentenza questo comportamento può
essere considerato come acquiescenza tacita?
Tradizionalmente si diceva di sì. La parte che ottempera dimostra la propria volontà di accettare la
sentenza.
Ciò è cambiato dopo la revisione del ‘90 con l’introduzione della regola della provvisoria
esecutività della sentenza di primo grado. L’esecuzione spontanea denota la volontà di accettare
la sentenza e dunque la rinuncia all’impugnazione. Quando invece la sent è provvisoriamente
esecutiva, l’esecuzione spontanea potrebbe anche essere dovuta alla volontà del debitore, del
soccombente, di non subire le spese di esecuzione. Quindi quest’ultimo non vuole accettare ma
esegue perché sa che se poi il creditore vittorioso inizia l’esecuzione, questa comporta ulteriori
spese; quindi esegue solo perché non vuole subire l’esecuzione ma non vuole accettare la
sentenza.
QUINDI: di fronte a una sentenza non esecutiva l’esecuzione spontanea può essere
considerato un comportamento inequivocabilmente significativo della rinuncia all’impugnazione .
Quando invece la sentenza è provvisoriamente esecutiva l’esecuzione spontanea è un
comportamento ambiguo , non traspare univocamente la volontà di rinunciare
all’impugnazione .
Sempre nell’ambito dell’acquiescenza tacita vi è un ipotesi espressamente disciplinata dal 2°
comma dell’art. 329 che noi chiamiamo acquiescenza TACITA QUALIFICATA o acquiescenza
IMPROPRIA. Si individua l’ipotesi a norma del quale l’impugnazione parziale porta acquiescenza
alle parti della sentenza non impugnata.
Acquiescenza tacita espressamente prevista dalla legge, perciò qualificata.
Nell’ambito della acquiescenza tacita, la legge dedica attenzione all’impugnazione parziale.
Si dice che l’impugnazione di una o alcune soltanto delle parti di cui si compone la sentenza,
comporta acquiescenza alle parti non impugnate. Se la parte che potrebbe impugnare tutta la
sentenza ne impugna solo alcune parti, ciò è dovuto alla circostanza che non vuole impugnarne
delle altre. Si perde il potere di impugnazione con riguardo alle altre parti anche se non è decorso il
termine di impugnazione. In questo caso si tratta di una presunzione iuris et iure, non è
ammessa la prova contraria, non è ammessa alcuna indagine in concreto circa la reale intenzione
della parte e si ritengono inefficaci le proteste o riserve formulate all’atto dell’impugnazione
parziale.
Nel caso del 1 comma si parla di acquiescenza propria perché è un effetto che presuppone
l’effettiva volontà della parte di rinunciare all’impugnazione.
il 2° comma del 329 è difficile da interpretare,perché è una norma che presuppone il concetto di
parte di sentenza senza definirlo. Il problema è: ma che significa parte di sentenza?
PROBLA MOLTO IMPORTANTE.
Prima si parlava di CAPO di sentenza e non PARTE di sentenza. Il codice del ‘40 pensò bene di
eliminare il problema omettendo il riferimento al capo. Mise parte. Variazione puramente
terminologica, c’è stato un dibattito sulla parola “PARTE” di sentenza.
Ci sono due tesi estreme e una interpretativa:
1. Prima tesi, tradizionale. Sostenuta da Chiovenda e da CONSOLO.
La sentenza si può scomporre in tante parti, o capi, quante sono le domande su cui abbia
pronunciato. Con conseguenza che l’istituto dell’ACQUIESCENZA PARZIALE può operare solo in
presenza di giudizi cumulativi. Scomposizione orizzontale. La scomposizione è nel dispositivo.
Questo significa che l’art. 329 potrebbe trovare applicazione solo con riguardo alle sentenze che
abbiano deciso su più domande, che abbiano definito ad esempio processi cumulati.
Qui la parte soccombente può impugnare tutta la sentenza o solo una parte della sentenza che ha
deciso su una domanda.
2. Seconda tesi. Carnelutti.
La sentenza non è scomponibile solo in tante parti quante sono le domande (come detto da
Chiovenda), ma ci sono tante parti quante sono le questioni che la sentenza abbia affrontato e
risolto nella motivazione per decidere sulla domanda.
Scomposizione verticale. La scomposizione è nella motivazione.
Ci sono tanti capi quante sono le questioni affrontate dal giudice per stabilire sulla domanda.
Salvo poi cosa significhi il termine “Questioni”: ci sono difatti idee più ampie e idee più ristrette a
riguardo.
Per accogliere la domanda il giudice ha dovuto risolvere una serie di questioni.
Per esempio una relativa all’illecito e una alla prescrizione. Entrambe le assumiamo risolte in
senso sfavorevole al convenuto. Non c’è illecito e non c’è la prescrizione, ha risolto entrambe le
questioni.
Se il convenuto, però, impugna la sentenza che gli ha dato torto dicendo soltanto che l’illecito non
c’era, si può dire che il convenuto abbia prestato acquiescenza alla sentenza nella parte in cui
abbia rigettato l’eccezione di prescrizione.
Il giudice d’appello, pertanto, non potrà occuparsi della questione di prescrizione sulla quale si sarà
formato un GIUDICATO INTERNO. Non è stata impugnata una parte della sentenza.
La parte che impugna la sentenza ha l’onere di indicare quali sono le questioni che intende fare
oggetto di impugnazione, perché sulla parte della motivazione della sentenza che non viene
impugnata si forma il giudicato.
È evidente che in questa seconda teoria “parte di sentenza” non è soltanto la decisione di
domande ma è la soluzione di questioni. Questa tesi da un lato allarga l’applicazione del 329, per
altro verso impone un onere di diligenza a chi impugna; chi impugna non si deve limitare ad
individuare la domanda rispetto alla quale è risultato soccombente ma deve anche specificare le
questioni che intende fare oggetto dell’impugnazione altrimenti si applica l’art. 329.
Tra queste due tesi estreme vi sono tesi intermedie.
Le tesi intermedie dicono che l’art 329 non è una norma autosufficiente. Il concetto di parte di
sentenza non può essere sempre lo stesso, bisogna fare una distinzione.
1° distinzione: tra sentenze definitive e non definitive, in particolare non definitive su questioni.
Sono quasi tutti d’accordo, alcuni dicono che quando parliamo di sent non definitive su questioni
questa sentenza si può scomporre in tante parti quante sono le questioni.
Quindi “capo” si identifica con la questione. Questo però è un correttivo solo apparente, la
scomposizione è orizzontale.
2° distinzione: meno condivisa che riguarda il tipo di impugnazione. Vi è una tesi secondo la
quale la nozione di “parte di sentenza” sarebbe diversa a seconda del tipo di impugnazione.
Nell’appello, in cui si chiede al giudice di pronunciare una nuova sentenza sulla fondatezza della