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PROTOCOLLO DI INSTANBUL
Questo protocollo, approvato dalle Nazioni Unite, stilato nel
1999, raccoglie le definizioni, le linee guida ed elabora gli
standard minimi di comportamento che gli stati e i singoli
cittadini devono adottare nei confronti di tortura e
maltrattamenti denunciati o sospettati,
Il protocollo identifica tre diverse tipologie di tortura:
1. TORTURA FISICA: viene considerata in base all’effetto
che ha e al tipo di dolore che induce nella vittima
2. TORTURA SESSUALE: rispetto a quella fisica ha un
grande impatto sociale e psicologico
3. TORTURA PSICOLOGICA: mira a distruggere l’identità
della vittima e a spossarla psicologicamente attraverso
umiliazioni, violazioni e messaggi paradossali.
La tortura è oggi una delle violazioni dei diritti umani
maggiormente condannata in ambito internazionale, non
per questo sta scomparendo.
SPECIFICITA’ E CONSEGUENZE PSICOLOGICHE DELLA
TORTURA E DELLE VIOLENZE ESTREME
Le conseguenze della tortura investono tutti i campi
della vita della vittima, interpersonale, sociale,
intrapsichico.
La tortura non è solo l’incontro con il carnefice, è anche
l’esperienza della rottura del patto che unisce gli
individui in collettività, che sancisce la protezione e il
soccorso da parte dello Stato.
L’esperienza della tortura attiva, nell’inconscio della
vittima, le fantasie arcaiche violente, aggressive e
distruttive definite da Winnicott “angosce primitive”.
Le usuali difese non sono in grado di difenderci da
queste esperienze, così si mettono in atto difese più
primitive e in particolar modo le difese dissociative che
impediscono che l’impensabile diventi esperienza.
La specificità della tortura risiede proprio nel fatto che
l’evento si trasforma in qualcosa che non può essere
iscritto nella psiche, la reazione al dolore è
inaccessibile alla memoria, in particolare alla sua
componente biografica. Non riuscendo a crearsi una
rappresentazione di ciò, il corpo diventa l’unico
depositario della memoria traumatica. La vita post-
traumatica diventa vulnerabile a situazioni che, seppur
diverse per intensità e forma dagli eventi traumatici
vissuti, sono aa esse assimilabili in quanto rievocano
riattualizzano le profonde ferite. Nei rifugiati
sopravvissuti a tortura, in particolare modo, le precarie
condizioni di vita e l’incertezza del futuro (traumatismi
secondari), perpetuano le esperienze di re-
traumatizzazione rendendo difficile il trattamento e il
recupero.
In questi pazienti, il presente abitato ossessivamente
dal passato, è assente. Il soggetto non riesce a
rappresentarsi il futuro e viene riattualizzato sempre
l’evento traumatico. Queste alterazioni della
dimensione temporale sono strettamente connesse ai
disturbi dissociativi e a quelli della memoria
autobiografica. Il trauma, dunque, resta inscritto a
livello psichico come dato sensoriale, essendo
inelaborabile a livello simbolico/verbale: sarà il corpo a
ricordare, a rivivere all’infinito, non la mente.
Capita che questi soggetti vengano sommersi da ricordi
impliciti molto coinvolgenti, durante i quali perdono le
forme tipiche di controllo della memoria esplicita e si
sentono di vivere l’evento in quel momento preciso
(flash back). Questi eventi possono diventare coscienti
in modo del tutto automatico, attraverso la
riattivazione automatica di memorie autobiografiche
involontarie, come risultato di stimoli interni o esterni
anche subliminali ed è come se si stessero verificando
nel qui ed ora.
Le difese dissociative hanno duplice funzione: aiutare la
vittima a distaccarsi dall’evento mentre si verifica e di
posporre il lavoro di elaborazione necessario per
collocare tale evento nel contesto della storia di vita.
Lo svantaggio è che una volta prodottasi, la
dissociazione opera automaticamente, sotto forma di
veri e propri complessi traumatici automatici.
Il disturbo post-traumatico da stress complesso è il
frequente esito delle esperienze traumatiche estreme.
Le sue caratteristiche psicopatologiche sono le
alterazioni delle funzioni psichiche di base: memoria,
identità e funzioni associative.
In alcuni casi, le vittime di tortura a traumi possono
presentare breakdown psicologici sotto forma di
comportamenti violenti e antisociali, quadri psicotici
acuti, stati dissociativi, comportamenti suicidari.
CAPITOLO 10-IL LAVORO CON I RIFUGIATI SOPRAVVISUTI A
TORTURA
Spesso è difficile l’avvicinamento ai sopravvissuti a
tortura per differenze culturali, differenti esperienze.
Il terapeuta deve innanzitutto creare un clima
empatico, operare un ascolto attento e mai intrusivo,
deve essere consapevole di ciò che ha vissuto il
paziente e quindi accompagnare la terapia al
sostegno dell’Io e alla ricostruzione delle trame
relazionali e affettive.
Deve esser fatta un’accoglienza dignitosa in modo
che la persona possa fare l’esperienza di uno spazio
per sé, dove ricreare un progetto di vita. E’ dunque
necessaria la creazione di una collaborazione fra vari
professionisti per fornire un sostegno integrato.
Le difficoltà maggiori sono: il rischio che il paziente
peggiori e diventi depresso, l’uso di difese
dissociative da parte del soggetto. Il presente del
paziente è vissuto dal passato e quindi viene
impedita la partecipazione di tutta la personalità del
paziente; il risultato è una partecipazione superficiale
alla terapia, in cui la persona è presente fisicamente,
ma non riesce a essere in contatto reale e profondo
con la propria persona e con la situazione che sta
vivendo.
COLLOQUIO CLINICO
ALTERAZIONI MNESTICHE POST-TRAUMTICHE: una
difficoltà del paziente è la rievocazione e narrazione del
proprio passato. In alcuni casi i sopravvissuti possono
essere riluttanti a riferire le proprie esperienze
traumatiche; si sforzano a non pensarci o sono convinti
che gli altri non possano comprenderli. In altri casi si ha
una vera e propria alterazione dei processi mnesici, in
particolare della componente esplicita della memoria.
IL CONTESTO: Bisogna fornire un ambiente confortevole
con alcune caratteristiche:
Privacy: Il richiedente potrebbe non fornire alcune
informazioni se non è sicuro della riservatezza con
cui i colloqui vengono effettuati
Interruzioni: Bisogna evitare qualsiasi tipo di
interruzione del colloquio
Rumori: I rumori o voci potrebbero far perdere la
concentrazione del paziente o attivare esperienze
dissociative
Disposizione della stanza: Deve esserci una buona
illuminazione ma non una fonte diretta di luce sul
paziente; questo potrebbe rievocare interrogatori
o violenze subite.
Tempi del colloquio: Deve durare 45/60 min.
Possono essere attuate brevi sospensioni come
l’uscita dalla stanza del paziente o pausa acqua/
thè se il paziente sembra affatico e/o emozionato.
ATTEGGIAMENTO E SPECIFCITA’ DEI SOPRAVVISUTI
Il comportamento, l’adeguatezza relazionale e la
capacità dell’intervistato di entrare in relazione e
rispondere alle domande saranno condizionate da vari
fattori: personalità, specificità culturali, tipologie e
gravità del trauma, genere, situazione attuale di
accoglienza in Italia. In ogni caso, i principali
comportamenti dei sopravvissuti sono:
Negazione- evitamento: sono difese consapevoli.
Alcune vittime evitano di parlare degli eventi
traumatici per paura di non essere creduti, perché
sono situazioni indicibili e impensabili, perché lo
trovano umiliante
Silenzio e vergogna: Le culture dove la vergogna
occupa una posizione centrale vengono definite
culture del silenzio. Rimanere in silenzio,
mantenere il segreto, protegge il soggetto e la sua
famiglia dall’infamia e dal disonore. Es. nelle
società in cui c’è una rigida concezione della
sessualità, il subire una violenza sessuale è causa
di sentimenti di vergogna, umiliazione e colpa.
Difficoltà nella ricostruzione e narrazione degli
eventi: Questa difficoltà è dovuta ad alterazioni
psico-biologiche legate alla memoria e la
concentrazione. Queste difficoltà sono accentuate
dalla situazione che pone il soggetto in un clima di
ansia e stress. Spesso questi soggetti possono
avere difficoltà a rispondere anche a domande
semplici. Questo è dovuto soprattutto a disturbi
dell’attenzione e della concentrazione e a disturbi
dissociativi (assorbimento ideativo, pensieri
intrusivi, depersonalizzazione, derealizzazione,..)
Paura e diffidenza: La diffidenza è presente come
uno stato di ipervigilanza che può arrivare ad
essere in alcune circostanze una “sospettosità
paranoide” o deliri paranoidei. In altri casi questi
soggetti posso avere paure consapevoli come
quelle di mettere a rischio se stessi o i prorpi
familiari attraverso la loro testimonianza
Imprevedibilità e inadeguatezza: Questi soggetti
possono presentare tavolta comportamenti
inaspettati e inadeguati al contesto
Ipervigilanza e opposizione: Questi soggetti hanno
bisogno di sentire il controllo della situazione in
quanto l’aspetto più drammatico da loro vissuto è
l’essersi sentiti impotenti. Delle volte durante il
colloquio possono dunque mostrarsi sospettosi,
con atteggiamento di sfida e di resistenza,
arroganti
Sottomissione e passività: La sensazione di
impotenza può portarli ad una posizione regressiva
di passività e arrendevolezza. Diventano come
bambini indifesi di fronte al genitore che “tutto
può” da cui si dipende e che solo ci può salvare.
ATTEGGIAMENTO DELL’INTERVISTATORE
E’ molto importante curare le modalità iniziali del primo
incontro, poiché esse determinano la qualità e il clima
relazionale nei colloqui successivi. Bisogna seguire
alcuni principi basilari:
1. Essere consapevoli delle principali conseguenze della
tortura, della complessità degli esiti e delle loro
possibili manifestazioni nel corso del colloquio: durante
il colloquio sarà importante porsi di fronte al
richiedente come persona nella sua interezza non solo
come vittima
2. Mettere a proprio agio il richiedente asilo: Il richiedente
asilo che abbia vissuto esperienze di tortura, abuso o
altre violenze estreme tende ad aver paura e a sentirsi
minacciato da tutte le persone investite di potere e
autorità.