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CAPITOLO TERZO
SPECCHIO E VOLTO
ESEMPIO: In Persona, film di Ingmar Bergman, si impiega intensamente il motivo dello
specchio. Nel film vi è un’infermiera che si prende cura di una giovane attrice soggetta a
un esaurimento nervoso. Questo porta ad un avvicinamento tra le due donne e le
identità delle due finiscono per confondersi al punto che neanche lo spettatore sa più
chi ha davanti. In una scena compare persino un volto sintetico di entrambe le attrici,
composto per metà dal volto di una e per metà dal volto dell’altra. Lo specchio e il volto
rivestono un ruolo centrale anche in suoi altri film come Il volto, Come in uno specchio e
L’immagine allo specchio.
Lo sguardo nello specchio si confronta da una parte con il Sé, ossia con il proprio volto
come espressione dell’interiorità, ma dall’altra parte è anche uno sguardo dall’esterno e
ritorna ad un Sé come guardo dell’altro.
L’attrazione del cinema per storie riguardanti sosia e scambi di identità ha la funzione di
interrogarsi sull’identificazione.
Mentre il primo piano godeva di successo nella teoria filmica degli anni ’20, la metafora
dello specchio ha avuto il suo culmine successivamente.
Béla Balàzs nella sua teoria filmica ha riservato una posizione cruciale al primo piano.
Nella sua teoria espone l’aspetto principale, ovvero rendere visibile l’uomo e il suo
mondo.
Egli trova l’immediatezza dell’espressione negli ambienti e nelle azioni, nei corpi e nei
movimenti, ma soprattutto nel primo piano. Nel primo piano l’uomo vede se stesso come
in uno specchio, poiché il primo piano mostra un volto. La peculiare qualità espressiva
del volto umano sta nel fatto che i sentimenti e le emozioni convivono nel tempo con
intrecci e simultanee metamorfosi.
Per Balàzs inoltre è fondamentale il concetto di fisionomia che egli applica a persone,
cose e paesaggi. È la visibilità a permettere tale fisionomia. Il gesto è il contrassegno
principale.
Nel film l’uomo si trova faccia a faccia con se stesso, vedendosi però in modo nuovo,
monumentale ed intimo.
Un’altra teoria è quella di Deleuze, che contrassegna il cinema classico come immagine-
movimento, e lo divide in tre articolazioni principale:
- immagine-percezione
- immagine-azione
- immagine-affezione
Se le prime due richiamano all’azione e alla sua percezione, l’immagine-affezione è il
primo piano e il primo piano è il volto.
Il primo piano, come affermava già anche Balàzs, non strappa il suo oggetto a un
insieme di cui farebbe parte, ma lo estrae da ogni sua coordinata spazio-temporale. Il
primo piano non è solo un ingrandimento, è l’elevazione di un’oggetto allo stato di
entità.
Oggi la ricerca su questo tema è molto diversificata e il volto è stato identificato come
un medium polifunzionale.
Comunque nella teoria filmica si distinguono tre paradigmi appartenenti all’ambito
tematico dello specchio:
Il cinema come specchio dell’inconscio: lo specchio permette di svelare un di più
1. del sé.
Esso si articola ulteriormente in due posizioni:
-l’impiego delle teorie freudiane dell’inconscio.
-l’idea lacaniana dello stadio dello specchio (fase della prima infanzia
fondamentale per la formazione della soggettività).
Comunque vi è l’idea di base che nel cinema il corpo regredisca a uno stadio
precedente. Nell’oscurità della sala cinematografica, il riferimento con la realtà
viene perduto e il telo del sogno interiore diviene il telo reale della sala. Questa
condizione di sogno si manifesta nelle associazioni libere, come puro lavoro
onirico.
Specchio con la funzione del raddoppiamento riflessivo e rottura dell’illusione: ha
2. una funzione più di allontanamento che di svelamento.
Cinema associato allo specchio mimetico dell’altro.
3.
Christian Metz, una personalità importante degli anni ’70, ha un pensiero che si può
suddividere in due fasi: una prima di orientamento strutturalista, dove egli si
interrogava su quali fossero le analogie tra linguaggio umano e il cinema, e una seconda
fase psicoanalitica-post-strutturalista, dove egli scandaglia quegli elementi che rendono
strutturalmente simili il cinema e lo specchio, come la ricchezza percettiva, la pienezza
di dettagli, la grande irrealtà dell’immagine su una superficie bidimensionale.
Egli sposta l’attenzione al cinema come macchina mentale che permette allo spettatore
di percepirsi come onnipresente.
Contemporaneamente però ci sono anche delle differenze tra lo specchio e il film,
infatti per quanto come nello specchio anche nel film possa essere proiettato di tutto,
c’è una cosa che non si riflette mai ed è il corpo dello spettatore. Quindi il
riconoscimento, da parte dello spettatore che guarda il film, è sempre un misconoscere,
un travisare. Si tratta di un malinteso, come se nello specchio riconoscessi me stesso in
un altro o prendessi me stesso per un altro.
La teoria sullo stadio dello specchio di Jacques Lacan è fondamentale per la forma di
misconoscimento tipica del cinema. Lo stadio dello specchio è una fase evolutiva del
bambino dai sei ai diciotto mesi di vita. In questa fase il bambino non è ancora in grado
di controllare la motilità del proprio corpo, ma è capace di riconoscere la propria
immagine allo specchio. Il bambino si percepisce dall’esterno come entità completa e si
identifica con se stesso come oggetto. Inoltre egli si percepisce come più progredito in
senso motorio di quanto non sia nella realtà, poiché è capace di determinare i suoi
movimenti nello specchio. È l’auto-rappresentazione che viene stabilizzata e fissata da
quel punto in avanti. Questo stadio evolutivo, non viene mai completamente superato,
ma rimane latente nell’individuo. Su ciò si basa l’impiego dello stadio dello specchio nei
film, poiché nel cinema l’identificazione poggia su una relazione immaginaria simile a
quella del riconoscimento di sé nella prima infanzia.
Metz ne desume la differenza tra identificazione primaria e secondaria: quella
secondaria è quella di cui parliamo abitualmente quando ci confrontiamo con gli altri
dopo la visione di un film ovvero l’immedesimazione empatica con un personaggio.
Quella primaria invece è molto più fondamentale, poiché lo spettatore si identifica con
se stesso come puro atto di percezione, come una sorta di soggetto trascendentale.
Questo tipo di identificazione è noto come effetto-soggetto nel cinema.
Jean-Louis Baudry invece voleva chiarire come mai il realismo producesse un effetto di
realtà e perché questo effetto si spiegasse al meglio con il concetto di effetto-soggetto.
Egli intendeva il cinema sia come disposizione spaziale di apparecchiature, sia come
sistema concettuale di percezione della rappresentazione.
In questo modo Baudry sviluppa i due concetti di dispositivo e apparato. Egli sostiene
che il dispositivo cinematografico determini artificialmente uno stato di regressione. Egli
per spiegare la condizione dello spettatore al cinema ricorre al mito della caverna di
Platone. Platone paragona gli uomini a dei prigionieri all’interno della caverna,
incatenati in modo da poter guardare in una sola direzione. Alle loro spalle brucia un
fuoco e tra loro e il fuoco vi è un muretto sul quale corrono dei burattinai. Essi
trasportano oggetti che proiettano le loro ombre sul muro visibile ai prigionieri. I
prigionieri quindi vedono solo le ombre, ma non gli oggetti fisici alle loro spalle.
Con questo Baudry sostiene che le speciali circostanze della proiezione trasportano lo
spettatore in uno stato di trance, nel quale egli non riesce a distinguere il film dalla
propria condizione.
La teoria dell’apparato offre uno spunto adeguato per posizionare il corpo dello
spettatore nei confronti del film. Questa teoria però ha una visione negativa del cinema
poiché per essere efficace qualsiasi film si fonda su un effetto di illusione.
Si può dire che il cinema ci riporti all’infanzia e mimi l’infrangersi originario
dell’integrità del mondo del bambino e in questo modo imiti il processo di formazione
del soggetto.
Da una parte si ritroverà molto spesso nei primi film un timore di frammentare
l’integrità del corpo umano attraverso la tecnica e i mezzi di realizzazione. Molti infatti
nutrivano dubbi nei confronti del primo piano.
Per quanto riguarda l’espressionismo tedesco nel cinema, ritroviamo molto il tema del
doppio, dello specchio e del sosia.
Nel cinema comunque il primo piano offre sempre una combinazione ambivalente tra
l’attenzione per il dettaglio e la grandiosità. All’inizio lo spettatore non sapeva come
comportarsi di fronte a questo ingrandimento e a questa nuova prossimità alle immagini,
poiché la troppa vicinanza gli risultava straniante. Da questo derivava il desiderio di
avvicinarsi fino al primo piano, ma anche il bisogno di allontanarsi e guardare da una
certa distanza, come se si trattasse di un monumento.
Al cinema però noi non possiamo muovere il corpo per modificare i rapporti di
grandezza.
Il primo piano nel cinema viene sempre spiegato da una motivazione causale della
narrazione o dalla necessità di mostrare il volto e l’espressione di un personaggio.
Negli anni Sessanta dalla Nouvelle Vague al Nuovo Cinema tedesco hanno posto al centro
della loro attenzione la funzione del raddoppiamento riflessivo. Il cinema moderno non
si limita a raccontare una storia, ma racconta anche di sé, riflette e rispecchia se stesso,
si esibisce come artefatto. Viene quindi esaltata la natura artificiale della messa in
scena e presenta come il film nel film.
Molti film (es. Blow-up, 8 e mezzo, Persona) in questi anni trattano il tema dell’atto
creativo e della sua realizzabilità e rispecchiano dunque il processo produttivo del film
all’interno del film stesso. Questo significa un certo raddoppiamento della realtà, ma
anche una sorta di scissione e disorientamento per lo spettatore. Un altro problema che
viene affrontato è il tema della costruzione di un’identità stabile. Lo specchio così è
diventato il luogo privilegiato del disorientamento ontologico. Nel cinema lo specchio ha
un significato che oscilla tra una funzione ontologica e una psicologica. Spesso serve a
rendere evidente la labilità psichica di un personaggio. L’inquadratura allo specchio
rappresenta un momento di frattura e raddoppiamento grazie al quale l’artificio della
messa in scena si