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8. L'ETA' DELLO STANDARD LINGUISTICO: IL LATINO IMPERIALE
§ 146. L’epoca del latino imperiale, cioè il periodo che comprende gli anni tra la morte di Augusto e
la morte di Commodo, vide in (vedi scchema) l’area del latino giungere alla sua masima espansione
occidentale, guadagnando fra l’altro i territori transdanubiani della Dacia, nei quali, anche dopo la
smobilitazione romana del 271-274 d.C., la presenza latinofona rimase così consistente da dar vita,
dopo la fine dell’antichità e fino ai giorni nostri, al dominio romanzo del rumeno.
L'impero bilingue § 149. Il riconoscimento del greco come seconda lingua ufficiale dell’impero
non intaccava il principio secondo cui il diritto di appartenenza al consorzio civico romano era
indissolubilmente legato alla conoscenza del latino. Al di là di questo principio, però, nessun
imperatore adottò provvedimenti espliciti per incrementare la diffusione o imporre l’apprendimento
del latino nelle province grecofone.
espansione del latino in Occidente § 150. Nelle province occidentali, il non parlare nessuna delle
due lingue principali dell’impero rappresentava un tale ostacolo all’integrazione nella società
romana, che i soggetti di lingua “barbara” erano perciò stesso motivati a latinizzarsi. Favorirne la
romanizzazione anche linguistica era peraltro uno dei modi con cui il governo imperiale poteva
accattivarsi la fedeltà delle élites locali e, per loro tramite, l’accettazione dell’egemonia romana da
parte delle popolazioni sottomesse. Ad Occidente la latinizzazione dei territori extraitalici avanzò
pertanto a grandi passi, e così pure l’integrazione culturale delle popolazioni autoctone, cui diede un
certo impulso la diffusione e l’azione unificatrice della scuola.
§ 152. Anche se per la società latinofona Roma rimase fino alla fine del II sec. d.C. la principale
fucina culturale dell’impero, in tutte le realtà cittadine dell’Occidente romano l’avvento del
principato produsse un incremento della scolarizzazione, che raggiunse livelli prossimi a quelli
dell’Oriente grecofono. Già negli ultimi decenni della repubblica, anche persone di modesta
condizione erano state in grado di accedere all’istruzione superiore.
§ 153. La fine delle guerre civili e l’avvento del principato riportarono pace sociale, stabilità e una
generale ripresa economica sia in Italia che nelle province, e il maggior benessere portò a un
ulteriore incremento della scolarità anche presso i ceti bassi o medio-bassi. La formazione culturale
mantenne la sua funzione di distintivo sociale, ma la minoranza educata, prima davvero ristretta, si
estese alle necessità dei meccanismi gestionali dell’impero, il cui funzionamento prevedeva accanto
ai ruoli dirigenti, una buona quantità di mansioni subalterne accessibili a persone di umili origini,
purché dotate di un minimo di istruzione. Capacità individuali e un’istruzione di livello superiore
aprivano concrete prospettive di carriera e quindi di miglioramento economico e sociale. La grande
quantità di transazioni commerciali e finanziarie nel “mercato globale” dell’impero alimentavano
dovunque attività terziarie di tipo contabile e notarile, per non parlare delle inevitabili ripercussioni
nell’ambito della giustizia civile, che in qualsiasi località di media importanza metteva in moto una
vasta categoria di avvocati, di rappresentanti e di consulenti legali. Lo stesso esercito, la cui
amministrazione impegnava un gran numero di contabili e di scritturali, era interessato a reclutare
soldati istruiti.
La possibilità di miglioramento economico e di ascesa sociale legata ai lavori “di concetto”
esercitava una notevole attrattiva, tanto più che almeno l’istruzione di base non comportava una
spesa eccessiva, perché il mestiere dell’insegnante elementare era mediamente mal remunerato.
Il sistema scolastico § 154. il governo centrale lasciò l’istruzione in mano alle iniziative locali e a
carico delle amministrazioni cittadine: tutta la politica scolastica dell’impero consisté nel dettare la
normativa cui le città dovevano attenersi per l’arruolamento di insegnanti a spese pubbliche, e nel
premiare la docenza d’élite con riconoscimenti sociali e agevolazioni fiscali. Almeno fin dai tempi
di Vespasiano (69-79 d.C.), ai professori di latino e di greco furono accordate determinate esenzioni
fiscali valide nelle città in cui insegnavano, ma più tardi una disposizione di Antonino Pio (138-161
d.C.) limitò il numero di questi insegnanti privilegiati, divenuti evidentemente troppi. Non furono
previsti finanziamenti statali, e per dotarsi di scuole di qualità le comunità cittadine dovettero
attingere ai loro bilanci ordinari e quindi far gravare la spesa sui contribuenti, ovvero affidarsi a
iniziative private o sperare nella beneficenza di ricchi concittadini dotati di senso civico non meno
che di amor proprio.
Scuole e centri d’insegnamento fiorirono dovunque, diffondendo in tutto l’impero il curriculum di
studi medi e superiori già da qualche tempo abituale nel mondo ellenico, con il corso di grammatica
greca e latina, seguito dal corso di retorica. La formazione di chi faceva studi completi era
incentrata sulle competenze linguistiche, e in particolare sul dominio degli stili “alti” e formali del
latino e del greco, ed era interamente vòlta a dotare gli individui della cultura e delle nozioni
tecniche necessarie alla comunicazione orale e scritta condotta su basi scientifiche.
§ 155. Questo sistema scolastico contribuì alla diffusione di quella lingua standard che si era venuta
consolidando nel corso dell’età classica. già nella prima metà del I sec. d.C. la norma linguistica si
era definitivamente fissata.
§ 156. La retorica tardorepubblicana aveva mantenuto lo sguardo fisso sull’efficacia comunicativa
dell’eloquenza; Per la retorica di età imperiale il parlare quotidiano era invece quel “grado zero”
della lingua, banale e disadorno, da cui si doveva sistematicamente rifuggire con un’adeguata dose
di formalismo.
§ 159. Nei primi decenni del I sec. d.C. prevalse una corrente “modernista”. nel II sec. d.C., come
reazione a mezzo secolo di classicismo trionfante, una lunga stagione arcaizzante promuoverà il
revival dell’oratoria e della lingua di età preciceroniana, cioè del II sec. a.C. Tuttavia l’obiettivo
della scuola rimase sempre il “bello stile”, e gli stessi rimasero gli strumenti per conseguirlo: lo
standard linguistico perpetuato dalle cattedre dei grammatici, e le tecniche compositive apprese nel
corso di retorica.
§ 160. I grammatici insegnavano le regole della lingua standard e i procedimenti stilistici leggendo
e commentando i “classici” sia di prosa che di poesia.
§ 161. Così, quanto più la cultura di scuola spingeva la prosa a “poetizzarsi” e la poesia a
“retorizzarsi”, tanto più si attenuavano le differenze linguistiche e stilistiche tra i due versanti,
fondendosi e mescolandosi in una comune lingua d’arte preziosa e aristocratica, lontana dall’uso
parlato, che si proponeva come lingua formale e come lingua di cultura, nonché come modello della
lingua scritta in genere. a partire dall’età imperiale cominciò a farsi più sensibile la divaricazione tra
il latino scritto, sottoposto al purismo linguistico dei grammatici e alla disciplina formalistica della
retorica, e il latino parlato. Il quale, dal canto suo, stava lentamente ma inesorabilmente mutando
“nelle varie regioni e nel tempo”. 9. LE TECNICHE DEL LIBRO
§ 162. affermazione di una cultura libraria dovuta all’influsso greco e all’ellenizzazione della
società romana. Oggetti rari nel III sec. a.C., nel II i libri iniziarono a divenire una stabile presenza
nella vita quotidiana delle classi colte, con la nascita di biblioteche private. Nel I sec. a.C. gli
interessi culturali diedero impulso al commercio e alla circolazione libraria, e con l’età augustea
iniziò la fondazione di biblioteche pubbliche.
Gli strumenti dello scrittore
Le tavolette cerate § 164. Il mezzo di gran lunga più diffuso per ogni tipo di scrittura erano delle
lavagnette di faggio, abete ecc., in cui una cornice rialzata delimitava un’area centrale riempita di
cera: la scrittura avveniva incidendo lo strato di cera mediante una lancetta metallica, detta stilus
dotata di un’estremità appuntita per tracciare le lettere e di una appiattita a mo’ di spatola per
cancellarle.
§ 165. Le tabellae cerate si usavano singole o più spesso in serie, in numero di due o più
incernierate insieme a formare dei díttici o dei políttici che si aprivano a mo’ di libro. Dal nome
latino cōdex ‘tronco, pezzo di legno’, tali “quaderni” di tavolette erano detti codices o, se di piccolo
formato, codicilli, oppure, poiché si tenevano agevolmente in una mano, pugillares o pugillaria (da
pugnum ‘pugno, mano chiusa’).
§ 166. Su codices di tavolette erano redatti verbali, registri contabili, memorie processuali, atti
giuridici e scritture notarili, testamenti, contratti, ricevute e svariati altri tipi di documento di natura
pubblica o privata, anche quando destinato alla conservazione negli archivi, i quali prendevano
perciò il nome di tabularia. Su tabellae o pugillares, avveniva molta parte della corrispondenza
privata, dalle ingiunzioni di pagamento ai biglietti d’amore, dagli inviti ai messaggi augurali e via
dicendo, e almeno in età repubblicana questo era stato il mezzo più consueto anche per la
corrispondenza pubblica (di qui il nome del tabellarius, che era la parola latina per ‘messaggero,
portalettere’).
Le membranae § 167. l’alternativa più comune alle cerae erano dei taccuini in cui le tavolette
erano sostituite da fogli di pergamena chiamati sempre codices, codicilli, pugillares oppure
membranae. Anche se, a differenza delle tabellae, vi si scriveva con calamo e inchiostro, anch’essi
si potevano in qualche modo “riciclare” lavando via la vecchia scrittura o raschiandola con la
pomice. A partire dall’età augustea, questi manufatti sono regolarmente menzionati come supporto
abituale di abbozzi e stesure provvisorie.
La dettatura § 168. Chi poteva permetterselo preferiva dettare (dictāre) ciò che aveva in mente,
fosse una semplice missiva d’affari o un’intera opera letteraria, a quello che in latino si diceva
notarius, in greco tardoimperiale ‘tachígrafo’ e che