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UN PROBLEMA SPINOSO

La teoria sostiene che la rappresentanza politica è assolutamente da non confondersi con quella

privatistica, arrivando addirittura a negare che la rappresentanza politica sia vera rappresentanza.

Il rappresentante insomma rappresenta in quanto è eletto, ma non in quanto riceve una qualche

istruzione dei suoi elettori e, per fugare ogni dubbio, le norme costituzionali provvedono a vietare il

mandato imperativo e la revocabilità dei rappresentanti. La tesi che prevale è che, una volta eletto,

il rappresentante debba essere libero di agire, per coltivare non gli interessi di questo o di quel

rappresentato (o gruppo di rappresentati), bensì per perseguire, in piena indipendenza di giudizio,

alla luce delle sue conoscenze e competenze, quel che gli appare essere l’interesse generale, il

bene comune.

Tuttavia, se compito del politico è la sintesi e il perseguimento del bene comune, le richieste e i

condizionamenti dei rappresentati minacciano di vanificarlo. È infatti logico immaginare che un

elettore consapevole e razionale compia la sua scelta sulla base di quelli che ritiene i suoi interessi

e valori, preferendo i candidati che ai suoi occhi più promettono di soddisfarli, tanto sulla base delle

loro promesse di azione futura, quanto sulla base dei loro comportamenti passati. I rappresentanti

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medesimi introducono nel gioco anche i loro bravi interessi specifici, il più ovvio dei quali è venire

confermati.

Inoltre, poiché le preferenze degli elettori sono tendenzialmente molteplici, la funzione

rappresentativa del Parlamento (il quale già di per sé costituisce una rappresentazione

approssimativa, distorcente e semplificata dell’elettorato) rischia perennemente di entrare in rotta

di collisione con le altre funzioni che gli competono e, in particolare, con la sua funzione di policy

making. Secondo Sartori (1987), la funzione rappresentativa rischia di intasare e sovrastare quella

di governo. Ma non va neppure escluso il rischio opposto: se un’assemblea rappresenta troppo

poco, e semplifica e distorce troppo, il legame che la rappresentanza fondata sulle elezioni aspira

a istituire tra chi governa e chi è governato, si allenta e incoraggia non solo sanzioni elettorali, ma

anche deficit di legittimità capaci di incidere sulla stessa funzione di governo.

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Il contributo di Burke (1729-1797) è sotto questo profilo esemplare: reagendo alla sottomissione

del Parlamento da parte della corona inglese, che senza risparmio ricorreva alle armi della

corruzione, afferma l’idea, tipica della moderna teoria della rappresentanza parlamentare, che i

parlamentari non rappresentano i loro elettori, ma l’intera collettività e che essi devono esercitare il

loro mandato sottraendosi tanto ai condizionamenti degli interessi particolari, quanto alle non meno

insidiose lusinghe corruttrici del potere esecutivo e della corona. Questo non significa che l’eletto

possa fare ciò che meglio gli aggrada, ma che semmai gli si chiedono virtù particolari,

inevitabilmente di monopolio di un’èlite colta e illuminata. Compito del rappresentante è perciò di

mantenersi in sintonia con i suoi elettori e con quell’opinione che verrà presto definita pubblica. A

tal fine il rappresentante dispone di uno strumento fondamentale, le cui potenzialità Burke è tra i

primi ad apprezzare: lo strumento dei partiti, da tenere ben distinti dalle fazioni. “Un partito è un

corpo di uomini che si uniscono per promuovere congiuntamente l’interesse della nazione,

fondandosi su qualche principio particolare sul quale tutti concordano”. Il che significa che è giusto

che il rappresentante non sia un mandatario ed è anche altrettanto giusto che la società si

organizzi e che, attraverso i partiti, quanto meno manifesti le sue preferenze e le sue opzioni di

valore.

Sieyès (1748-1836) estremizza questo principio affermando che: “il popolo o la Nazione non

possono avere che una voce: quella del sistema legislativo nazionale … Il popolo non può parlare,

non può agire se non attraverso i suoi rappresentanti”. Egli quindi non solo considera i

rappresentati come un’entità collettiva, ossia come popolo, ma li trasfigura in un terzo attore

virtuale, il cui carattere collettivo unitario è indubitabile, che è la nazione, mettendo in chiaro come

sia essa che l’eletto rappresenta, non i suoi elettori. Onde fugare ogni dubbio circa il legame che

intercorre tra rappresentanti e rappresentati, come preparazione alla costituzione francese del ’91,

Sieyès suggerisce di suddividere il territorio francese in 80 Départements, quadrati e uguali tra

loro, di 18 leghe per 18, indifferenti alla storia e alla conformazione del territorio, ciascuno

ulteriormente suddiviso in 9 Communes, a loro volta divisi in 9 Cantons, che costituiranno la base

delle operazioni elettorali. Il territorio, la sua storia, la sua cultura, sarebbero stati in tal modo

neutralizzati senza residui e la nazione sarebbe diventata uno spazio piatto e omogeneo, dove non

Vigoroso polemista, esponente ai Comuni di una frazione whig particolarmente sensibile al tema della

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moralità politica. Pagina 13

Scienza Politica Unità 5

dovevano esistere interessi e aggregazioni parziali meritevoli di un qualche riconoscimento

politico. Va da sé che il disegno peccava di una terribile astrattezza. Gran parte del liberalismo

continentale condividerà la diffidenza di Sieyès verso i partiti: quando non li demonizza, intimorito

dall’idea di costituire nella società un potere politico in concorrenza con lo Stato, li ignora, per

confinarli in uno spazio politicamente poco o nulla rilevante.

Portatore di un’idea assai elevata dell’autorità statale e della sua unità irrinunciabile, Carré de

Malberg (1861-1935) ripropone in Francia la teoria della rappresentanza come componente

funzionale dello Stato, propria della dottrina tedesca. Secondo tale teoria, il popolo non esiste

indipendentemente dallo Stato, ma è un suo organo, così come lo è il Parlamento. Gli elettori si

limitano a designare quest’ultimo, che non è espressione di una qualche volontà popolare, bensì

dello Stato: “l’assemblea dei deputati ha la funzione di esprimere non la volontà degli elettori, ma

unicamente la volontà statale della nazione”.

PARLAMENTO, PARTITI, RAPPRESENTANZA

Alla base di queste teorie vi è l’idea che i parlamentari, fra un’elezione all’altra, si isolino in

Parlamento come su una torre d’avorio e che essi perseguano il bene collettivo e trascelgano,

secondo scienza e coscienza, tra sollecitazioni, suggerimenti, competenze diverse, che vengono

offerte dalla società. Ma questa è un’illusione che la teoria può magari coltivare, ma che la pratica

smentisce, vuoi perché irrealistica, vuoi perché neanche troppo conveniente, se portata alle sue

estreme conseguenze.

Era già un’illusione al tempo del parlamentarismo liberale, quando il suffragio era ancora ristretto e

l’elettorato non era organizzato in partiti (esisteva però il “partito” dei La limitazione del

notabili).

diritto di voto avvantaggiava i ceti abbienti e istruiti, e ne escludeva altri. Non mancano le

divergenze in fatto di valori e interessi, ma sono, se non altro, circoscritte. Il suffragio censitario e

quello capacitario riducono considerevolmente la gamma degli interessi rappresentabili e

favoriscono una concordanza, anzitutto sul piano sociologico, tra eletti ed elettori: provenendo tutti

dai medesimi settori privilegiati della società, i primi erano rappresentativi, di sicuro

sociologicamente, dei secondi. Anche l’adozione di un determinato regime elettorale deriva da

furiose contese politiche, la cui posta è, a conti fatti, null’altro che la qualità degli interessi che si

vogliono ammettere nelle aule parlamentari.

Il rinnoverà lo scenario della rappresentanza. Agenzie specializzate come i

suffragio universale

che – almeno quelli popolari - testimoniano la strutturazione politica della società, in

partiti,

quanto spazio politico alternativo allo Stato. Non uno spazio omogeneo e unitario, ma uno spazio

molteplice e sovraccarico di tensioni e pretese politiche, il quale, una volta strutturato e organizzato

da partiti diversi, infrange definitivamente l’idea dell’unità del potere in capo allo Stato. Data voce

alla società, i partiti la trasferiscono entro le istituzioni rappresentative, per il tramite delle loro

rivendicazioni politiche, ma anche attraverso la composizione delle proprie rappresentanze

parlamentari, schiudendo materialmente gli accessi al Parlamento agli strati intermedi e inferiori

della popolazione.

La vera novità prodotta dai partiti sta nella loro capacità di condizionare, pesantemente e

anche visibilmente, l’operato degli eletti, divenuti una loro emanazione. Se è indubitabile che

i notabili eletti a suffragio ristretto fossero condizionati in misura non piccola dalle poche decine di

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elettori che li eleggevano, a dispetto dell’autonomia prescritta per essi dalla teoria, con l’avvento

dei partiti di massa il condizionamento si fa più palese e impegnativo. Avendo investito nei

candidati un cospicuo capitale organizzativo e politico, i partiti pretendono in compenso una

ricettività senza precedenti alle loro istruzioni.

LA CRISI DEL REGIME RAPPRESENTATIVO

fu tra i primi a sdrammatizzare quella che a molti apparve la crisi irreversibile del

Max Weber

regime rappresentativo, affermando che da un lato è inevitabile, e fisiologico, che gli interessi

cerchino di condizionare l’azione statale, costituendo strumenti nuovi e specifici di

rappresentanza; dall’altro tiene a contrapporre a tale rappresentanza di interessi la

rappresentanza politica, di cui i partiti sarebbero il veicolo essenziale. I partiti non sono

disinteressati, anzi: “l’esercizio dell’attività politica per mezzo dei partiti significa precisamente

esercizio professionale di cointeressati”, ma tale cointeresse riguarda l’acquisizione del potere

politico ed è perciò alternativo agli interessi economici o professionali: è un fascio di interessi in

qualche modo di rango superiore, il quale si contrappone agli altri e trova nella competizione

per la leadership un modo di ricomporsi. La soluzione non è ottimale e Weber resterà infatti

scettico sul conto della democrazia.

Il tentativo di Weber verrà poco dopo perfezionato da il quale, formulata la sua teoria

Kelsen,

negli anni ’20 e ribaditala pe

Dettagli
Publisher
A.A. 2013-2014
174 pagine
SSD Scienze politiche e sociali SPS/04 Scienza politica

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher ConteJan di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Scienza politica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Torino o del prof Mastropaolo Alfio.