Riassunto esame Pedagogia generale, prof. Togni, libro consigliato Autonomia, Bertagna
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1.2. Stato e scuola nell’Italia fascista: esasperazione di un modello
Con la riforma Gentile (1923), si rafforza la funzione della scuola volta a “civilizzare” e ad
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educare “alla cittadinanza” il “secondo popolo” istituzione della scuola di grado
preparatorio (scuola materna), della scuola elementare quinquennale, dell’obbligo di
istruzione (formalmente innalzato fino a 14 anni per tutti). Viene, inoltre, rafforzata la
funzione elitista e selettiva della scuola, con l’introduzione degli esami di ammissione e di
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riparazione, nonché quelli di Stato a fine ciclo la scuola deve essere più severa e
rigorosa per identificare i “giovani migliori e meritevoli”, che diventeranno la nuova classe
dirigente.
La rivoluzione moderna ha sottratto la nozione di cittadinanza al ruolo preponderante del
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lignaggio il primo a sostenere quest’idea è stato il filosofo inglese Thomas Hobbes, per
il quale non esiste alcun ordine di nascita, sociale, culturale o professionale, ma è il
singolo individuo che, attraverso un pactum subiectionis, incarica lo Stato (“il Leviatano”) di
creare, attraverso l’imposizione di leggi e la minaccia di punizioni agli inadempienti, tale
ordine. Da Hobbes in avanti si assiste dunque al progressivo assolutizzarsi dell’individuo
rispetto all’ordine politico-sociale-professionale-culturale preesistente e a lui circostante; il
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presupposto di tale teoria moderna era che tutti gli individui fossero uguali democrazia,
cioè autogoverno degli uguali, tuttavia questo ordinamento politico andava evitato (per
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questioni pratiche e teoriche) contromisura trovata nella rappresentanza. il
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rappresentante però è superiore ai rappresentati, pur essendo creato da questi
rappresentante nuova élite, primo popolo, i rappresentanti rimangono il secondo popolo,
perciò lo Stato liberale non modificava la teoria dei due popoli e della formazione della
classe dirigente.
Per superare le contraddizioni insite nel rapporto individuo - Leviatano e per far sì che lo
Stato non sia paternalista o autoritario, Hegel propone che:
- la realizzazione piena dell’individuo avvenga solo nello Stato persona giuridica o spirito
assoluto
- l’individuo non abbia bisogno, né ammetta, intermediari individuali o collettivi tra le
proprie decisioni sovrane e quello dello Stato (intermediari quali per es. il lignaggio, gli
ordini, o le appartenenze sociali e professionali)
- il “burocrate” statale non sia un mero impiegato esecutivo, ma il “tutore del bene
universale” di ciascuno.
Queste idee furono riprese in Italia dal filosofo napoletano Bertrando Spaventa, che ha
fatto una rilettura della “missione del dotto” (Fichte) applicandola all’Italia scaturita dal
Risorgimento; ha, inoltre, riletto il tema hegeliano dello Stato etico (tutore del “bene
universale”). Tali teorizzazioni hanno costituito la giustificazione teorica e
la nobilitazione culturale delle scelte politiche, amministrative e culturali che sono state
prese dalla classe dirigente dell’Italia liberale. Questa linea filosofica e culturale sarà poi
ripresa e sviluppata da Gentile con la sua teoria dello “Stato volontà di un popolo che si
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sente nazione” identificazione tra individuo e Stato, poi divenuto, durante il fascismo, in
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maniera programmatica, “Stato etico, “Stato educatore”, “Stato imprenditore”, “Stato
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banchiere”, “Stato sindacato”, “Stato previdenza” esasperazione del modello statalista.
Le conseguenze a livello di sistema scolastico italiano furono: riforma del pubblico impiego
De Stefani (1922), che impose il titolo scolastico statale quale criterio per identificare le
competenze necessarie per accedere a determinate professioni od ordini professionali
(decisiva non la competenza professionale, ma il titolo erogato dai funzionari dello Stato);
inoltre negli anni Trenta avvenne la progressiva statalizzazione di tutte quelle scuole di
ogni ordine e grado che erano rimaste fino ad allora nelle mani di enti locali o parti sociali
non controllati dal Ministero della P.I.
⟹ il fascismo ha storicamente tentato di progettare la “scuola nazionale” come un
ingegnere può progettare una casa per farla abitare a qualcuno, che non conosce e di cui
non può immaginare le richieste. La scuola-apparato di stampo fascista, attraverso
l’insegnamento della cultura idealistica e fascio-imperiale, avrebbe dovuto garantire il
processo di sussunzione della crescita individuale di ciascun cittadino in quella sociale,
stabilita dallo Stato.
Tuttavia a questa impostazione di “Stato costruzionista” non fu estraneo nemmeno il
movimento marxista. Infatti Né la teoria né la pratica del comunismo hanno respinto l’idea
e l’azione di un centro statale potente e pervasivo, che decida tutto il possibile riguardo la
vita dei singoli individui e della nazione, e lo declini sottoforma di un rigido controllo
amministrativo (pianificazione). I marxisti non accettavano che a fare questo potesse
essere lo Stato quale espressione di una classe dirigente antipopolare e antioperaia, bensì
di un partito rivoluzionario e di una classe operaia. Antonio Gramsci ha fatto una rilettura in
senso marxista di categorie filosofiche speculari a quelle messe a punto da Spaventa e da
Gentile.In particolare, Gramsci pensa al partito come una sorta di “nuovo principe” e ritiene
che il primo strumento della rivoluzione sia la conquista della “egemonia culturale ed
ideologica” sul blocco storico-sociale progressista.
1.3. I cattolici nella politica nazionale
Il Non expedit (1871) di Pio IX, seguito alla Breccia di Porta Pia (1870), spinge i cattolici ad
una forte presenza nelle iniziative sociali (banche, mutue, cooperative, servizi sociali,
leghe sindacali, giornali e periodici, scuole, “asili infantili”, ecc.) e negli enti locali (in
particolare i comuni). Nel 1919, in concomitanza con le prime elezioni politiche
a suffragio universale maschile (stabilito nel 1913) e con un sistema elettorale
proporzionale, i cattolici, organizzati laicamente da don Sturzo all’interno del Partito
Popolare Italiano (PPI), ottengono un successo elettorale straordinario. Ma l’avvento del
fascismo, lo scioglimento dei partiti e l’esilio di don Sturzo segnarono una battuta d’arresto
per questo movimento. Nell’estate del 1942, Alcide de Gasperi
si riunisce con alcuni membri del vecchio PPI, per decidere sulla ricostruzione del vecchio
partito cattolico. Viene scelta la denominazione “Democrazia Cristiana”.
Tra il 1943 e il 1945, come ha riconosciuto anche Gaetano Salvemini, la resistenza
sviluppatasi nei territori occupati dai nazifascisti riceve il contributo diretto e decisivo dei
cristiani cattolici, non sottoforma di presenza militarmente organizzata, ma di azioni di
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solidarietà e di carità fraterna messe in atto dai contadini e dalle donne. Sono soprattutto
queste categorie sociali a favorire il successo della DC sia alle elezioni dei membri
dell’Assemblea Costituente (1946) sia alle elezioni politiche del 1948.
Il cosiddetto “mondo cattolico” (inteso non in senso monolitico) ha offerto alle discussioni
dell’Assemblea Costituente (1946- 1947) e alla politica nazionale del secondo dopoguerra
un patrimonio di idee e di esperienze alternative rispetto a quelle della tradizione liberale e
fascista, riguardo la società, lo Stato, il governo e tutte le altre istituzioni, tra cui la scuola.
2) Sul concetto di «autonomia» e sulle sue implicazioni pedagogiche
2.1. L’autonomia non è anarchia, ma libertà/responsabilità
Uno dei principali contributi che il “mondo cattolico” ha dato alla redazione della
Costituzione italiana e al rapporto istituzionale fra Stato e scuola è la concezione di
“autonomia”.
Il termine “autonomia” deriva dal greco “auto-nomos”, che significa darsi le leggi e le
regole che si seguono nell’agire. Non è anarchia (dal greco anàrcheia), perché non implica
assenza di norme, ma solo norme che i soggetti si scelgono da sé, che si impongono,
ricavandole da sé e per sé, in libertà. L’autonomia non è nemmeno l’obbedienza
a norme necessarie e predeterminate di cui i singoli non sarebbero consapevoli (libertà
→
compatibilista) posizione di Nietzsche per cui non esiste soggettività autonoma.
⟹ L’autonomia non è né anarchia, né “ignoranza della necessità”, ma è libertà/
→
responsabilità La libertà è una “libertà positiva” (non “negativa” pensata come assenza
di costrizioni), secondo l’espressione kantiana, con cui si designa la libertà di aderire a ciò
che la ragione di ciascuno riconosce come moralmente bene/vero per tutti (“cCritica della
ragion pratica”). Tale libertà, però, si applica nel concreto dell’agire grazie al fatto che essa
sarebbe un “desiderio razionale” (secondo Husserl, Scheler), una “legittima volontà” di
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realizzarsi in una condizione di vita più umana e più adeguata libertà = risposta ad un
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desiderio collegato con responsabilità (da respondeo, rispondere ad un appello che ci
chiama). La persona umana esiste come possibilità, è se e solo se si con-creta con il
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valore razionale che desidera, che incarna l’individuo è autonomo se vive la vita come
un continuo sforzo del personale di imporsi sull’impersonale. L’azione umana, frutto di
libertà, è un agire, è “un cominciamento non prodotto dalla necessità” (Arendt), perciò
apre, come causa e come fine che pone, una serie infinita di risultati possibili, di cui
occorre rendere conto.
2.2. L’autonomia non è autarchia, ma relazione (inter-relazione)
L’autonomia non è autarchia, perché non è auto-determinazione, auto-sufficienza di sé,
auto-fondazione, non equivale ad essere il principio di noi stessi senza essere in relazione
con altro o con altri. 4 di 12
Non siamo autarchici nemmeno sul piano empirico, poiché abbiamo bisogno di “cura” da
parte di qualcuno per poter crescere. La consapevolezza teoretica della nostra non
assolutezza e la spinta al “dover essere” dimostrano che siamo costitutivamente “una
relazione”. Dato che nessun essere umano è autarchico sul piano empirico e dato che le
relazioni che intratteniamo con gli altri non sono riducibili a bisogni empirici, è la struttura
dell’autonomia personale, in quanto libertà/responsabilità, che esige che la persona sia
“relazione”, “relazioni”, “un rapporto con l’essere ontologico”, “un rapporto con l’altro”.
La stessa parola “ragione” (logos in greco, ratio in latino) significa relazione: relazione a e
con, intenzionalità verso, ordine, e misura tra. Per questo, fin da Boezio, la persona è stata
definita:
- ⟹
sostanza: ciò che è in sè, che è o non è non un accidente che può esserci o non
esserci indifferentemente
- individuale: in-divisa, non riconducibile a qualcos’altro
- con una sua natura che la rende ciò che è
- la cui natura consiste nell’essere razionale (relazionale)
La persona è una “relazione sussistente”, è amore (nel senso di trovare una misura che
accomuna perfino tra opposti).
Se l’autonomia della persona è libertà/responsabilità e non anarchia/autarchia, allora non
esiste, se non in un’astrazione intellettuale pensata a tavolino, un “individuo proprietario di
sé e delle proprie azioni”, che alla Hobbes o alla Locke, inauguri con una propria sovrana
⟹
deliberazione la dipendenza e la relazionalità sociale non è lo Stato (il “Leviatano”) che
può statuire le “relazioni” che devono intervenire fra gli uomini per renderli tali, ma sono la
razionalità, l’intenzionalità, l’intrinseca relazionalità libera e responsabile delle persone
umane che, costitutivamente, creano nel concreto della storia e delle forme sociali lo Stato
moderno.
Occorre precisare che la persona non è autarchica perché fa politica, ma è ella stessa
politica, nel senso che vive la socialità e costruisce formazioni sociali a partire dalla propria
⟹
libertà non possono essere né lo Stato né le sue leggi a creare i costumi delle persone,
a comandarli e costituirli con il potere delle norme, ma sono i costumi delle persone, il loro
vivere in relazione ed essere in relazione, il loro riconoscere ed eleggere le comunità di
appartenenza in società, a creare e ad esprimere lo Stato e le sue leggi, che, avrebbero
dovuto seguire i costumi, non viceversa, altrimenti, come ha osservato Rousseau, il rischio
è che l’obbedienza alla legge (anche dello Stato) scaturisca dal timore di un’eventuale
punizione, non dal riconoscimento del bene per ciascuno e per tutti.
⟹ Siccome sono le persone a creare lo Stato (e le altre istituzioni), esso dovrà costruirsi e
funzionare corrispondendo alla razionalità (e relazionalità) delle persone. Lo Stato deve
perciò porsi al servizio della persona, deve corrispondere alla sua effettiva relazionalità,
riconoscendo e “proteggendo” le formazioni sociali ad esso pre-esistenti. 5 di 12
2.3. L’autonomia è delle persone o delle istituzioni?
L’autonomia è caratteristica precipua di ciascuna persona, in quanto essere libero e
responsabile del proprio agire, perciò non può essere attribuita ai “sistemi”, alle “istituzioni”
⟹
ed alle “organizzazioni” da lei costituite (lo Stato) occorre evitare il rischio
dell’oggettivazione, ovvero il pericolo di considerare i “sistemi”, le “istituzioni” e le
“organizzazioni” come enti esistenti in sé e per sé, e non come prodotti dell’agire
⟹
autonomo, libero e responsabile delle persone che li hanno costituiti poiché l’autonomia
è delle persone e non delle organizzazioni, si può parlare di “scuola autonoma” se con
questa espressione ci si riferisce alle persone che, dentro “quella” scuola o in tutte le
scuole, sono titolari dirette della libertà/responsabilità e della relazionalità dei processi di
insegnamento/apprendimento che adoperano per educare (lo stesso vale per le
organizzazione o le istituzioni dette autonome, definite come tali solo se gli attori che vi
operano sono autonomi).
Il problema di fondo di organizzazioni, sistemi, istituzioni (anche lo Stato) di qualunque tipo
è costituito non tanto dalle “cose” di cui hanno bisogno per costituirsi o dai “comportamenti
routinari” codificati che ne qualificano la funzionalità, ma dalle “decisioni” che le persone
che hanno relazioni con loro prendono, per produrre le “cose” di cui hanno bisogno e per
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“codificare i comportamenti” indispensabili al loro funzionamento (Luhmann)
organizzazioni, sistemi, istituzioni devono incarnare il desiderio di avere a che fare con
persone autonome libere/responsabili e relazionali che devono produrre anche cose.
Per evitare il rischio dell’oggettivazione, i “sistemi”, le “organizzazioni” e le “istituzioni”
dovrebbero:
- considerare ogni persona quanto di più perfetto possa esistere
- considerare ogni persona conscius sui (consapevole di sè) e compos sui (responsabile
dei propri atti), cioè autonoma
- premiare chi “non si lascia calpestare impunemente da altri nei suoi diritti” (Kant) e
penalizzare chiunque accetti senza reagire un sopruso alla propria dignità
- produrre regole costitutive del proprio funzionamento, norme che ampliano le occasioni
di esercizio della libertà/responsabilità
- non peccare di dirigismo, di pianificazionismo, di programmazionismo, di tecnicismo,
convinte di essere investite della missione volta alla riformatio delle persone e del corpo
sociale
- agire ritenendo la persona “attività suprema”, “diritto sussistente”, fine verso cui disporre
tutto, non un “secondo popolo” da plasmare.
→
[Hobbes e la legge moderna Per il filosofo inglese Thomas Hobbes, ogni decisione
presa a livello statale, emanando leggi che valgono per tutti e che tutti devono rispettare
pena la punizione, abroga la libertà di ciascun individuo, in quanto potenzialità, poter fare.
Alla base del rapporto individuo-Stato moderno, vi è una visione di uomo come homini
lupus, cioè come colui che utilizza la propria libertà e la propria responsabilità contro gli
altri, entrando in competizione con loro per sopraffarli. Non c’è così spazio né per la
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