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3. ALTRE TEORIE: “CORTIGIANI” E “ITALIANI”

Bembo obiettava ai sostenitori della lingua comune che una lingua cortigiana

era un’entità difficile da definire in maniera precisa, non riconducibile

all’omogeneità. In effetti, proprio questo difetto fece sì che la teoria cortigiana non

uscisse vincente dal dibattito cinquecentesco. La teoria arcaizzante di Bembo aveva

su di essa il considerevole vantaggio di offrire modelli molto più precisi.Nel 1529,

Trissino diede alle stampe il De vulgari eloquentia di Dante, ma non nella forma

latina originale, bensì in traduzione italiana. Nello stesso anno egli pubblicò il

Castellano, un dialogo in cui sosteneva che la lingua poetica di Petrarca era composta

di vocaboli provenienti da ogni parte d’Italia, e non era quindi definibile come

fiorentina, bensì come italiana. La tesi di Trissino negava dunque la fiorentinità della

lingua letteraria e faceva appello alle pagine in cui Dante aveva condannato la lingua

fiorentina, contestandone ogni pretesa di primato letterario. Trissino, inoltre, aveva

proposto una riforma dell’alfabeto italiano, in particolare con l’introduzione di due

segni del greco, ipsilon e omega.

4. LA CULTURA TOSCANA DI FRONTE A TRISSINO E A BEMBO

La più interessante tra le reazioni fiorentine di fronte alle idee di Trissino è il

Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua attribuito a Machiavelli. Dante dialoga

con Machiavelli, facendo ammenda degli errori commessi nel De vulgari eloquentia,

ed è condotto ad ammettere di aver scritto in fiorentino, non in lingua curiale (cioè in

una lingua comune o cortigiana). Viene inoltre rivendicato il primato linguistico di

Firenze contro le pretese dei settentrionali. Ben presto si sviluppò una polemica

sull’autenticità del De vulgari eloquentia, favorita dal fatto che Trissino non rese mai

pubblico il testo originale latino dell’opera. Martelli, Gelli e Varchi individuavano

nell’opera delle contraddizioni rispetto alle idee espresse da Dante nel Convivio e

nella Commedia. Varchi affermò che il trattato conteneva vere e proprie sciocchezze,

cose che Dante non avrebbe mai potuto scrivere. Nella prima metà del ‘500, tuttavia,

gli intellettuali fiorentini non trovarono un modo efficace di contrapporsi alla tesi del

fiorentino arcaizzante di Bembo, che avversavano. Fu uno studioso senese, Claudio

Tolomei, a rimettere in gioco il volgare vivo, d’uso; egli parlò di un modello

“toscano”, non più specificamente fioretino. Nel 1570 uscì a Firenze e Venezia

l’Hercolano di Benedetto Varchi: egli ebbe il merito di introdurre il bembismo nella

città che gli era naturalmente avversa. La rilettura di Bembo condotta da Varchi non

fu affatto fedele, e anzi risultò alla fine un vero e proprio tradimento delle premesse

del classicismo volgare. Ciò servì però a rimettere in gioco il fiorentino vivo,

dandogli un ruolo e una dignità. Fu una vera e propria riscoperta del parlato. Per

Varchi la pluralità di linguaggi non va spiegata con la maledizione babelica, ma con

la naturale tendenza alla varietà propria della natura umana. Inutile veniva reputata la

ricerca del primo linguaggio umano. Il trattato di Varchi affiancava dunque al

modello linguistico bembiano la lingua parlata di Firenze. La revisione del bembismo

operata da Varchi vanificava l’austero rigore delle Prose della volgar lingua,

caratterizzate dalla loro attenzione per il ruolo dei grandi scrittori. L’Hercolano

sanciva invece il principio secondo il quale esisteva un’autorità popolare (seppure

non propria del popolazzo) da affiancare a quella dei grandi scrittori. Questi principi

permisero a Firenze di esercitare di nuovo un controllo sulla lingua.

5. LA STABILIZZAZIONE DELLA NORMA LINGUISTICA

Nel ‘500 si ebbero le prime grammatiche e i primi vocabolari, nei quali si

riflettono le proposte teoriche, in particolare quella di Bembo. Queste grammatiche

non si proponevano ambiziosi obiettivi teorici, ma avevano uno scopo eminentemente

pratico. Cosimo de’ Medici aveva chiesto all’Accademia fiorentina di stabilire le

regole della lingua in maniera ufficiale e per contro l’Accademia stessa non arrivò ad

un accordo. I vocabolari del ‘500 contenevano un numero relativamente limitato di

parole, ricavate da spogli condotti sugli scrittori, Dante, Petrarca e Boccaccio in

primo luogo. Il più noto vocabolario della prima metà del ‘500, strutturato in forma di

dizionario metodico, è la Fabbrica del mondo (1548) di Francesco Alunno di Ferrara.

La grammatica di Bembo influenzò l’esito di un grande capolavoro quale l’Orlando

furioso, perché Ariosto corresse la terza e definitiva edizione del poema seguendo

proprio le indicazioni delle Prose. Tra le correzioni si ricordano la sostituzione

dell’articolo maschile el con il, le desinenze del presente indicativo prima persona

plurale regolarizzate in –iamo e la prima persona singolare dell’imperfetto in –a alla

maniera dei trecentisti.

6. IL RUOLO DELLE ACCADEMIE

Pietro Pomponazzi detto il Peretto (1462-1524) dichiarava che la filosofia

avrebbe dovuto essere trasportata dalle lingue classiche alla lingua volgare, con

ricchezza di traduzioni e con conseguente modernizzazione e democratizzazione della

cultura. Il latino e il greco gli sembravano un ostacolo alla diffusione del sapere. Le

accademie svolsero nel ‘500 una funzione di primo piano, in quanto in esse si

organizzarono gli intellettuali e vennero dibattuti i principali problemi culturali sul

tappeto. La più famosa accademia italiana che si occupò di lingua fu quella della

Crusca, ancora oggi attiva. La sua fondazione risale al 1582. La Crusca, nella prima

fase della sua esistenza, si fece conoscere per la polemica, condotta soprattutto da

Salviati, contro la Gerusalemme liberata di Tasso. Lo stesso Salviati conduce un

intervento sul testo del Boccaccio per spurgarlo dalle parti ritenute moralmente

censurabili.

L’intervento di una censura moralistica, certo repellente al nostro gusto di moderni, fu

dunque, per paradosso, l’occasione per la nascita e lo sviluppo di un’attenzione

filologica per il testo del Decameron.

Nel 1590 l’Accademia deliberò di rivedere e correggere il testo della Commedia di

Dante. Nel 1595 uscì a Firenze La Divina Commedia di Dante Alighieri ridotta a

migliore lezione dall’Accademia della Crusca.

7. LA VARIETA’ DELLA PROSA

Molte parole italiane, relative all’architettura civile e militare, entrarono anche

nelle altre lingue europee, così ad es. facciata (fr. Façade, sp. Fachada). Senza dubbio

le traduzioni dei classici costituiscono un capitolo fondamentale per la storia

dell’italiano. Proprio nel confronto col latino, la lingua italiana affinò le proprie

capacità e sperimentò le proprie potenzialità. La traduzione fu il settore che meglio

funzionò come banco di prova delle capacità dell’italiano. Nel 1532 fu stampato a

Roma il trattato De principatibus di Machiavelli, prosa molto diversa dal modello

proposto da Bembo. Machiavelli scrive in un fiorentino ricco di latinismi come tamen

e etiam, che non hanno una funzione nobilitante ma piuttosto ricollegano questa

scrittura a quella quattrocentesca di tipo cancelleresco. Il volgare prevaleva nel

settore della scienza applicata o diretta ai fini pratici, non nella ricerca di tipo

accademico. La scelta del volgare acquista tuttavia un rilievo particolare nel caso di

Galileo. Rinunciando al latino, Galileo finiva per pagare un prezzo: il volgare, infatti,

aveva lo svantaggio di limitare la circolazione internazione. Galileo era cosciente del

fatto che l’italiano era in quel momento molto meno vantaggioso del latino per una

comunicazione con gli scienziati degli altri stati europei. Al di fuori della letteratura,

nei settori pratici, nel ‘500 si assiste ad una crescita sostanziale dell’impiego della

lingua italiana. Aumentano le occasioni di scrivere, cresce l’uso della lingua, a volte

utilizzata anche da persone di scarsa cultura. Ovviamente le scritture popolati e

semipopolari sono caratterizzate da regionalismi e dialettismi. Il modello omogeneo

di lingua toscana diffuso con il successo delle teorie di Bembo e con la produzione

grammaticale e lessicografica agiva solo sugli scriventi colti.

8. IL MISTILINGUISMO DELLA COMMEDIA

Fin dalla prima metà del ‘500 la commedia si rivelò come il genere ideale per

la realizzazione di un vivace mistilinguismo o per la ricerca di particolari effetti di

parlato. La caratteristica più evidente della lingua della commedia è data dalla

compresenza di diversi codici per i diversi personaggi, secondo le tendenze che

presto finirono per cristallizzarsi: agli innamorati si addice il toscano, ai vecchi il

veneziano e il bolognese, per i capitani e per i bravi è adatto lo spagnolo, ai servi

conviene il milanese, il bergamasco o il napoletano.

Quanto all’uso caricaturale del dialetto, sarà da osservare che alcuni autori

introducono personaggi che sanno utilizzare diverse parlate.

9. IL LINGUAGGIO POETICO

Il petrarchismo è caratteristico del linguaggio poetico cinquecentesco: vi è la

scelta di un vocabolario lirico selezionato e di un repertorio di topoi. I rapporti tra

Tasso e la Crusca costituiscono un capitolo celebre e doloroso nelle discussioni

linguistico-letterarie della fine del ‘500. Tasso non mise mai in discussione la

sostanziale toscanità della lingua italiana. Non riconobbe però il primato fiorentino.

La polemica con la Crusca non toccò mai la sua poesia lirica, né i versi dell’Aminta,

ma il poema. Tra le accuse rivolte al Tasso epico, quella riguardante lo stile, che era

giudicato oscuro, distorto, sforzato, inusitato, aspro; la sua lingua era giudicata

“troppo culta”; il suo linguaggio era visto come un mistura di voci latina,

pedantesche, straniere, lombarde, nuove, composte, improprie; i suoi versi erano

giudicati aspri. I cruscanti giudicavano che Tasso, rispetto ad Ariosto, non fosse facile

da intendere, specialmente quando le sue ottave venivano ascoltate durante una

lettura ad alta voce; Tasso costringeva dunque il suo pubblico alla lettura silenziosa, a

un esame visivo del testo, e questo era un modo per superare l’ostacolo della legatura

distorta. Anche sul lessico i puristi trovano da ridire, in quanto Tasso avrebbe usato

un numero eccessivo di latinismi e alcune parole lombarde. Il latinismo era non di

rado una validissima alternativa al fiorentinismo, e come tale non era gradito ai

fiorentini. Il latinismo lessicale è uno degli elementi utilizzati per fare conseguire alla

poesia, e soprattutto a quella epica, il livello ele

Dettagli
Publisher
A.A. 2018-2019
42 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/12 Linguistica italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher de.laviola di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Linguistica italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi della Basilicata o del prof Del Puente Patrizia.