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CAPITOLO 2: ECCEDENZA POSTFORDISTA E LAVORO DELLA MOLTITUDINE

“Post” indica sempre un processo di transizione da “ciò che non è più” a “ciò che

non è ancora”; Il termine “postfordismo” indica che è in atto un processo di

trasformazione globale dell’economia che sancisce l’esaurimento del modello

industriale fordista e prospetta al contempo una configurazione del tutto inedita dei

rapporti di produzione:

la grande fabbrica tende ormai a scomparire dall’orizzonte della metropoli

o postmoderna;

si rompe quel circolo vizioso che per buona parte del XX secolo ha

o consentito di tenere assieme reddito operaio, produttività sociale e consumo

di massa;

muta la geografia della produzione. Il capitale non è più soltanto

o transnazionale, ma è globale: ha creato uno spazio di valorizzazione

sconfinato, in cui non esistono frontiere, istituzioni nazionali sovrane e

delimitazioni territoriali del potere.

Il nuovo territorio del capitale globale, è l’Impero.

A partire dagli anni 70 in poi, si impongono quattro passaggi fondamentali: 4

passaggi (dagli anni ’70 in poi)

1) Il passaggio da un regime di piena occupazione a una condizione in cui la

disoccupazione rappresenta un fatto “strutturale”; Prima degli anni 70, pensare ad

un regime di piena occupazione era un fatto possibile. Dagli anni 70 in poi, si crea

una rottura per cui i livelli di piena occupazione diventano al quanto immaginabili.

2) il passaggio da un’economia orientata alla produzione a un’economia

dell’informazione; mentre prima l’elemento produttivo stava all’interno del lavoro

materiale, adesso è l’informazione che genera valore.

3) il passaggio dal lavoro industriale al lavoro immateriale;

4) il passaggio dalla centralità della classe operaia alla costituzione di una forza

lavoro globale (moltitudine).

Della trasformazione in corso emergono due aspetti. L’aspetto QUANTITATIVO

riguarda la progressiva riduzione del livello d’impiego della forza lavoro e quindi la

drastica diminuzione della domanda di lavoro. L’aspetto QUALITATIVO riguarda

invece i mutamenti intervenuti nelle forme del produrre, nella composizione della

forza lavoro, nei processi di costituzione delle soggettività produttive.

L’economia postfordista sembra dipendere sempre meno dalla quantità di forza

lavoro direttamente impiegata nel processo produttivo: l’introduzione di nuove

tecnologie (informatiche) ha diminuito progressivamente il numero di operai: dalla

catena di montaggio si è passati a macchine silenziose ed intelligenti che

richiedono la sorveglianza di pochi tecnici. Perciò crescenti di forza lavoro espulsa

dai contesti produttivi, andrà ad alimentare la fascia dei disoccupati, inoccupati e

sottoccupati.

In contemporanea, si ha l’assalto neoliberista al welfare, che determina il crollo

delle garanzie sociali; ciò genera nella società il diffondersi di condizioni di

incertezza che porteranno la forza lavoro esclusa dal processo produttivo a trovarsi

nella condizione di dover accettare condizioni di lavoro sempre più flessibili e

precari.

Questi cambiamenti vanno a incidere significativamente sull’esistenza della nuova

forza lavoro, poiché non trovando accesso all’occupazione regolare si riverserà

nelle economie sommerse per reperire una fonte di reddito alternativa.

Ciò che chiamiamo “disoccupazione” forse non corrisponde più alla mancanza di

un lavoro, ma di un impiego cioè quell’insieme di tutele e sicurezze che davano

stabilità e garantivano determinati diritti alla forza lavoro durante il periodo fordista.

La disoccupazione cessa di essere associabile all’idea di “inattività”, per diventare

misura ufficiale dello scarto fra le innumerevoli attività produttive in cui gli individui

sono continuamente implicati, e la soglia imposta dal sistema capitalistico affinché

a queste attività venga riconosciuto il valore sociale di “lavoro”. Il venir meno

dell’impiego non equivale affatto alla scomparsa del lavoro. Anzi, nel postfordismo il

lavoro, inteso come complesso di azioni, performances, prestazioni comunque

produttive, si estende sempre più fino a investire l’intera esistenza sociale. Coloro i

quali non rientrano negli schemi del lavoro flessibile, temporaneo, precario, non

sono “utili” al processo produttivo e vivono una situazione estremamente

complicata e incerta in quanto sono messi nella condizione di non poter trovare un

lavoro espresso entro questi termini e quindi di non godere di alcuni diritti, come ad

esempio quello di cittadinanza, che risultano ancora strettamente legati al concetto

di impiego, caratteristico del periodo fordista.

L’esclusione dal lavoro, inteso come impiego ha quindi delle ripercussioni per

quanto riguarda l’accesso alla cittadinanza e ad altri diritti ad essa connessi, cioè

ingenti masse di soggetti non avendo un impiego, non posseggono condizioni

sufficienti perché possano vivere un’esistenza sociale piena (guardare al futuro).

Eccedenza è dunque questo: la dinamica produttiva contemporanea ECCEDE

continuamente i dispositivi istituzionali di attribuzione, riconoscimento e garanzia

della cittadinanza sociale. C’è l’inadeguatezza da parte delle istituzioni di governo

della società a garantire inclusione attraverso il lavoro. La disoccupazione è la

raffigurazione plastica di quell’eccedenza negativa, che non può essere assorbita,

è forza lavoro di cui non sappiamo che cosa farcene, è gente che non ci serve. I

disoccupati sono persone non riconducibili all’interno di un sistema produttivo.

Sono eccedenti, sono un surplus. Sono vite di scarto, per usare le parole di

Bowman.

Nel posfordismo, il capitale diventa carente nei confronti di una forza lavoro

divenuta flessibile, mobile, moltitudine. La moltitudine produttiva eccede i rapporti di

produzione capitalistici nel momento in cui vive direttamente l’inadeguatezza del

concetto di lavoro-impiego e sperimenta su di sé la violenta negazione dei diritti di

cittadinanza dovuta a questa inadeguatezza. In questo senso possiamo parlare di

ECCEDENZA NEGATIVA, evidenziando da un lato gli effetti di esclusione, di

violenza del potere e del controllo che questo eccedere determina sulla forza lavoro

e, dall’altro, il fatto che in questo processo, il dominio del capitale risulta

potenzialmente negato e che tenta, tramite strategie di controllo sulla moltitudine, di

costituirsi come regime di governo dell’eccedenza.

Dal punto di vista QUALITATIVO, il lavoro diventa sempre più cognitivo e

immateriale: immateriale perché si fonda sull’elaborazione di simboli, sulla

costruzione di linguaggi, su un saper fare che non deve mai essere identico a se

stesso. Tende a “dematerializzarsi” nel senso che si svincola dalla sua storica

relazione con un prodotto determinato, per diventare invece performance

comunicativa. Dove il fordismo di fondava su una netta separazione fra creazione,

direzione del lavoro ed esecuzione del compito, il postfordismo sembra rendere

orizzontale questo ciclo, facendo dell’innovazione e della creazione i fondamenti

dell’intero processo produttivo.

Il lavoro diventa linguistico nella misura in cui la comunicazione diventa merce e

l’intelletto, inteso come insieme di facoltà comunicative, espressive, inventive,

diventa il nuovo utensile della produzione postfordista. Il lavoro fuoriesce

progressivamente dal perimetro dell’istituzione chiusa. Ora la produttività dipende

dalla capacità imprenditoriale di cogliere, afferrare, decodificare flussi di

conoscenza, grumi di esperienza sociale diffusa quali mode, linguaggi, reti di

relazione, e metterli a valore.

Un esempio significativo di questi processi è rappresentato dal logo. Il logo non è

più solo un marchio che permette di distinguere un prodotto da un altro, ma

racchiude il valore linguistico o immateriale del prodotto stesso, lo rende parte di

uno stile di vita e ne fa un medium della comunicazione sociale. Il logo contiene in

sé un’esperienza relazionale: veicola e produce soggettività. Per essere efficace,

produttivo, il logo deve captare, carpire, intercettare determinate forme della

relazione sociale e valorizzarle. D’altra parte, è la vita intera ad essere

assoggettata al lavoro, dal momento che sono le facoltà umane (affettività, capacità

di linguaggio, facoltà di espressione e invenzione, propensione alla comunicazione

e alla relazione) a costituire il nucleo della produttività. Questa “umanità al lavoro” si

estende e si riproduce nello spazio indefinito delle relazioni tra i soggetti e nelle reti

dell’agire comunicativo.

Se il linguaggio, la comunicazione e la razionalità sono gli elementi costitutivi della

postmodernità, la cooperazione sociale ne rappresenta la forma di realizzazione.

Alla catena di montaggio, si sostituisce la rete. L’impresa a rete carpisce e valorizza

una cooperazione che si produce dal basso e si alimenta di scambi linguistici e

simbolici.

Inoltre, diventa sempre più problematica una reale separazione fra tempo di lavoro

e tempo di non lavoro. Il “vecchio” metro di misura del valore, cioè il tempo di lavoro

non risulta più essere idoneo e diviene impossibile quantificare tempo e risorse

necessari alla produzione postfordista, perché ad essere “messo a lavoro” è

l’intelletto. Marx definisce la nuova capacità produttiva sociale come GENERAL

INTELLECT. Il General Intellect è una nuova entità produttiva che emerge grazie

all’innovazione tecnologica e al deperimento del lavoro immediato come fonte della

ricchezza sociale. Le possibilità di realizzazione delle potenzialità produttive del

general intellect, dipendono da processi di cooperazione e comunicazione sociale

esterni, anteriori e contrastanti con la razionalità organizzativa dell’impresa

capitalistica. Il capitale non si presenta più come organizzatore della forza lavoro,

ma come registrazione e gestione dell’organizzazione autonoma della forza lavoro.

La funzione progressiva del capitale è terminata.

Su questa moltitudine, il controllo capitalistico si esercita a posteriori: non più come

determinazione dei presupposti organizzativi che rendono possibile la produttività

sociale, ma come pura espropriazione di una produttività che tende continuamente

a fuoriuscire dai confini della valorizzazione.

L’ECCEDENZA POSITIVA si configura come eccesso costante di potenzialit

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Publisher
A.A. 2018-2019
12 pagine
SSD Scienze politiche e sociali SPS/08 Sociologia dei processi culturali e comunicativi

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Lujio di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di sociologia dei processi culturali e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università della Calabria o del prof Scienze Sociali Prof.