Le componenti cognitive e affettive dell’empatia che caratterizzano le risposte empatiche dell’osservatore,
secondo Davis sono quattro: le prime due concernono le abilità cognitive e sono l’abilità di adottare il punto
di vista di un’altra persona e la tendenza a immaginarsi in situazioni fittizie. Le altre due componenti si
riferiscono alla reazione emotiva del soggetto, che può essere orientata verso la condivisione dell’esperienza
emotiva dell’altro (considerazione empatica) oppure diretta verso la comprensione dei propri stati di ansia e
di preoccupazione in situazioni relazionali (disagio personale).
Vreeke e Van der Mark propongono una definizione di empatia che interessa anche il contesto comunicativo
in cui la risposta empatica si origina e si evolve. In quest’ottica, l’empatia è identificabile come una risposta
comportamentale ed emotiva a una specifica domanda dell’altro; empatizzare con qualcuno significa capire
qual è il bisogno che l’altro esprime e rispondervi in modo adeguato.
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4. L’empatia culturale ed etnoculturale
Di recente lo sforzo di molti studiosi si è rivolto allo studio delle forme che l’empatia può assumere in
contesti specifici, come ad esempio la scuola, e delle relazioni che si instaurano in specifici contesti
lavorativi e organizzativi, culturali ed etnici. Tutto ciò ha portato all’individuazione di particolari forme,
come l’empatia culturale e l’empatia etnoculturale. Il termine “empatia culturale” consiste nella capacità di
provare un interesse nei confronti delle altre persone e di avere un’accurata percezione dei loro pensieri,
sentimenti, comportamenti ed esperienze. L’empatia culturale ha dunque a che fare con la disponibilità ad
accettare modi di fare e abitudini tipiche di un contesto culturale diverso dal proprio.
Negli ultimi anni gli studiosi hanno anche cercato di comprendere che forma assuma l’empatia se rivolta a
persone che non solo appartengono a gruppi culturali, ma anche a etnie diverse dalla propria. Questa
tipologia di responsività prende il nome di “empatia etnoculturale”. Oltre alle tradizionali componenti
affettive e cognitive, nell’empatia etnoculturale riveste grande importanza la componente comunicativa, vale
a dire la capacità di comunicare agli altri i propri sentimenti e pensieri di comprensione della condizione che
vivono le persone appartenenti ad altre etnie e la capacità di accettare le differenze culturali.
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5. Empatia e role taking
Il role taking è la capacità di mettersi nei panni dell’altro, assumendone il ruolo anche se diverso dal nostro,
senza che questo processo elimini la consapevolezza del nostro punto di vista. C’è un generale accordo tra
gli autori nel riconoscere all’interno del role taking tre dimensioni: una emozionale, una percettiva e una
cognitiva. Il role taking emozionale consiste nella capacità di riconoscere le emozioni dell’altro e di
rispondere affettivamente in modo appropriato. Questa componente coincide, dunque, con una sorta di
preoccupazione empatica. Il role taking cognitivo è un processo attraverso il quale un individuo abbandona
il proprio punto di vista e prova a comprendere gli stati interni e i pensieri di un’altra persona mettendosi
cognitivamente nella situazione dell’altro. Il role taking percettivo riguarda l’abilità di capire come un
oggetto, o un insieme di oggetti, è visto da un altro che non occupa la nostra stessa posizione nello spazio.
Tale definizione coincide con quella che da molti autori è definita capacità di perspective taking.
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6. Empatia, simpatia, disagio personale e contagio emotivo
La risposta simpatetica (o simpatica): con il termine “simpatia” si identifica una modalità di risposta
affettiva orientata al vissuto dell’altro che si esplicita nel provare dispiacere, preoccupazione, interesse per
qualcuno e si traduce nell’urgenza di agire in qualche modo per intervenire a favore o sostenere la persona
per cui si prova simpatia. Diversamente dall’empatia, che potremmo descrivere un “sentire come” qualcun
altro, la simpatia è meglio resa dall’espressione “sentire per” qualcun altro. La risposta simpatetica differisce
dall’empatia perché l’emozione sperimentata dall’osservatore non è necessariamente simile a quella provata
dall’altro.
La risposta di disagio personale (personal distress): Batson (1991) ha definito il personal distress,
identificandolo precisamente con l’esperienza di uno stato emotivo negativo (ansia o preoccupazione) e che
porta a una reazione o a preoccupazione orientata su di sé, egoistica. Hoffman chiama il disagio personale
overarousal empatico e lo descrive come un sentimento involontario che occorre quando il sentimento
condiviso dall’osservatore diventa così carico di dolore e intollerabile che si trasforma in disagio personale,
che porta l’individuo ad allontanarsi dalla situazione. Fin qui, la definizione è molto simile a quella di
Batson. I due autori constatano che, di fatto, quando l’osservatore ha un forte legame con la persona che in
quel momento è la fonte del suo disagio, o quando egli ha un ruolo che lo responsabilizza a intervenire in
qualche modo, ai vissuto di disagio possono far seguito dei comportamenti di aiuto. Ciò che differenzia le
posizioni di Hoffman e Batson sono le motivazioni che i due ipotizzano sottostare a questi comportamenti di
aiuto. Batson, ritiene che il fatto di provare personal distress sia riconducibile esclusivamente a motivazioni
di tipo egoistico.
Per cui egli attribuisce il comportamento di aiuto al fatto che il ruolo o il sentimento che lega le due persone
rappresenta un vincolo che rende impossibile la fuga e, quindi, il modo più rapido di smorzare il proprio
disagio diventa quello di prestare aiuto all’altro. Hoffman, d’altro canto, sembra affermare che l’overarousal
empatico, sebbene motivi anche comportamenti di tipo egoistico, a volte può avere motivazioni altruistiche
ed essere orientato verso l’altro. In quest’ultimo caso lo spettatore, in virtù del ruolo che riveste e del legame
affettivo con la persona in stato di bisogno, sarebbe spinto a spostare il proprio focus sulla sofferenza della
vittima e per questo cercherebbe di aiutarla. La risposta di disagio personale è simile all’empatia, ma
differisce da questa perché l’emozione sperimentata dall’osservatore non è necessariamente in sintonia con
quella provata dall’osservato.
Hoffman si riferisce all’empatia con il termine di arousal empatico e definisce il disagio personale come un
overarousal empatico. Da questo punto di vista, sembrerebbe che il disagio personale differisca dall’empatia
per un eccesso di attivazione. Si potrebbe perciò immaginare che un’esperienza di condivisione
particolarmente intensa provochi un vissuto talmente forte da risultare difficile da gestire e, quindi, da
suscitare il disagio personale.
Il contagio emotivo: è la prima forma di condivisione affettiva che i bambini manifestano già nelle prime ore
di vita. Infatti, come sostiene Hoffman, nei primi mesi dopo la nascita i bambini non sono ancora in grado di
distinguere sé dall’altro e quindi, nel momento in cui percepiscono l’emozione di qualcuno, non sono in
grado di capire che l’emozione ha una causa esterna (l’altro soffre) e le “attribuiscono” una causa interna (io
soffro).
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7. Neuroni specchio ed empatia
Alcuni neuroscienziati hanno indagato i substrati neurali delle funzioni psichiche negli uomini.
Il team di ricercatori individuò nel cervello una particolare classe di neuroni premotori, che si attivano non
solo quando si esegue una specifica azione (come ad esempio afferrare un oggetto), ma anche quando si
osserva un altro individuo (conspecifico o umano) compiere quella stessa azione. Gli autori hanno battezzato
questo tipo di neuroni i “neuroni specchio”. Il nucleo centrale di questa scoperta starebbe nel fatto che, nel
momento in cui si è testimoni di un’azione, si mette in moto quello stesso sistema neurale che si attiva
mentre la si esegue; l’osservatore, quindi, comprenderebbe le azioni degli altri perché le “mima” dentro di sé
e, automaticamente, ne fa esperienza.
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8. Norma Feshbach: il primo modello multidimensionale di empatia
Il grande merito di questa autrice consiste nell’aver sviluppato, per la prima volta nella letteratura
psicologica, un modello che, superando la visione dell’empatia come un’abilità monolitica, le attribuisce un
carattere multidimensionale. Processi cognitivi e affettivi si integrano.
Feshbach elabora il primo strumento per rilevare la responsività empatica, il FASTE (Feshbach Affective
Situation Test for Empathy).
Il modello multidimensionale di empatia
L’autrice, nelle sue ricerche, ha dedicato una particolare attenzione a tre aspetti: a) i risvolti sociali
dell’empatia, osservando se essa fosse in grado di migliorare i rapporti interpersonali, inibendo
l’aggressività e pro- muovendo il comportamento prosociale; b) gli sforzi per misurare l’empatia; e) il
tentativo di elaborare programmi specifici per incrementare le capacità empatiche.
Feshbach sostiene che l’empatia coniughi al suo interno elementi cognitivi e affettivi e sia costituita da tre
componenti.
Queste componenti coincidono con altrettante abilità che, svolgendo un’azione integrata, possono generare
comportamenti empatici. Esse possono essere così definite e riassunte:
• la capacità di decodificare gli stati emotivi vissuti da altre persone;
• la capacità di assumere il ruolo e la prospettiva di un altro;
• la capacità di rispondere affettivamente alle emozioni provate da un ‘altra persona.
Le prime due componenti sono abilità cognitive, mentre la terza inserisce l’empatia in una dimensione
affettiva ed emotiva.
Solo e soltanto se si prova dentro di sé l’emozione che l’altro vive, si può parlare compiutamente di
esperienza empatica.
Adottando il quadro di riferimento piagetiano, che ha influenzato il modello di Feshbach, l’abilità di
decentramento avviene con il passaggio allo stadio operatorio concreto, attorno ai 6 anni. È dunque a tale età
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