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E’ necessario capire prima di tutto tracciare un profilo storico di quelle che sono le
modifiche che l’istituto ha subito dal punto di vista legislativo. Il codice civile del 1865, pur
dando la più ampia libertà alle parti, nulla prevedeva per quanto riguardasse la fase
precedente alla stipulazione del contratto e vi era solo la norma dell’art. 1151,
corrispondente all’odierno 2043, che si limitava a sanzionare le ipotesi più gravi di
scorrettezza internazionale. L’istituto si affaccia con il codice civile del 1942, con questo il
legislatore attribuisce rilevanza non solo all’interesse all’adempimento ma anche
all’interesse a non essere coinvolto in trattative inutili, dispendiose o in contratti invalidi o
originariamente inefficaci. Dando rilievo anche a questi aspetti si introduce, dunque, anche
l’istituto della responsabilità precontrattuale mediante l’elaborazione degli articoli 1337 e
1338. In particolare, l’art. 1337 statuisce che “le parti nello svolgimento delle trattative
nella formazione del contratto devono comportarsi secondo buona fede”. Questa norma
consta solo della parte dispositiva senza contemplare sanzioni o minacce che
l’ordinamento potrebbe predisporre in caso di sua inosservanza. Ci si posero così degli
interrogativi sulla rilevanza della buona fede, in particolar modo, se attenesse solo
all’ipotesi in cui il contratto non sia concluso o anche alle ipotesi in cui questi, pur se
concluso, sia viziato da inefficacia o illiceità. Furono così, per risolvere la questione,
elaborate una serie di teorie:
• Secondo una prima teoria la norma 1337 andrebbe letta con la 1338 alla luce della
quale, “La parte che conosca una causa di invalidità del contratto e che non la
comunichi alla controparte è tenuta al risarcimento del danno per aver fatto
affidamento senza sua colpa sulla conclusione di un contratto valido”. Di
conseguenza il principio della buona fede assumerebbe rilevanza solo se il
contratto sia concluso ma invalido;
• Accanto a questa teoria una seconda elaborazione giurisprudenziale afferma che il
1337 assumerebbe rilievo anche nell’ipotesi in cui la stipulazione del contratto
sarebbe impedita dal recesso ingiustificato dalle trattative contrattuali.
Entrambe queste elaborazioni giurisprudenziali sono state però superate dalla
giurisprudenza dominante cui ha aderito anche una dottrina autorevole. Secondo questa
impostazione recente ciò che assume rilevanza non è più tanto la conclusione di un
contratto invalido o il recesso dalle trattative ma la considerazione del principio come una
clausola di diritto generale: quindi varrebbe sia nell’ipotesi in cui si è in presenza di un
contratto invalido sia in presenza del recesso dalle trattative contrattuali sia di un contratto
concluso a condizioni diverse da quelle stabilite. Quindi è evidente che il principio assume
rilievo per tante ipotesi e la differenza deve essere ravvisata solo sul profilo del quantum
del risarcimento dovuto nell’ipotesi di non conclusione del contratto per recesso
dalle trattative. Risarcimento che, solo in questo caso, coincide con l’interesse in
negativo: Il risarcimento, cioè, deve essere commisurato alle esperienze sostenute da
chi ha partecipato alle trattative. In tutti gli altri casi, laddove fosse chiesto il risarcimento
del danno, il limite dell’interesse in negativo non sarà opponibile.
Una volta chiarito questo aspetto è necessario qualificare la responsabilità.
La giurisprudenza dominante ritiene si sia in presenza di una responsabilità
extracontrattuale dato che consegue alla violazione di una regola di condotta posta
a tutela dell’interesse primario al corretto svolgimento delle trattative. Infatti,
secondo la giurisprudenza, tra le parti non vi sarebbe un rapporto contrattuale o una
obbligazione ben definita tra soggetti ben determinati, anzi, ciascuna è libera di concludere
un qualsivoglia contratto; E, invece, per aversi responsabilità di natura contrattuale
sarebbe necessaria una fattispecie più precisa.
Accanto a questa teoria c’è chi sostiene che si sia davanti ad una responsabilità di
natura contrattuale, facendo riferimento al tenore letterale del 1337, “le parti nello
svolgimento delle trattative del contratto devono comportarsi secondo buonafede”.
Quest’orientamento facendo leva sul fatto che la disposizione utilizza il concetto di “parte”
ravvisa automaticamente l’esistenza di un rapporto “obbligatorio” contrattuale. La
responsabilità non sarebbe violazione della regola di condotta posta a tutela
dell’interesse primario per il corretto svolgimento delle trattative ma sarebbe
conseguenza della violazione del vincolo che sorge tra le parti a seguito del
contratto qualificato intercorrente tra le stesse e l’amministrazione.
Possibilità o impossibilità dell’ estensione della responsabilità
all’attività contrattuale della P.A.
La questione non è mai stata pacifica, infatti, nonostante il codice civile del 1942 ponesse
espressamente il divieto, sia a carico del contraente pubblico che privato, di comportarsi
scorrettamente nel corso delle trattative, dottrina e giurisprudenza non ammettevano
questa responsabilità sulla base di due postulati.
Il primo postulato di ordine sostanziale affermava che:
L’attività della P.A, finalizzata alla formazione del contratto, non poteva essere
ricondotta allo schema civilistico delle trattative a causa della caratteristica
del procedimento di scelta del contraente da parte della P.A, caratterizzato,
appunto, dalla c.dd evidenza pubblica;
Si affermava poi che la PA non avrebbe potuto commettere illeciti dato che, il
rispetto del principio di legalità, del buon andamento e dell’imparzialità rendevano
superflua la disposizione tesa a ribadire la necessaria presenza della buona fede
nelle trattative contrattuali;
Ed infine si riteneva che il rapporto tra la P.A e il privato (che partecipava ad una
gara) fosse di natura pubblicistica, per cui il privato (che vi partecipava) non era
titolare di alcun diritto ma solo di un interesse legittimo che, almeno per l’epoca,
non era suscettibile di tutela risarcitoria.
Il secondo postulato invece, di ordine processuale, asseriva che:
Il giudice ordinario non potesse estendere il proprio sindacato sulla
discrezionalità amministrativa. Verificare che vi fosse o meno una giusta causa di
recesso significava sottoporre l’operato della PA ad un controllo sotto il profilo del
merito, andando, dunque, a sindacare il modo d’esercizio del potere amministrativo.
Questa impostazione viene in parte superata con le sentenza della Cassazione civile del
1961 num. 1675 con la quale si estende la portata del concetto di responsabilità
precontrattuale evidenziando come esso possa tanto per l’operatore privato quanto per
l’operatore pubblico (superando quindi l’ostacolo della preclusione processuale). Si
asserisce, appunto, che in queste ipotesi, oggetto del sindacato del giudice ordinario
non è esteso all’ operato della PA quale “corretto amministratore” ma come
“corretto contraente”. In questo modo la discrezionalità amministrativa non costituiva
alcun limite all’accertamento giurisdizionale: non è più, dunque, la discrezionalità
amministrativa ad essere un limite al principio della buona fede ma è il principio di buona
fede che diviene un limite alla discrezionalità amministrativa.
Questa pronuncia, nonostante avesse un’enorme portata innovativa, era limitata alle
ipotesi in cui la PA agisse in “iure privatorum”, cioè, alle sole ipotesi in cui procedesse
all’affidamento degli appalti mediante il sistema della trattativa privata. Il problema
restava aperto per tutte quelle ipotesi in cui la PA provvedesse all’affidamento degli appalti
mediante evidenza pubblica esponendo le ragioni di pubblico interesse che la spingono a
contrattare e quindi a scegliere un determinato contraente. Questo è un procedimento
amministrativo attraverso il quale si forma la volontà della P.A in materia contrattuale e la
cui finalità, in passato, era quella di tutelare l’interesse della P.A Affinché concludesse
contratti alle condizioni economiche più convenienti, l’interesse del privato invece non era
preso in considerazione: riceveva solo tutela in via indiretta e solo quando venisse violato
l’obbligo della P.A di concludere un contratto alle condizioni più convenienti.
Con il recepimento della normativa comunitaria questa impostazione muta
radicalmente: l’obiettivo primario dell’evidenza pubblica non è più finanziario, cioè
di contrattare a condizioni economiche che siano le più favorevoli possibile, ma di
garantire la par condicio tra tutti i concorrenti. Affinché poi, la par condicio possa
realizzarsi si pone sulla PA l’obbligo di comportarsi secondo imparzialità, trasparenza e
attraverso nel rispetto di adeguati criteri di pubblicità ( Ad es. la pubblicazione del bando di
gara o l’esposizione delle motivazione che porteranno la P.A a scegliere il vincitore e
l’instaurazione di tutte una serie di formalità successive portanti alla conclusione del
contratto). Chiaramente, rispetto alle ipotesi di “iure privatorum”, in quest’ambito l’iter
procedimentale è più complesso e si escludeva per questo la possibilità di configurare una
ipotesi di responsabilità precontrattuale, in particolare nella fase che caratterizzava il
procedimento di formazione del contratto (non vi era infatti nessun rapporto determinato
né si poteva parlare di trattative). Infatti, quando si partecipa ad una gara si fa un’offerta
senza conoscere l’offerta formalizzata dagli altri e nessuno è in grado di poter stabilire che
la propria offerta sia migliore rispetto a quella degli altri, né i partecipanti possono fondare
un legittimo affidamento su ché l’aggiudicazione venga effettuata a loro favore: prima
dell’aggiudicazione e della chiusura della gara il singolo è titolare solo di un
interesse legittimo.
Un’altra svolta si ha con sentenza num. 500 della Cassazione a sezioni unite del 1999.
Con questa sentenza si ammette la possibilità che in materia di formazione di
contratti ad evidenza pubblica si possa parlare di responsabilità precontrattuale.
Secondo questa pronuncia infatti il disposto dell’art. 2043 del codice civile assume rilievo
non solo quando si è in presenza della violazione di un diritto soggettivo ma anche in
caso di violazione di un interesse legittimo. Il punto pregn