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L’apprendistato attraverso prove ed errori conferma le nostre osservazioni sulla ripetizione:
quest’ultima è feconda soltanto se permette ad ogni prova di eliminare una parte degli errori fatti
nel corso di quelle precedenti.
Il metodo.
Esiste un apprendimento metodico che riguarda soltanto l’uomo.
Il carattere che distingue il metodo dalla ricerca a tentoni è l’economia delle prove e soprattutto
degli errori. In tutti i casi il metodo consiste:
1. Nel prendere coscienza del fine, del modello da apprendere.
2. Nello scomporre questo modello in atti molto semplici affinché il soggetto possa eseguirli.
3. Nel concatenare progressivamente questi atti semplici.
4. Nel ricapitolare le prove fino all’eliminazione totale di ogni gesto parassita.
Questi ultimi tre punti corrispondono alle tre ultime regole del metodo di Cartesio.
Metodo e libertà
Il metodo è superiore al procedimento per tentativi?
La superiorità del metodo sembra evidente ed indiscutibile. Innanzitutto esso costituisce un
guadagno di tempo; inoltre, evita gli errori, permette di sopprimere i rischi.
Tuttavia, esiste una corrente che in nome della spontaneità rifiuta il metodo, in quanto
comporterebbe necessariamente l’intervento autoritario e repressivo del maestro.
Si può subito obiettare che non bisogna confondere il metodo con i suoi eccessi, così come non
bisogna confondere la non-direttività con la licenza o l’anarchia. Senza dubbio ogni metodo di
apprendimento è in sé stesso costrittivo, ma non si è necessariamente costretti ad adottarlo.
Va quindi detto che il metodo è veramente educativo soltanto se il soggetto ne comprende la
necessità.
Metodo analitico e metodo globale.
Si obietta che il metodo è analitico, basato cioè sulla scomposizione e la ricomposizione degli atti
da apprendere, mentre un metodo globale sarebbe nettamente più redditizio in quanto più
naturale.
Bisogna riconoscere al metodo globale un doppio vantaggio:
1. Comporta una fortissima motivazione.
2. È effettivamente più naturale rispetto al metodo analitico, cioè più conforme alla realtà
dell’apprendimento.
L’interesse del metodo globale consiste dunque nella forte motivazione all’apprendimento
ottenuta permettendo all’alunno stesso di scoprirne il valore. Ma globale non significa sregolato,
l’opposizione tra analitico e globale non è una opposizione tra la costrizione e il mero caso, ma tra
un metodo meccanico e un metodo che si basa soprattutto sulla libertà.
Metodo passivo e metodo attivo.
Il miglior metodo non può eliminare prove e tentativi, per due ragioni:
1. L’uomo che apprende, è corpo e spirito allo stesso tempo: se la mente comprende ciò che
va fatto, l’organismo non lo comprende altrettanto. Questo crea impotenza, fatta di
inquietudine, panico, tensione. Per far sì che cessi, è necessario un apprendimento che
lasci al corpo il tempo di comprendere ciò che la mente ha compreso.
2. L’atto stesso di apprendere spesso è di natura tale che non si può affrontarlo in modo
puramente metodico. Un apprendistato serio comporta di necessità il momento di un tutto
o niente, un momento in cui bisogna compiere l’atto nella sua totalità, a rischio di
insuccesso totale (ad esempio il salto della corda).
La domanda ora è: bisogna evitare questo rischio di fallimento o farne al contrario una condizione
dell’apprendimento stesso?
Guillaume oppone due metodi:
1. Metodo passivo, in cui il soggetto viene guidato dal di fuori per compiere dall’inizio l’atto
nella sua forma definitiva e senza sbagliare.
2. Metodo attivo, in cui il soggetto è lasciato a sé stesso e deve arrivare, a suo rischio e
pericolo, al risultato.
Egli stesso, con tre esempi, mostra la superiorità del secondo sul primo:
1. Il topo tenuto al guinzaglio in un labirinto per evitare ogni errore si abituerà ad obbedire al
segnale fornito dalla briglia per evitare ogni ostacolo. Scomparso il segnale, il topo è
disorientato.
2. Si insegna a un bambino il disegno o la scrittura con l’aiuto di calchi. Una volta ritirato il
calco, il bambino non sa riprodurre il modello.
3. Si fa imparare a memoria un testo ad un gruppo facendolo leggere e rileggere. Ad un altro
gruppo è chiesto di dedicare il 10% del tempo alla lettura e il resto alla recitazione e
ripetizione. Il vantaggio del secondo gruppo è del 100%, perché il primo gruppo si è ormai
abituato a far corrispondere a dei segni grafici dei suoni.
Questi esempi dimostrano che gli errori svolgono un ruolo positivo.
Di fatto, questo non è in contrasto con la tesi dell’autore sulla simulazione dei fatti della vita,
essendo questo comunque un metodo. Definendolo tale quindi, è di per sé stesso una
simulazione. Che cosa è un saper fare?
Un potere.
Il tedesco dice potere là ove il nostro sapere equivale a un saper fare.
Il saper fare è un potere diretto del soggetto sul proprio corpo. È un potere reale, vale a dire
permanente. Vuol dire poter rifare, quando si vuole e come si vuole.
Resta il fatto che il saper fare non si oppone al sapere puto così come il manuale all’intellettuale.
Non esistono attività puramente fisiche e ogni saper fare interessa l’uomo nel suo insieme.
Una struttura.
Ogni saper fare è un potere di strutturare le proprie azioni. Per struttura si intende una totalità in
cui tutte le parti sono solidali e perciò stesso diverse da ciò che sarebbero allo stato isolato.
Il non potere.
Il non potere non è soltanto il logico contrario del potere, né lo stato da cui si parte per acquisire il
saper fare, e neppure ciò che supera i limiti del saper fare; è anche, all’interno dei suoi limiti, la
possibilità permanente del suo insuccesso.
Non appena un saper fare di venta infallibile, non appena cessa di affrontare il rischio di un non
potere, non è più padronanza, né maestria, ma automatismo; non libera più, ma aliena.
Ricoeur ha definito le tappe di questa alienazione:
1. Lo stadio della fissazione, in cui il saper fare esclude ogni progresso.
2. Lo stadio della sclerosi. In questo caso è il contenuto stesso del saper fare che si irrigidisce;
la sua struttura cessa di essere uno schema dinamico, elastico e trasferibile, per
identificarsi con quel tale contenuto che si ripeterà ogni volta in tutti i suoi particolari.
3. Lo stadio del macchinale. È il disinnesto stesso del comportamento che cessa di dipendere
dal soggetto. Fenomeni del genere si osservano nel sonnambulismo, o in certe psicosi.
L’alienazione è totale in quanto la coscienza ha disertato l’atto.
L’insuccesso nella pedagogia.
Se l’insegnamento è una simulazione, non dovrebbe, nell’ottica di Skinner, eliminare le cause di
insuccesso?
Prima di tutto, pur essendo una simulazione, l’insegnamento non cessa per questo di essere
preparazione alla vita: se abolisce l’insuccesso diventa un rifiuto alla vita. Invece di eliminare
l’insuccesso dalla pedagogia, bisognerebbe promuovere una pedagogia dell’insuccesso.
Va tuttavia eliminato l’insuccesso irrimediabile, quello che ipoteca per sempre l’avvenire
dell’alunno.
Saper fare e saper essere.
Il dramma dell’insuccesso è che chi lo subisce lo risente come una disfatta del proprio io.
Sentimento spesso eccessivo che l’educatore deve correggere, facendo capire all’allievo che
l’insuccesso si riferisce a ciò che fa e non a ciò che è.
Ma esso comporta sempre un aspetto positivo: l’idea che ogni saper fare reale impegna la persona
tutta intera.
È bene sottolineare ora la differenza tra apprendimento umano, a servizio dell’individuo come
persona, e l’apprendistato puramente tecnico a servizio della società.
Apprendimento umano è quello che porta a forme di saper fare tali da permettere di acquisirne
infinite altre, educando così la personalità nel suo insieme. Un apprendimento umano è quindi
quello in cui si impara ad apprendere e per ciò stesso a essere.
Capitolo terzo: Apprendere e comprendere – Apprendimento teorico o studio
Dopo aver analizzato apprendistato e informazione, l’autore pone la sua tesi della terza maniera di
apprendere, la quale comprende certamente le due prime, ma non si riduce ad esse.
Sapere e saper fare
La tesi di Gilbert Ryle.
Tutta una corrente pedagogica statunitense esalta il saper fare a detrimento del sapere. Questa
distinzione trova la più precisa espressione nel libro di Gilbert Ryle, The Concept of Mind. L’autore
si oppone al dualismo cartesiano che farebbe, secondo lui, dell’uomo un fantasma entro una
macchina, uno spirito in un corpo di materia.
Per Ryle, l’azione intelligente si spiega benissimo senza dovervi vedere il frutto di una riflessione
ad essa preesistente nella mente; e la teoria, ben lungi da preesistere alla pratica, è essa stessa
una pratica verbale interiorizzata.
L’errore di Ryle.
La sua dottrina del learning by doing lo porta ad esaltare l’apprendistato a detrimento non
soltanto dell’informazione, ma anche della teoria. Quando scrive che nell’apprendistato
intelligente si progredisce pensando a ciò che si fa, e che ogni operazione compiuta è una lezione
per la seguente, dovrebbe anche ammettere che pensare a ciò che si fa e trarne una lezione non è
possibile se non avendo come punto di riferimento una regola o alcune regole.
Sapere e saper fare sono certo coimplicati, ma in due maniere opposte e ben reperibili. Nella
prima, il saper fare ha la meglio e utilizza i contenuti del sapere, informazioni o concetti, nella
misura in cui sono utili all’azione. Nella seconda è il puro sapere che prevale e sono le varie forme
di saper fare, come calcolare o scrivere, che servono da ausiliari. Ma che cosa è un sapere puro?
Che cosa significa studiare?
Un’attività disinteressata.
La prima caratteristica dello studio è che non deriva da un bisogno, ma dallo stupore che ci spinge
a ricercare. È dunque disinteressato. D’altra parte, Aristotele ci dice che quest’attività è libera.
Precisa, ancora prima di Nietzsche, che non tocca al saggio ricevere leggi, al saggio spetta darne.
Infatti, il sapere puro, la theoria, non è, come il saper fare, a servizio di uno scopo ad esso
esteriore; il sapere è fine a sé stesso.
Un sapere perché.
Il disinteresse è dunque il primo aspetto dello studio, ma non è sufficiente a caratterizzarlo, poiché
si ritrova