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Anche culturalmente possiede un forte valore simbolico: nelle connotazioni di
→ genere; nelle differenze interrazziali.
Il fatto che il paradigma oculocentrico sia giunto ad un punto morto è testimoniato da
alcuni film che mettono in scena l’occhio fino al parossismo e al pastiche: Blade
Runner – Arancia Meccanica – Minority Report.
Il silenzio degli innocenti costituisce una svolta dal paradigma dell’occhio a quello
della pelle. Esso si muove senza dubbio all’interno del paradigma oculocentrico,
tuttavia in una maniera talmente sapiente da essere inteso come una parodia nella
teoria femminista classica l’uomo è colui che guarda, la donna e colei che è guardata.
In questo film la protagonista è sì guardata dagli uomini, ma è consapevole di questo
stato di cose.
All’interno del film si insinua però anche il motivo della pelle, dello scuoiare e ricucire
insieme, dello svilupparsi e trasformarsi, del trasfigurarsi e riconcepirsi ex novo .
The New Word – Il nuovo mondo (2005) di Terence Malick pone ancora più
decisamente al centro non solo al svolta della teoria filmica quanto il fatto che i film
stessi orbitino intorno a questioni teoriche di attualità. Dal punto di vista narratologico
il film infatti è caratterizzato da collegamenti allentati e nonostante alluda ai modelli di
continuity, nega una prospettiva unitaria del racconto; inoltre la logica della struttura
dello sguardo cade nel vuoto, non essendoci un unico punto di vista di un osservatore.
Per mettere in scena con coerenza l’incomprensione e il fraintendimento della
popolazione indigena da parte die primi coloni britannici, il film si serve del contatto:
incontri fisici, qualità tattili d cose animate e inanimate che permettono di sorvolare le
incompatibilità linguistiche e culturali.
Nel cinema hollywoodiano classico il contatto con gli indigeni veniva reso con i film
western, dove l’occhio colonialista vedeva gli Indiani come un pericolo. Lo sguardo
post-colonialista di Malick al contrario, non solo cambia il paradigma dall’occhio alla
pelle come luogo di contatto e di comunicazione, ma si avvicina anche di più alla
realtà storica.
Ma il contatto attraverso questo nuovo paradigma non coincide ad un mondo migliore:
non si passa dall’occhio indagatore a una mano che accarezza carattere di questo
nuovo paradigma è lo scontro violento e la collisione, l’iper-identificazione e
l’incorporazione, i malintesi etnici e i conflitti d’interesse (Crash manifesta ciò in
maniera molto evidente). Anche la pelle cela quindi delle contraddizioni. Come si
affronta allora la riflessione sulla pelle?
Carattere ambivalente della pelle: da una parte superficie asemantica senza
principio e senza fine; dall’altro qualcosa di più di un solo involucro per il corpo, ossia
una superficie che produce senso.
Le teorie che prendono in considerazione la pelle sono tutte d’accordo nel confermare
che vi sia un significato maggiore nel rapporto fra schermo e spettatore rispetto a
quanto avveniva nelle teorie precedenti.
Vivian Sobchack: nel cinema, la comunicazione intersoggettiva fra cineasta, film e
spettatori è resa possibile da strutture condivise dell’esperienza incarnata: noi
assimiliamo i film somaticamente, con tutto il nostro corpo, e ne contaminiamo le
immagini prima che l’elaborazione cognitiva dei dati e l’identificazione inconscia ci
interpelli a un altro livello totale precedenza e ineludibilità della percezione somatica
e intermodale.
Concetto di identificazione totalmente diverso. Si nega la teoria di Metz che
distingueva tra identificazione primaria (specifico atto di percezione attraverso il quale
il film viene creato) e secondaria (con i personaggi dell’azione) e che determinava
l’identificazione grazie all’ausilio di cues (rimandi) audiovisivi e tramite schemi
narrativi. Vi si contrappone una doppia e simultanea acquisizione di una posizione
empatica nei riguardi dell’Altro, dove l’esperienza della propria corporeità funge da
precondizione assolutamente imprescindibile per l’immedesimazione in una persona o
situazione la percezione presuppone un copro vivente e dotato di soggettività.
Dal momento che l’esperienza filmica si può manifestare sottoforma di esperienza
dello spettatore, le due esperienze non sono così scisse e non si possono neppure
sintetizzare dialetticamente: Merleau-Ponty (dalle quali teorie trae spunto la
Sobchack) sostiene che esse si mettono in relazione di reversibilità e trasformabilità
senza mai giungere ad una sintesi dialettica di livello superiore.
Inoltre l’immagine filmica e il corpo dello spettatore non si possono mettere a
confronto come accade per la distinzione semiotica fra denotante e denotato. Steven
Shaviro: parla di continuità fra reazioni fisiologiche e affettive del corpo dello
spettatore e le modificazioni dei corpi nello schermo . Non conta la differenza fra corpi
e immagini, ciò che conta è la relazione multiforme e la costante trasformazione fra
ciò che normalmente vengono descritto come corpo e immagini.
legame di continuità fra corpo e immagini.
Ma ciò non rappresenta ancora una riduzione della lontananza fra film e spettatore in
senso fenomenologico. Di fatto esistono tutta una serie di formulazioni che pur
parlando incessantemente del corpo, continuano a ricadere nel paradigma
rappresentativo del Cultural Studies.
A partire dagli anni Novanta il paradigma fenomenologico ha conosciuto un enorme
impulso, producendo alcune differenziazioni interne. Vi è una serie di formulazioni
interessate a contatto e mani e alla loro messa in scena, che restano sempre vincolate
all’approccio rappresentazionale. C’è anche un interesse per le partiche di quegli
artisti delle avanguardie novecentesche che superavano e mettevano in discussione la
percezione disincarnata del cinema hollywoodiano. Tre esempi:
• Laszlo Moholy-Nagy: delineò una teoria dell’arte e del cinema che si rivolgeva
a tutti i sensi. In una modernità che si sviluppava a folle velocità, solo l’arte
sarebbe stata capace di interpellare il soggetto nella sua integrità
consentendogli di mantenere il passo con le ricadute tecnologiche, culturali e
sociali del progresso. L’educazione del corpo da parte dell’arte e del film,
coinvolgendo tutti i sensi doveva servire quindi all’uomo per inserirsi nei
complessi rapporti dettati dalla modernità. Come molti altri che trattarono di
pelle e contatto, anche la visione di Moholy-Nagy si concentra più sul soggetto
ricevente che non sul materiale filmico: l’esperienza estetica è più importante
dell’artefatto estetico.
• Valie Export: con Tapp- und Tastkino (Cinema da tastare e da palpare,
Germania, 1968) rende la fruizione del cinema da visuale ad aptica: attraverso
una scatola dotata di siparietto e sistemata sul seno nudo, come a riprodurre la
vista frontale di una sala cinematografica, i passanti potevano toccare i seni
dell’artista senza però vederli.
• Anthony McCall: istallazione chiamata Line Describing a Cone (Linea che
descrive un cono, USA, 1973) in cui in uno spazio buio, riempito di nebbia e
fumo, si proietta un film di 30 minuti nel quale compare a poco a poco un
cerchio. I vapori diffusi nell’aria rendono visibile il cono di luce del proiettore che
cresce lentamente nello spazio da linea a cono vero e proprio: la luce, elemento
fondamentale della proiezione, non serve più da veicolo invisibile di proiezione
delle immagini, piuttosto diventa fenomeno visibile e soprattutto palpabile.
Studi sui generi che mettono a frutto interessanti riflessioni su spettatore e contatto:
Linda Williams: studi su tre generi considerati culturalmente minori, melò, horror e
porno. Questi film sono caratterizzati dall’abuso e dall’eccesso, in contrasto con
l’ordinamento regolare della narrazione classica. Il corpo si ritrova in balia di affetti
intensi e quasi ingovernabili. Questi film vengono considerati culturalmente inferiori
anche perché le reazioni corporee paiono trasmettersi per via diretta allo spettatore
fluire dei fluidi corporei che paiono sospetti e pericolosi nella definizione della distanza
fra spettatore e film. Per questo l’eccesso e il mimetismo corporeo vengono
compensati con scenari di fantasia.
L’attrazione e la paura insieme per questo genere di film si allacciano a figure
fondamentali della psicoanalisi come l’angoscia di castrazione (horror), il legame
incestuoso con la madre (melò) e la scena genitoriale primaria (porno).
Barbara Creed: in rapporto al film horror mette in rilievo il significato di abietto per
Julia Kristeva. Abietto per la Kristeva era qualcosa che non riconosce confini, regole,
posizioni, che mette a soqquadro identità, ordine e sistema. Rientrano in questa
categoria alcune secrezioni corporee che sono separate dal corpo ma allo stesso
tempo ad esso collegate, come la pelle ( saliva, escrementi, urina, lacrime). Il film
horror è quindi significativo per tre aspetti:
1. Espone alla vista immagini di abiezione – copri mutilati o morti, deiezioni,
escrezioni e secrezioni;
2. All’abietto unisce il mostruoso – il mostro viola i confini e minaccia la stabilità
dell’ordinamento;
3. L’abietto sarebbe strettamente legato al materno, alla madre e a quelle istanze
che hanno una funzione vicaria a quella della madre.
il genere horror minaccerebbero quindi la stabilità dell’ordinamento simbolico. In una
società post-religiosa e libertina, la funzione dell’horror consiste secondo la Creed nel
contribuire alla salvaguardia di confini e tabù: vedo quei tabù oltrepassando i confini,
ne sono disgustato e quindi marco die confini ancora più netti.
Anche nell’ambito delle ricerche sul cinema delle origini il ruolo della percezione aptica
è balzato al centro dell’attenzione.
Rube film: film zotici, in cui un personaggio sempliciotto, in genere proveniente dalla
campagna, assistendo a un film, non distingue reale da fittizio e tenta di toccare con
mano quanto vede sullo schermo. Metodo per abituare gli spettatori e far loro
comprendere come bisogna comportarsi davanti allo schermo. Una volta compresa la
distanza giusta tra spettatore e schermo, la ricezione passiva e individuale, si poté
passare al cinema classico.
Laura Marks: si concentra su film non commerciali hollywoodiani. Per la Marks, la
pelle del film è una metafora che crea significato attraverso la propria materialità ,
attraverso un contatto tra percipiente e oggetto rappresentato. Essa allude anche al
fatto che la stessa vista può essere r