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AZIONE COLLETTIVA/MOVIMENTI/CONFLITTI
Breve intro
La ribellione rappresenta un tema di particolare interesse soprattutto nel momento in cui
diventano oggetto di contesa politica l’accaparramento brutale delle simpatie di quella parte
“debole” dell’elettorato che è costituita in particolar modo dai giovani. Giovani che in molti
casi rappresentano l’ago della bilancia degli schieramenti politici
Decennio di transizione ‘65 – ‘75
L’Europa occidentale rimase coinvolta in una spirale di azioni di protesta. Difficile
l’identificazione delle motivazioni e degli attori sociali che davano vita a questi fenomeni di
massa, tanto erano veloci i cambiamenti, le rivendicazioni ed i soggetti coinvolti.
L’Italia, che viveva una situazione politica instabile, rimase a lungo coinvolta nell’ondata di
mobilitazione.
L’impiego dell’azione collettiva era promosso contro le istituzioni e le azioni erano il frutto di
un processo di mobilitazione che non accettava mediatori ma si avvaleva della propria forza.
In ultimo, era solito l’utilizzo di strumenti perturbativi e, in alcuni casi, violenti.
La spinta propulsiva alle azioni di protesta partì dagli studenti che estesero il campo d’azione
nei diversi settori sociali interni ed internazionali e nelle lotte della classe operaia.
Ma nel ’69 il ciclo della protesta universitaria si era affievolito e il continuo della protesta
appariva indotta e legata alle problematiche di altri gruppi di protesta, inoltre gli strumenti
adottati dagli studenti delle scuole superiori contribuirono all’escalation della violenza che
sfocerà nelle azioni terroristiche del ’70.
Benché la forza organizzativa dell’ondata di scioperi fosse prevalentemente dovuta alla
crescente unificazione tra le principali confederazioni sindacali, la sua carica perturbativa
poteva anche essere riportata alla competizione esistente fra esse.
Le contestazioni nate dapprima nelle scuole si riversarono nelle fabbriche e nelle piazze, dove
persero ben presto la loro connotazione originaria per trasformarsi in una esplosione di
violenza che, negli anni ’70, permise al terrorismo di trovare terreno fertile.
Dallo scontro sociale allo scontro politico durante gli anni ‘70
Le proteste degli anni ’70 scaturirono dalla grave crisi economica e politica del paese, che
vedeva, da un lato, un forte aumento della disoccupazione, dall’altro, l’incapacità del governo
di attuare disegni d’intervento.
Emarginazione e violenza sono le caratteristiche del comportamento sociale degli anni ’70.
Emarginazione è l’impossibilità di soddisfare i bisogni che la società capitalista
indica come fondamentali.
Già nel ‘75/’76 le conquiste della fine degli anni ’60 non sono più avvertite come tali perché
vengono a mancare punti di riferimento istituzionali, quali i sindacati, che a lungo avevano
svolto il ruolo di portavoce e veicolo delle istanze di rinnovamento.
Tra i punti istituzionali che perdono credibilità è presente il P.C.I. che come soluzione ed
antidoto alla crisi che grava sul paese fa una scelta strategica che, anziché avere ad oggetto
le istanze degli emarginati, del sottoproletariato, dei disoccupati, si indirizza verso la filosofia
dell’austerità che, se da un lato poteva costituire l’occasione storica per trasformare in senso
socialista la società, dall’altro, escludeva dal discorso proprio le classi emarginate e le
categorie non protette le quali percepivano la manovra come contraria alle loro esigenze.
La nuova sinistra si frantuma e la risposta data è quella della “violenza diffusa”.
La consapevolezza del fallimento della strategia della violenza, la maggior partecipazione
sociale alle istituzioni, hanno contribuito a rigenerare una situazione economica sociale che ha
visto prevalere la logica della costruzione su quella della destrutturazione.
Il ruolo della sociologia
La fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 hanno visto emergere e prendere consistenza
gruppi sociali cosiddetti “devianti”.
La rivolta scoppiata nel sistema educativo, ha finito per coinvolgere gli operai che ponevano
in risalto un altro problema: il grande squilibrio tra dimensioni culturali e dimensioni reali della
società.
a) I gruppi giovanili devianti non politicizzati vengono ricondotti ad una posizione
narcisistica, quindi di immaturità, proprio per l’incapacità dei componenti di relazionarsi
con quelle che sono le fonti di potere, ma anche per la mancanza di costituzioni
ideologiche da perseguire.
b) Le spinte partite delle élites dei paesi in via di sviluppo, con le quali non si ha mai avuto
un effettivo miglioramento: sono state caratterizzate da una semplice destituzione della
classe governativa e dal ripristino di situazioni di privilegio di pochi.
c) Secondo Aron: “la crescita tecnologica e il divario sempre maggiore fra gli strati sociali
determinerebbe, nel movimento studentesco, l’esigenza di procedere verso spinte
innovative tendenti alla sostituzione dell’ordine precostituito”. Quindi il cambiamento
sociale, più che ideologico, è frutto del movimento delle élites e delle trasformazioni
che le stesse operano.
Sartre ha concepito la contestazione come “momento di scambio di valori e di esperienze”
Lafebre individua nell’uso distorto della ragione la causa principale delle contraddizioni
sociali: il sentimento di impotenza e l’incapacità di reagire alle pressioni del sistema,
diventano tanto più pesanti quanto più complesse sono le pressioni che la società esercita. È
in queste occasioni che si sviluppano momenti di rivolta per affermare nuove “verità”.
Marcuse afferma che: la reazione violenta dei gruppi giovanili è la conseguenza del rifiuto del
concetto di autorità e responsabilizzazione richiesta dalla sempre maggiore pressione
esercitata dal processo di socializzazione.
AZIONI COLLETTIVE E MOVIMENTI DI RIVOLTA
La scuola di Chicago negli anni ’20, con lo sviluppo della teoria del collective behavior, segna
un momento di innovazione nello studio dei fenomeni sociali collettivi. Il comportamento
collettivo si concretizza per la presenza di condotte non integrate nel sistema.
Parsons considera il comportamento non integrato come disturbo nel processo di
istituzionalizzazione delle norme.
Merton afferma che è necessario distinguere tra comportamento deviante e comportamento
non conforme: “il deviante agisce contro le norme in vista di vantaggi personali; il non
conformista rifiuta invece le norme perché non ne accetta la legittimazione”
Un altro strumento di analisi dei processi collettivi è costituito dal “resource management”
che concepisce l’azione sociale “…come creazione, consumo, scambio, trasferimento o
riallocazione di risorse nei gruppi e nelle diverse aree del sociale”.
L’azione collettiva è un fenomeno che si caratterizza per la presenza di condotte conflittuali
all’interno del sistema sociale, indirizzate verso il mutamento delle norme istituzionalizzate.
AZIONE CONFLITTUALE: azione collettiva che vede coinvolti due gruppi titolari di interessi
contrapposti, i quali mirano all’affermazione delle proprie esigenze (rivendicativa o politica).
MOVIMENTO SOCIALE: la condotta collettiva che, oltre a vedere coinvolti i due gruppi
contrapposti, deborda le regole e i confini predisposti dalle norme e dal sistema, minando le
basi precostituite dei rapporti di classe.
Originariamente l’azione collettiva venne percepita come espressione irrazionale e
contagiosa. Questo tipo di spiegazione venne superato da altre teorie, tra le quali quella di
Eckstein, in cui individuava 5 fattori per la spiegazione del fenomeno:
1) Fattori intellettuali: secondo i quali i movimenti sociali trarrebbero origine da
contrapposizioni di pensiero
2) Fattori economici: disuguaglianza e squilibri nella distribuzione delle ricchezze
3) Fattori sociali: mancanza di norme di riferimento
4) Fattori politici: contrapposizione tra esigenze prospettate e risposta dei gruppi politici
5) Fattori di mutamento: rapidi, lenti, squilibrati…
Melucci cerca di individuare i criteri per una definizione sociologica del problema attraverso
una distinzione tra STRUTTURA e MUTAMENTO ossia tra sincronico e diacronico.
Melucci afferma che il mutamento dipende dalla struttura, cioè da cause endogene e, quindi,
nell’esigenza di controllare il conflitto. “Ciò non significa che il mutamento non abbia anche
cause esterne, esse sono sempre mediate dalle esigenze interne del sistema. I fattori esterni
influenzano il sistema solo nella misura in cui lo costringono ad adattarsi per mantenere
l’assetto dei rapporti di classe”.
Il conflitto di classe nasce nel momento in cui viene meno la relazione tra i gruppi coinvolti nel
processo produttivo e il riconoscimento delle reciproche posizioni individuate nel rapporto tra i
concetti di “produzione-riconoscimento-appropriazione-destinazione”.
Quali sono i fattori scatenanti dall’azione collettiva?
Le teorie psico-sociologiche hanno puntato sul rapporto frustrazione-aggressione
riconoscendo nella frustrazione la causa principale del comportamento aggressivo.
C’è da dire però che ad una situazione di frustrazione tanto l’individuo, quanto il gruppo,
possono reagire oltre che con azioni collettive aggressive, anche con atteggiamenti
depressivi, e questo dualismo deriva anche dalla individuazione o meno dell’agente causa
della frustrazione.
Melucci fissa, pertanto, delle condizioni indispensabili affinché il nesso causale frustrazione-
aggressione possa trovare valida applicazione, e cioè:
a) Identità del gruppo
b) Identificazione dell’avversario
c) Qualità del rapporto con l’oggetto atteso di cui si è privati
Inoltre, definisce la mobilitazione come “il processo attraverso cui un attore collettivo
raccoglie e focalizza le proprie risorse per il perseguimento di un obiettivo condiviso”
Secondo Kornhauser, l’interesse comune che lega questi soggetti movendoli verso determinati
obiettivi, emerge dalla posizione che gli stessi occupano, spingendoli verso la stessa strada.
Secondo Olson, questo interesse ha una incidenza diversa su ogni soggetto, in relazione alla
disponibilità dello stesso a subire un “costo”.
A questi gruppi si aggregano soggetti sociali alla ricerca di una propria identità da definire, e
che, pur contribuendo ad un rafforzamento del movimento, non sono partecipi della spinta
alla mobilitazione.
All’interno di questa realtà si inserisce il discorso della leadership: il leader è l’individuo