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Gorgia, laico o relativista (il linguaggio come strumento) e quello di Socrate che intende il
linguaggio come via alla verità e che implica dunque un forte impegno ontologico.
Il dialogo è una sfida a convincere l’altro a partire dai suoi propri argomenti, e ogni consenso
richiesto e ottenuto verrà poi usato come un’arma, un’ammissione, un paletto nel tortuoso percorso
della dimostrazione. Per Socrate ci sono due tipi di persuasione: uno legittimo, l’insegnamento di un
sapere ed uno non legittimo, l’instillare una credenza.
Il punto di Socrate è il seguente: la credenza può essere vera o falsa, mentre la conoscenza può
essere solo vera, ma entrambe portano con sé persuasione. La posizione di Gorgia si riassume in
due concetti chiave: da un lato quello che la retorica è vuota perché se è tecnica non ha competenze
precise, dall’altro quello che la retorica è innocente perché essendo indifferente alla nozione di
verità, l’uso che ne fa l’allievo non dipende dal maestro.
Le tre linee di difesa di Gorgia si possono sintetizzare così:
- La retorica va usata solo per il bene;
Il maestro non è responsabile dell’uso che l’allievo fa della retorica;
-
- La retorica in sé è neutra.
Socrate notifica a Gorgia che è caduto in contraddizione perché se la retorica deve essere usata per
il bene, non è neutra e se è neutra non si può dire che debba essere usata per il bene. Ci sono diversi
modi di vincere un dialogo: persuadere l’avversario a cambiare idea partendo dalle sue stesse
passioni e convinzioni, far sì che l’altro non capisca più niente e stia zitto, e, questo è il metodo di
Socrate, far sì che il discorso dell’altro si auto-contraddica e costui se ne accorga e stia appunto
zitto.
La fine del dialogo è intersoggettivamente negoziata: a questo proposito si può richiamare il
Protagora, in cui si produce un incidente dialettico e Socrate minaccia di abbandonare la
discussione perché non si trova d’accordo sulle regole del suo svolgimento, in particolare sulla
possibilità di lunghi discorsi. Ippia propone di rimettere la decisione nelle mani di un giudice, ma la
cosa per Socrate non è possibile: il fondamento del dialogo è la convinzione dell’altro, il consenso,
e la base non è data ma costruita. Questo esclude che si possa ricorrere ad un’autorità terza.
8. Una cultura dialogica
si parte dall’ipotesi ed il dialogo è proprio il processo di verifica di queste ipotesi
Nel dialogo
attraverso l’interazione. Il problema centrale è dunque quello della verità: l’inizio della filosofia è
segnato da una perdita, quella della sapienza, cioè in sostanza della profezia, del sapere ispirato. Il
vero profeta è colui che fa apparire davanti, come vuole l’etimologia della parola, possiede la verità
e la rivela, anche se può essere smentito dai fatti. Il profeta dunque scopre, ricorda ed espone ciò
che è nascosto.
All’origine della filosofia la sapienza non esiste più, e solo la ricerca potrà portare alla verità per
mezzo del libero esame critico delle opinioni, cioè attraverso il dialogo, nel senso platonico. Si
tratta di un esame e non semplice confronto, esame che ha come scopo la falsificazione
dell’opinione errata secondo un processo che necessita di assoluta chiarezza definitoria, ecco perché
Socrate insiste tanto sulla chiarezza e sulla brevità delle risposte.
Discutendo secondo le modalità scientifiche ci troviamo in posizione di responsabilità nei confronti
del dialogo, delle sue regole grammaticali, sintattiche, semantiche: come tutte le cornici, il dialogo
costituisce anche una sorta di prigione, di ambiente chiuso da cui non si può evadere. In particolare
non è lecito fare due affermazioni contraddittorie, oltre al fatto che dopo una contraddizione non è
più possibile continuare il dialogo perché non ha più senso quello che si dice.
Se vogliamo darne una caratterizzazione finale, il dialogo greco è un combattimento simbolico per
la verità. Verso il V o VI secolo la lotta si trasforma in dialettica. Forma generale della dialettica è
quella di un bivio a cui segue una discussione, attuata non sulla base di un libero scambio di
opinioni ma articolata in problemi posti da un interrogante in forma di dilemmi e dalle scelte di un
dichiarante, concatenando le quali si dovrebbe giungere all’eliminazione dell’opposizione sbagliata,
mostrando che essa non regge e che si auto-contraddice. In linea di principio si suppone che
l’interrogante sarebbe disposto a demolire entrambe le opzioni in gioco e questa posizione di rifiuto
di ogni verità data è la radice della sofistica. In Socrate e in Platone, invece, l’interrogante
L’esplicitazione stessa del conflitto è nella cultura
custodisce una verità che cerca di far emergere.
greca un valore.
III. Il dialogo biblico
9. Un altro dialogo
Del tutto differente è l’approccio biblico, un’organizzazione discorsiva che si caratterizza come
responsabilità per l’altro. Nella Bibbia il dialogo ha valenza non gnoseologica ma etica, ha
innanzitutto il valore di riconoscere in Dio l’Altro come soggetto che non si riesce ad afferrare mai
del tutto, che contiene un resto irriducibile, che è sempre necessariamente lontano, anche se
e soccorritore. Nella tradizione biblica è evidente che l’etica riguarda il fare, certe azioni
amoroso
da compiere e non compiere e quindi ha effetti nel mondo, non solamente nel cuore. Spesso si pensa
all’esterno, resa disponibile,
la scrittura come la modalità di comunicazione abbandonato
oggettivata dalla sua stessa iscrizione; ma anche nella forma orale instaurare con l’altro un rapporto
di dialogo significa riconoscergli una trascendenza, lasciare che egli emerga come soggetto da un
si proietta all’esterno fuori dal controllo e che dunque rischia sempre il
processo comunicativo che
fraintendimento. Nelle forme del dialogo biblico contano gli atti, siano pure atti linguistici, assai più
che le interazione e le psicologie. L’etica del dialogo è qui un principio di comportamento; c’è nel
dialogo biblico un tema essenziale che è quello dell’appello, e all’interno di questo il
riconoscimento del nome dell’altro.
Nella Bibbia la verità dichiarata sulla base della responsabilità personale e ciò che conta è
quello che non conto nei dialoghi platonici: l’altro e la sua identità. Diventa, infatti,
esattamente
assolutamente centrale il problema della persona, direttamente connesso con il concetto di
responsabilità; radicare il discorso nella persona che interloquisce, pensare la comunicazione in
termini di responsabilità, significa rivendicare un’identità problematica ma reale nella continuità del
tempo ed una altrettanto discutibile di realtà. Da un lato vi è l’aspetto trascendentale, il luogo
dell’unificazione delle percezioni non solo spaziali ma anche temporali, dall’altro quello
dell’imputabilità, si presuppone che esista una dimensione in cui il soggetto sia liberamente un se
stesso consapevole.
10. Il serpente e Caino: la seduzione e il non dialogo
Nella narrazione biblica, quello col serpente è il primo esempio di dialogo in senso strettamente
letterario fra persone o piuttosto personaggi ed ha la forma della seduzione: il serpente viene
identificato col Diavolo. Diavolo rimanda etimologicamente a gettare fra, dunque separare, sviare,
introdurre divisione. Il diavolo è colui che seduce in quanto svia. Il linguaggio del serpente è un
vero e proprio parlare; il serpente fornisce ad Eva delle informazioni fuorvianti, approfittando del
fatto che lei non era presente all’atto della creazione. Ci troviamo all’interno di un dialogo di
seduzione e di menzogna, orientato al far fare che utilizza tecniche linguistiche molto sofisticate.
C’è infatti nel suo discorso un’attribuzione di intenzioni precostituite al destinatario della
comunicazione: la seduzione non mira al corpo, ma al desiderio dell’altro. La proibizione di
mangiare dall’albero del bene e del male viene prima espressa direttamente da Dio e poi è oggetto
dell’interrogazione del serpente. Tutti nel discorso di riferiscono correttamente al tema della
discussione, alla proibizione, anche se il serpente lo fa per negarne il fondamento e dunque per
mentire.
Un altro dialogo riprende poco dopo con la domanda rivolta ad Adamo che introduce Dio nel vivo
della narrazione: Dove sei? La risposta della tradizione rabbinica è che bisogna considerarla non
tanto una richiesta di informazioni ma un appello: essa chiama Adamo ad un’assunzione di
responsabilità, all’assunzione costitutiva del suo tu rispetto a Dio. Chi apre il dialogo nelle storie
bibliche, chi prende la posizione di primo in questo discorso, soprattutto se è Divino, sta chiamando
qualcuno che nonostante tutto il suo potere riconosce come esterno, autonomo, indipendente.
Perciò deve manifestarsi, rendersi presente e riconoscere la distanza, il vuoto intermedio che sono la
condizione strutturale di quella fondamentale caratteristica del dialogo che è la libertà.
A questa domanda nel testo biblico sarebbe una sola risposta giusta: eccomi. Non ancora un segno
di obbedienza, ma solo di disponibilità. Dunque la posizione è un segno di responsabilità in quanto
chiedere che posizione ha l’interlocutore significa anche chiedergli che responsabilità si assume
lì. Il “dove sei?” è legato a
rispetto ad essa, quali azioni, nel corso della sua vita, lo hanno portato
due specificazioni spaziali: il luogo in cui si manifesta colui che inizia il dialogo e quello in cui
l’interlocutore pone le proprie radici, le basi della propria identità.
di Caino e Abele: non una seduzione,
Qualcosa del genere avviene anche subito dopo nell’episodio
ma un non-dialogo, anzi una serie complicata di non-dialoghi. Seduzione e violenza sul piano
dialogico non sono così diverse.
11. Abramo e la responsabilità del dialogo
Molti capitolo dopo nel libro della Genesi troviamo un altro dialogo famoso, il primo a realizzare
integralmente delle modalità positive che non riguardano solo la competenza conversazionale, ma
una responsabilità rispetto ad un’azione. Abramo si rivolge a Dio con una modalità di
interrogazione e quasi di appello. Prima di tutto Dio avverte Abramo della sua intenzione di punire
Sodoma e Gomorra, poi Abramo discute e c