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STORIA DELLA PEDAGOGIA DEL LAVORO
Affrontiamo i diversi passaggi che hanno caratterizzato nel tempo la lettura del concetto di
lavoro. Tutto inizia nella dicotomia che esisteva nel passato (mondo greco antico e romano
in seguito all’ellenizzazione) tra otium e negotium: otium indicava le attività intellettuali e
spirituali, mentre il negotium indicava le abilità manuali e produttive. La parola “scuola” (dal
greco scholè) indicava il tempo non occupato dal lavoro o da altre attività di tipo
utilitaristico, ossia il tempo riservato alla cultura dell’animo e alle occupazioni
disinteressate. Il concetto di lavoro, prima dei pensatori greci come Aristotele e Seneca,
non era visto come qualcosa di negativo: Esiodo -> sottolineava il collegamento tra lavoro
e dignità della persona; con Esiodo si passa ad una visione più terrena del lavoro, legata
alla fatica e, soprattutto, alla dignità di chi lavora, specie nei campi, di contro al
parassitismo sociale di chi sfrutta il lavoro altrui (non era ancora presente l’idea di otium).
L’idea di giustizia si fondava sull’etica del lavoro.
Nelle varie lingue, il termine lavoro indica pena, sforzo, travaglio -> l’idea di fondo è che il
lavoro sia fatica. Con Platone e Aristotele assistiamo, altresì, all’apologia della
contrapposizione tra dimensione manuale-operativa e dimensione intellettuale.
Aristotele: secondo Aristotele, ad esempio, è da lodarsi l’educazione umanistica
dell’uomo “bello e buono”, mentre sono da ritenere “ignobili tutte le opere, i mestieri, gli
insegnamenti che rendono inadatti alle opere e alle azioni della virtù il corpo o l’intelligenza
degli uomini liberi”. Nell’antichità, soprattutto con Aristotele, vi è l’idea di una differenza tra
l’azione lavorativa che non valorizza la finalità ultima dell’uomo e la dimensione intellettiva.
Le dimensioni dell’agire umano si dividono in:
- agire produttivo: idea a cui corrisponde un’abilità tecnica. All’interno dell’abilità tecnica si
trova la finalità ultima dell’idea che diventerà il prodotto. Il lavoratore, nel produrre
qualcosa, deve ispirarsi a una finalità che si trova all’interno della tecnica di produzione
(trova la sua perfezione nell’abilità - téchne - operativa posseduta). Il suo compimento è
dato dal bene prodotto; 4
- agire etico-sociale: è guidato da un ideale (il bene) e può realizzarsi tramite una
particolare disposizione interiore detta prudenza (phrònesis), che consiste nella
capacità di prendere decisioni prudenti e responsabili. Il suo compimento sta nella
crescita virtuosa di chi agisce bene e di chi ne è coinvolto. L’idea che ispira questo agire
è un valore dell’uomo, è la saggezza.
Aristotele coglie una delle differenze centrali nel concetto di competenza; la competenza a
produrre, se è vista come un insieme di abilità tecniche, è la competenza fordista. Ma se
consideriamo competente colui che prende decisioni in termini di autonomia e
responsabilità di ciò che sta facendo allora anche se produce è considerabile vicino alla
dimensione etica dell’agire.
La figura dell’artigiano: a metà tra lo schiavo e il libero. Egli produce, ma non solo; il
falegname, il tecnico di laboratorio e il direttore d’orchestra sono tutti artigiani. Svolgono
un’attività pratica, ma il loro lavoro non è semplicemente un mezzo per raggiungere un fine
di un altro ordine. A loro sta a cuore il lavoro ben fatto per se stesso (ci mettono tutto il loro
amore -> nella fabbricazione non vi è solo la tecnica ma anche l’amore) -> gli artigiani
mettono un impegno personale nelle cose che fanno.
L’artigiano nell’antica Grecia: l’artigiano civilizzatore è colui che ha usato quegli attrezzi
per un bene collettivo, per porre fine all’esistenza nomadica di un’umanità di cacciatori-
raccoglitori e di guerrieri senza radici. Appunto perché la manifattura aveva liberato gli
individui dall’isolamento, personificato dai cavernicoli Ciclopi, artigianato e comunità erano,
per i greci arcaici, indissolubili.
L’idea dell’artigiano come Demiurgo unisce le idee di pubblico e di produzione:
Demiourgos = Demios (appartenente al popolo) e Ergon (opera, lavoro). I demiourgoi,
oltre ai lavoratori manuali specializzati come i vasai, comprendevano i medici, i magistrati,
gli araldi o banditori, che annunciavano nelle strade notizie di interesse pubblico.
Aristotele - Metafisica: “perciò noi riteniamo che coloro che hanno la direzione nelle
singole arti siano più degni di onore e posseggano maggiore conoscenza e siano più
sapienti dei manovali, in quanto conoscono le cause delle cose che vengon fatte..”.
Aristotele: io fabbrico la casa (agire poietico: la finalità non permane, il senso dell’azione è
l’oggetto esterno), io guardo il tramonto (agire prassico: la finalità permane alla produzione
stessa). Nella poietica distingue persone che agiscono in modo poietico senza capire il
perché (manovali -> rispondono ad una tecnica su indirizzo degli altri) e persone che
agiscono in modo poietico conoscendo le cause di ciò che fanno (vi è una dimensione
tecnica, ma nello stesso momento essa permane nel tempo). Nonostante il polo
dicotomico, anche all’interno del lavoro poietico è possibile trovarvi una finalità.
Platone - Simposio: Platone ricollegava l’abilità tecnica al verbo poiein, “fare”; da poiein
deriva la parola “poesia” e i poeti sono nominati tra i vari tipi di artigiani: “benché gli
artigiani fossero tutti poietai (…) non sono chiamati così, hanno altri nomi”.
Nei cinque secoli trascorsi tra la redazione dell’inno a Efesto e i tempi di Platone, qualcosa
evidentemente era andato perduto.
Hannah Arendt - Vita Activa - La condizione umana (1958): Hannah distingue l’animal
laborans in quanto essere umano simile ad una bestia da soma, condannato alla fatica e
alla routine dall’homo faber inteso come uomo in quanto artefice, creatore. Egli è il
giudice del lavoro e delle pratiche materiali; non un collega dell’animal laborans, ma il suo
superiore.
Per la prima volta si riesce a capire se un lavoro può essere interpretato come lavoro
generativo o produttivo; oggi: il lavoratore deve essere consapevole del perché sta
facendo una determinata azione e deve avere l’opportunità di aggiungere al lavoro che fa
qualcosa che faccia in modo che il fine della sua azione permanga nel tempo (logica
generativa).
Il pensiero cristiano e i valori sociali fondativi del lavoro: altra grande famiglia di
pensatori. Nella Bibbia, infatti, il lavoro è collegato alla condanna: “mangerai il pane con il
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sudore della fronte” (Bibbia - Genesi 3,19) e “chi non lavora non mangia” (San Paolo, dai
Vangeli). Il lavoro, però, non è inteso come una fatica che isola l’uomo, anzi. Il lavoro
dell’uomo riproduce la fatica che ha fatto Dio nel creare il mondo: “Il signore Dio prese
dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden affinché lo lavorasse e lo custodisse”.
Inizialmente, il concetto di lavoro non è negativo (prima del peccato originale); prima della
cacciata dall’Eden uomo e lavoro sono indissolubili; il lavoro, quindi, è attività connaturata,
intrinseca all’uomo così creato, per effetto d’una missione comandatagli direttamente dal
Creatore. Come in un circolo virtuoso, l’uomo è chiamato, attraverso la sua operosità, a
dare pieno compimento di sé, ma anche a completare, per così dire, il lavoro divino,
assoggettando la natura per dedurne nuove risorse utili a vivere meglio e ad umanizzarsi
adeguatamente secondo il disegno di Dio. L’uomo si fa co-creatore simile a Dio con il suo
lavoro. L’uomo, attraverso il suo lavoro, completava il progetto che Dio gli aveva dato e se
stesso avvicinandosi alla perfezione divina (idea di fondo positiva prima del Vecchio
Testamento).
La maledizione: ad Adamo disse “poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai
mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: non ne devi mangiare, maledetta sia la
terra per causa tua! con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi
produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane;
finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai
(circolarità della vita -> l’uomo può custodire la terra ma non possederla). L’uomo capirà
così la fatica che aveva fatto Dio, che ha deciso di sfidare senza capire il fine per il quale
era stato posto lì. L’uomo e la donna dovevano completare il progetto divino, non erano
semplicemente una forza procreatrice.
Idea di positiva del lavoro è presente anche nel Nuovo Testamento (nella misura in cui
porta a compimento il progetto divino): tutti gli Apostoli, infatti, erano degli artigiani; Gesù
stesso lavora da falegname, così come tutti gli Apostoli hanno un’occupazione manuale e,
prima di loro, la stirpe che procede da Adamo ed Eva fino a Davide.
San Paolo (I sec. d.C): chi lavora ha diritto ad una paga, a ricevere una remunerazione
adeguata in base a quello che fa (= Marx); chi non lavora non ha il diritto di avvantaggiarsi
del lavoro altrui, quindi nemmeno il diritto di nutrirsi.
San Benedetto da Norcia (V-VI sec.): ora et labora: “una mutata concezione dell’ozio:
non più l’otium dell’uomo libero o il non-lavoro del poltrone esiodeo, bensì un ozio
negatore della virtù e quindi fonte di vizi (oziare non è positivo), momento di cedimento al
disordine morale che porta il monaco a perdere tempo, rendendosi inutile da sé e
distraendo gli altri. Vi si propone il lavoro manuale come occupazione virtuosa, ad
imitazione degli Apostoli, poiché allora sono veramente monaci se vivono del lavoro delle
proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli”. Egli ribadisce l’importanza del lavoro.
Tommaso: per lui l’uomo “e tanto più perfetto egli è quanto più intende alle spirituali”.
Infatti: “vita contemplativa simpliciter melior est quam vita activa”. Il lavoro manuale è
tomisticamente di obbligo stretto quando non si abbia altro modo per procurarsi il vitto e le
vesti (la dimensione contemplativa è da preferire; il lavoro, però, consente alle persone di
vivere). Pur ribadendo il primato della spiritual