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11. LA PIETRA LUNARE DI TOMMASO LANDOLFI.
Il primo romanzo di Landolfi, La pietra lunare, sembrò essere meno trasgressivo sotto il profilo
linguistico rispetto ai racconti di Dialogo dei massimi sistemi e Il mar delle blatte; è un romanzo
fantastico, incorniciato da due citazioni romantiche, una di Novalis e una di Leopardi, che può
sembrare un ritorno al classico, quasi assimilabile alle opere che parlavano di matrimonio tra Cielo
e Inferno o comunque di questo stampo; si rivela invece trasgressivo proprio come gli altri racconti
e la vera protagonista continua ad essere la parola.
Si racconta dell’amore di Giovancarlo, studente sena lavoro e senza età, per Gurù, metà donna e
metà capra ed è come se Landolfi narrasse del suo amore per la parola e del suo desiderio
attraverso la parola, Gurù infatti altro non è che il linguaggio stesso. sin da ragazzo infatti l’autore
avrebbe voluto creare un proprio linguaggio, così Giovancarlo che si addentra nell’universo
stregato e inverosimile di Gurù, ma se ne allontanerà poi per tornare alla normalità; anche Landolfi
quindi incassa la sua sconfitta.
Si dice che in questo romanzo Landolfi procede a caporitto, quando la teatralizzazione si
impadronisce delle scene di provincia, e a capofitto, quando tra simboli e figure descrive scene
lunari e demoniache; le parole che ricerca l’autore sono quelle tronfie, che gli nascono nel cervello,
quelle figurate, retoriche e che contemplano anche l’errore, inteso come rischio, violazione, come
miscuglio inteso nel senso landolfiano, cioè passare dal sopra al sotto, da uno stato all’altro, dove
la metamorfosi è normalità e l’ossimoro domina e tutto ciò lo ritroviamo proprio in Gurù, una
donna-capra, con la voce soffice e rauca, con le gambe da donna e i piedi di capra, con gli occhi
vestiti di pudore e lussuria.
Il dualismo tra realismo e surreale, tra fantasia e paradosso, sono vie di fuga dai limiti imposti,
spontaneità e naturalezza, così anche la familiarità per l’orrido e per il grottesco, diventano invece
desiderio di liberazione, di immersione nello stato di natura, inconscio e magico, dove l’uomo non è
più distinto dalle cose e le parole partecipano alle cose stesse.
Landolfi si muove tra il mondo solare, quello realistico e con creature a caporitto (il paese), e quello
lunare, simbolico e a capofitto (la foresta); il romanzo sembra essere condotto secondo la struttura
classica, con indizi, pause e ritardi e così l’impianto sintattico, anche se c’è poi una divaricazione
evidente tra sintassi e lessico che deriva proprio dal gioco dell’autore, che esce dal mondo in cui le
parole sono statiche per infilarsi in un mondo in cui le parole vengono rigenerate.
In La pietra lunare vediamo una vera e propria disumanizzazione della donna, quella del mondo
solare come donna borghese, madre, moglie e figlia, descritta con fattezze molli e cadente, pance
gonfie, gambe muscolose; ancora una volta la messa in ridicolo dei tabù legati alla donna, si può
dire. La donna lunare, Gurù, invece ha il ventre piatto ed è sterile, nervosa, demoniaca; se
solitamente, come appurato da Frye, la relazione erotica di tipo demoniaco è simboleggiata da
streghe, sirene o simili, Landolfi fuoriesce dagli schemi e utilizza la donna-capra, sintesi perfetta
della sua visione di un universo reversibile e scambiabile, come emerge dalla scena
dell’accoppiamento tra la capra e la donna, con uno scambio di ruoli e connotati che ricorda una
vera e propria metamorfosi.
E ancora tale processo viene associato alla materia, non a caso le più belle immagini della luna o
della natura godono della lucentezza e della materialità dei minerali, a sostituire un’umanità
degradata; il gioco di Landolfi ha il suo punto massimo proprio nella violazione del linguaggio
convenzionale e ciò emerge in particolar modo dall’ultima tappa del viaggio di Giovancarlo, quando
arriva alla presenza delle tre Madri, proprio al punto di congiunzione tra vita e morte. rapimento,
vertigine, fascinazione e possesso di Giovancarlo sono espresse attraverso visioni stilizzate con
un lessico che esprime terrore e gelo e impossibilità ,che fanno quindi riferimento al campo fisico e
corporeo, pur essendo lo stupore del ragazzo di tipo intellettuale e non erotico; a questo punto
Giovancarlo si trova di fronte a un codice linguistico nuovo che può assimilare o dal quale può
fuggire, rispettivamente esistere o non esistere, ciò viver nel reale, come fa il ragazzo che pur
avendo visto la nuova realtà sceglie di non fondersi con essa.
12. PAOLA MASINO.
Paola Masino è nota soprattutto per il romanzo Nascita e morte della massaia, che l’autrice
stessa presentò come simbolo della speranza non solo in alcuni momenti della storia ma anche in
alcuni momenti della propria vita, per questo spesso è stato visto come lo sfogo di una donna,
quindi di carattere essenzialmente femminista, ma il testo va ben oltre, volendo presentare le
sofferenze e le insoddisfazioni degli intellettuali non allineati in quegli anni.
Spunto del romanzo si pensa essere stato un soggiorno della scrittrice con il compagno, Massimo
Bontempelli, presso Venezia, non vissuto bene dalla Masino, che si sentiva calata in un ruolo che
non le apparteneva; secondo l’autrice l’arte non poteva fermarsi al costume contemporaneo ma
doveva arrivare a toccare l’universale, quindi il suo romanzo non si fermava alle farneticazioni di
una massaia ed è proprio per questo che, pur avendo la Masino pochi lettori, il regime bloccò la
pubblicazione come disfattista, dato che pretendeva di evadere da rigide serietà, falsità e retorica.
Era già avvenuto che la rivista Le Grandi firme fu chiusa per aver pubblicato un suo racconto,
Fame, ritenuto scabroso e offensivo per la morale comune.
Anche in America la Masino si era guadagnata la fama di antifascista e ciò si vede confermato
quando Nascita e morte della massaia comincia ad essere pubblicato a puntate ma con le dovute
eliminazioni di riferimenti al regime; prono per la pubblicazione con Bompiani,. Nel ’44 la tipografia
viene bombardata e solo due anni dopo il libro sarà stampato con un disegno di de Chirico in
copertina; sarà solo con la ristampa del 1978, con la copertina di Savinio, che esso riceverà le
attenzioni dovutegli.
La scelta della copertina non è casuale, si ricorda che i fratelli de Chirico sono infatti ritenuti come i
maggiori esponenti della metafisica e come i precursori del surrealismo, infatti il romanzo richiama
atmosfere tra il metafisico e il surreale. Si presenta effettivamente come un pastiche tra le
scenografie dell’Ebdomero e dei racconti saviniani, plasmando dall’altra parte situazioni sospese in
uno spazio intriso di vuoto e morte che ne fanno una scrittura personalissima.
Una vita passata senza aver vissuto ma condotta sul filo di una follia latente e paranoica fino ad
organizzare il proprio funerale è quella della massaia, la cui vicenda è proprio legata da un filo
conduttore che è la morte, l’interrogazione su di essa, la paura di essa, la rassegnazione: tutto ciò
sfocia in desiderio di morte, arrivando a una sorta di suicidio psicologico dato dalla sua costante
preoccupazione di gestire tutto, dalla casa alla sua stessa morte.
Sin dal titolo, il romanzo è proiettato sulla fine, attraverso un percorso fatto da invenzioni, funzioni,
illusioni e fughe, intesa sostanzialmente come fuga dalla società, tanto che ciò che resta in bocca
a fine lettura è un vuoto opprimente, l’impressione di vivere in un universo senza scopi e di uomini
pieni di colpe; scene e sequenze si accumulano senza seguire una vera trama, infatti segue poche
coordinate quali infanzia, matrimonio, guerra e morte; il passato si presente come elemento di
raccordo tra il passato e il futuro, i ricordi e la morte quindi.
Il presente è invece uno stato di trance in cui vive la massaia, ritagliata in due poli che sono spazio
e tempo intesi come categorie mentali e astratte, lontane dalla vita degli individui normali. L’unico
tempo felice è quello vissuto in un baule, fino a 18 anni, dove dormiva, mangiava, leggeva e
viveva, in una condizione paradossale; lì poté imparare a ragionare da sé e a chiedersi il senso
delle cose che la circondano, protetta dal padre e ancora lontana dalle grinfie di una madre che
rappresenta la classica donna borghese.
Il baule va inteso comunque come spazio mentale e astratto, come punto in cui confluiva ciò che
per il gusto comune è inutile e dove la bambina poteva fingersi tranquillamente morta, abituandosi
a vivere in questo modo con quello che resta di ogni cosa, la morte appunto. La fanciulla viene
inoltre trattata come fosse un oggetto, spolverata, lavata, benedetta durante il periodo pasquale;
tutto ciò è sinonimo dell’incomunicabilità che affligge la società.
La ragazza comincia a morire quando, arrivati i 18 anni, decide di accontentare la madre e uscire
in società, con tanto di festa di ingresso che non la rende meno distante dalla società borghese
falsa e senz’anima, sulla scia, seppur attenuata, di Pirandello. Da quel momento tra carnevalesco,
grottesco, nero fino ad arrivare all’assurdo e al paradosso la Masino ribalta gli schemi sociali ed
economici, attacca i modelli di convenienza con un espressionismo che naviga tra stili e generi
diversi e senza ordine, creando volontariamente confusione attraverso il passaggio inspiegato da
prima a terza persona nei monologhi della massaia.
Nei primi 18 anni di vita la bambina parlerà poco, il suo linguaggio sarà fatto di gesti, posture
insolite, mentre la madre e i familiari parleranno molto; molta importanza assume l’abito, marchio
dello stato d’animo e dello stato sociale che scandirà tutte le tappe della vita della massaia; l’abito
semplice indica libertà e rivolta, quello provocante segna il passaggio dalla fanciullezza all’età
adulta, l’abito turchino rappresenta l’amore mai raggiunto; la massaia vestirà in pigiama e vestaglia
durante una serata in maschera per dare uno schiaffo all’alta società e durante la guerra vestirà
con un sacco per solidarietà con la povera gente. Ma ottusità e indifferenza ne faranno un abito di
tendenza, tanto che anche le signore per bene indosseranno il saio.
Inoltre i personaggi hanno sempre a che fare con il cibo e sono ingordi, sinonimo dell’ingordigia
intellettuale e dell’inerzia esistenziale, mentre in altre prose, riguardo la guerra soprattutto, parlerà
della tragedia della fame e dalla carenza di cibo nelle sue storia si generano sentimenti puri come
solidarietà, il sacrificio, l