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Negli anni Ottanta cambia radicalmente il sistema dei media in Italia e cambia l’editoria
giornalistica sia sotto il profilo imprenditoriale sia sotto quello professionale.
Tra il 1991 e il 1997 la vendita dei quotidiani torna a calare.
Carlo Lombardi, allora vicepresidente della Federazione degli editori, nel 1987 notava come
l’innovazione tecnologica, cambiando drasticamente il modo di fare giornalismo e produrre giornali,
avesse privilegiato più il processo che il prodotto. Le tecnologie editoriali erano state finalizzate
quasi esclusivamente alla realizzazione dei processi produttivi. La qualità del prodotto non era mai
comparsa tra le priorità, dove la qualità sta per capacità di differenziare, innovare e creare prodotti
editoriali in grado di stimolare anche nuovi bisogni d’informazione, non solo di rispondere a
domande già esistenti.
Nella prima metà degli anni Novanta le difficoltà maggiori vengono dal fronte dei contenuti. Le
cronache sono affidate a pochi cronisti interni e moltissimi esterni.
Le promozioni editoriali scoppiano nella seconda metà degli anni Ottanta. L’anno di svolta è l’87.
Parte per prima Repubblica con un gadget, Portfolio, un gioco a premi distribuito nell’arco di una
settimana. Segue il Corriere con il supplemento settimanale 7 e il gadget Replay. I risultati sono
sorprendenti.
Cambia la natura del prodotto editoriale: il giornale non si può più pensarlo solo come strumento
per diffondere notizie e commenti, ma diventa un prodotto industriale. Le stesse imprese editoriali
finiranno per differenziarsi ed espandersi, realizzando in alcuni casi anche nuove divisioni, il cui
fine è la moltiplicazione e la diversificazione dei prodotti da affiancare ai quotidiani e ai periodici o
da veicolare per loro tramite.
L’innovazione tecnologica ha innescato una modificazione profonda del processo produttivo dei
giornali, ma lì è partita anche una lunga stagione di mutamenti, al termine della quale lo stesso
prodotto risulta radicalmente cambiato.
Il settembre ’94 è nel pieno della crisi congiunturale, le copie vendute continuano a calare.
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Per quanto sia cambiato, il giornalismo italiano ha vissuto comunque una stagione di mutamento
che è come racchiusa tra due crisi. Quella di partenza, alla metà degli anni Settanta, e quella nella
quale è ripiombato a metà dei Novanta.
Nel ’97 la pubblicità fa entrare nelle casse dei giornali il 46% dei ricavi. Producendo giornali, ormai
si guadagna di più dalla vendita degli spazi pubblicitari che non dalle copie diffuse.
Nella seconda metà degli anni ’90 un insieme composito di fattori converge a modificare
profondamente i modelli di redditività dei gruppi mediatici. Cambiando quei modelli, non possono
che mutare anche le strategie delle politiche editoriali.
I media events decretano la supremazia del mezzo televisivo su qualunque altro medium in ciò che
è prevedibile, tendenzialmente eccezionale, ma soprattutto passibile di trasmissione in diretta. La
tv diventa inespugnabile e i giornali vanno a rimorchio, finendo per esserne sudditi al di là del
lecito. I giornali italiani sono stati sottoposti a una straordinaria pressione dallo sviluppo impetuoso
e rapidissimo della liberalizzazione televisiva. La risposta alla pressione è stata culturalmente
debole, spesso incapace di una differenziazione radicale. Non è la tempestività, non è la rapidità,
non è la simultaneità della ripresa televisiva a dettare, da sola, le condizioni del suo rapporto con la
stampa.
Col passaggio dalla paleo alla neo tv, la televisione italiana inizia a mettere in mostra se stessa. La
neo tv è anche la televisione che, per forza di cose, dilaga sulle pagine dei giornali: per la rilevanza
dello scontro industriale tra Fininvest e Rai, unici attori sul mercato a partire da gennaio 1985; per
l’ampiezza del pubblico televisivo e la sovrabbondanza dell’offerta.
Negli anni Ottanta lo sviluppo impetuoso del mercato pubblicitario muta davvero in profondità il
modo stesso di fare e concepire le comunicazioni di massa in Italia, informazione giornalistica
inclusa.
La televisione generalista si afferma con il duopolio e diventa l’unico possibile modo di essere della
tv e per estensione di tutti gli altri media. La divisione e il confronto tra i due gruppi editoriali, Rai e
Fininvest (poi Mediaset), cela in realtà un monopolio assoluto prima sulle risorse pubblicitarie, poi
sui contenuti, quindi sulle forme di sviluppo dell’intero sistema dei media in Italia. E’ un duopolio
monopolistico: resta per l’appunto monopolio, culturalmente ed economicamente egemone,
almeno fino alla metà degli anni Novanta. La storia del giornalismo televisivo dimostra queste
evidenze: la lottizzazione dei tre Tg Rai, divisi tra Dc, Psi, Pci, rapidamente sostituita dal confronto
tra il modello generalista-oggettivo di Tg1 e Tg5 e quello interpretativo-esplicativo di Tg3 e Tg4,
con Tg2 e Studio Aperto nel mezzo.
Quando accadono eventi che si impongono quasi automaticamente sull’attenzione collettiva, la
capacità di racconto e di analisi del giornalismo italiano tiene livelli qualitativi accettabili. Quando,
al contrario, la cronaca si impoverisce si registra una parallela atrofia degli strumenti di descrizione
e interpretazione. E’ lì che immancabilmente riaffiorano i luoghi comuni.
2. In redazione
Il “giornale partito” è l’anatema che Ugo Intini lancia contro la Repubblica.
Il 14 gennaio 1976 esce il giornale per la prima volta. Repubblica è uno dei giornali della fermezza:
fermi cioè contro le richieste delle Brigate Rosse; fermi a respingere sia le richieste di
pubblicazione dei comunicati BR, quanto le proposte di trattativa tra lo Stato e i terroristi.
E’ qui che arriva il salto: con il 1978 la Repubblica sale a 145mila copie. La Repubblica fa politica
dichiaratamente dagli esordi. Si colloca nella vasta area della sinistra, esplicitata nell’editoriale di
presentazione del giornale. Repubblica impone una presenza politica autonoma. Intini lo chiamava
“partito irresponsabile” perché diceva che facevano politica senza sottoporsi al voto degli elettori.
Scalfari rispondeva che la Repubblica trovava il giudizio dei suoi lettori tutti i giorni in edicola.
La Repubblica imposta al giornalismo italiano la nuova formula di “settimanalizzazione” dei
quotidiani: una trasmutazione di stili, formule e temi del giornalismo settimanale a quello
quotidiano.
Repubblica si è mossa all’inizio contro il tratto cospicuo della tradizione del giornalismo quotidiano
italiano. Voleva quel carattere che il giornale fosse un neutrale registratore dei fatti salienti accaduti
il giorno prima. Volevano poi le tecniche stilistiche che ogni notizia fosse una storia in sé conclusa,
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con attacco, svolgimento e termine. Su Repubblica non c’era tutto: solo i temi e le notizie
importanti. I temi poi erano trattati con schemi radicalmente innovativi per il giornalismo italiano: il
tema “spalmato” su più pagine era allora una novità eclatante. Trovava spazio anche una scrittura
differente da quella della tradizione del giornalismo quotidiano: una scrittura da settimanale, ricca
di aneddoti, colori, retroscena, particolari sui personaggi. Il nuovo quotidiano raccontava soltanto
ciò che di importante era accaduto il giorno precedente. E di quei fatti raccontava tutto, dettagli di
colore inclusi, perché sono questi naturalmente che attizzano l’interesse del lettore.
Con le pagine di primo piano sulla politica o sugli avvenimenti di giornata vengono poi nei primi
anni di Repubblica anche i dossier, gli inserti per il week-end, i supplementi sull’economia, la
pagina della cultura. Ma la pagina tematica è la novità giornalistica imposta da Scalfari ai giornali
italiani. L’idea di fondo è che “per leggere repubblica devi avere un minimo di cultura, di
appartenenza, devi avere certe idee.
Il carattere politico ha saputo poi coesistere anche con la dimensione imprenditoriale, che ha
saputo fare in quarant’anni di un piccolo settimanale di minoranza (L’Espresso) una grande
impresa multimediale. Senza la chiave del successo imprenditoriale di un grande gruppo
multimediale, Eugenio Scalfari sarebbe oggi solo il campione di un certo modo di intendere il
giornalismo in Italia. Senza quella chiave né lui né il suo giornale avrebbero potuto imporsi come il
termine di confronto e il punto di svolta dell’editoria giornalistica italiana tra gli anni Ottanta e il
decennio successivo.
Paolo Mieli inizia a L’Espresso a Roma, poi passa a Repubblica e nel 1986 va a La Stampa a
Torino. Nel settembre 1992 diventa il più giovane direttore del giornale di via Solferini: il Corriere.
Il “metodo Mieli” (da alcuni detto “mielismo”) è composto da: scuola romana (quella di L’Espresso e
Repubblica) vista come elemento di modernità impiantata su quotidiani che dovevano comunque
rispettare antiche tradizioni.
Mieli è il primo a raggiungere la direzione del Corriere da un’altra direzione nazionale, quella della
Stampa.
Il “metodo Mieli”, ovvero gli elementi costitutivi di uno stile di direzione radicalmente innovativo
rispetto alle tradizioni del Corriere, non avrebbe potuto sedimentarsi come vero momento di svolta
nel giornalismo italiano se non avesse incontrato sulla sua strada due elementi esterni di fortissima
e radicale novità: il peso assunto dalla televisione nel campo giornalistico e la stagione di Mani
pulite.
Nei primi due o tre anni dello scorso decennio la televisione travalica la sua dimensione culturale e
di costume, per entrare stabilmente nelle abitudini quotidiane di consumo dell’informazione politica.
Per questo, col Corriere in testa, la Tv diviene oggetto di riflessione culturale e antropologica per
tutti i quotidiani anche sul versante politico. Il contesto è nuovo non tanto perché mette a confronto
i quotidiani con la tv sulle notizie, ma piuttosto perché la televisione diventa luogo e strumento di
approfondimento die temi politici di giornata. E’ questo che comprende bene Paolo Mieli,
inventando soluzioni di contenuto, stai e formati che mettono a frutto la sensibilità acquisita da
Scalfari. Il direttore del Corriere si distacca invece nettamente dalla sua impronta romana negli esiti
politici.
Sia il Corriere sia la Stampa sono giornali che nascono a tiratura regionale e diventano via via
nazionali. La Repubblica invece nasce direttamente come organo nazionale. Per questo Corriere e
Stampa, qualunque sia il governo in carica, sanno di avere lettori sia dell’uno che dell’altro polo e
di dover essere per questo un po’ più “cerchiobottisti”