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La società aristocratica è retta da un corpo oligarchico chiuso, che rifiuta il rinnovamento a
differenza della società democratica che viene governata da gruppi aperti e pronti al dialogo e
al mutamento. Quest’ultimi possono essere tali perché godono di piena autonomia nelle loro
scelte politiche.
A questo si aggiunge che la società democratica è una società pluralista, che si oppone alla
concentrazione del potere nelle mani di un’unica autorità e questo è possibile solo
istituzionalizzando il principio di concorrenza in tutti i campi.
Il principio di concorrenza risalta soprattutto nel mercato, che è la struttura portante della
democrazia competitiva.
L’economica di mercato è l’unica che permette di reggere le democrazie, perché permette un
maggiore controllo da parte dei cittadini sui loro governanti e perché garantisce la difesa di
tutte quelle libertà fondamentali per la società. Quando manca l’economica di mercato, vi è
un’economia diretta da un unico organo centrale: esso deve avere a disposizione tutti gli
strumenti della produzione e il potere di distribuire gli uomini nelle diverse attività, decidendo
quanto e come devono lavorare. A questo punto i cittadini non possono opporsi o esprimere la
propria personalità con iniziative indipendenti perché l’unico datore di lavoro è lo Stato;
mancano, quindi, quei corpi intermedi tra cittadino e Stato che sono contrappesi necessari al
potere centrale.
A questa tesi si avvicina anche Kelsen, il quale afferma che la democrazia è tale quando alla
formazione delle norme giuridiche partecipano tutti i cittadini (principio di autonomia). La
democrazia è una “forma di Stato”, cioè un metodo di produzione del diritto caratterizzato dal
principio di autodeterminazione.
Per stabilire la natura democratica di uno Stato, Kelsen afferma che è necessario solo che le
norme giuridiche siano conformi al principio di autonomia, a prescindere dal loro contenuto.
Sul sistema democratico, quindi, non influisce la struttura dei rapporti economici cui esso si
applica.
La società democratica non sembra essere conciliabile con la programmazione statale, più
adatta ad un sistema autocratico-burocratico, e, inoltre, è impossibile inserire il principio di
autodeterminazione di Kelsen in una tale società.
Il progetto collettivistico viene paragonato da Einaudi alla vita in una caserma, in cui quello
che sta in alto comanda quello che sta in basso e questi deve obbligatoriamente ubbidire: la
libertà, che è i valore fondamentale della democrazia, non esiste più.
La libertà di pensiero, infatti, è collegata ad una certa dose di liberalismo economico.
Quest’ultimo concetto è stato poi chiarito con il dispotismo orientale, caratterizzato dalla
staticità. E tale staticità si fonda, a sua volta, sull’assenza della proprietà privata.
La proprietà privata, insieme al principio di concorrenza, è la precondizione fondamentale
delle società dinamiche e conflittuali dell’Occidente; eliminarla vorrebbe dire immobilità,
invece la vita delle democrazie è proprio fondata sul continuo antagonismo tra uomini liberi.
7.I fondamenti storici e culturali della democrazia liberale. Alla base del pensiero politico
troviamo la netta contrapposizione tra: individualismo e organicismo.
Il fondamento delle democrazie liberali è, però, il primo e muove dalle riflessioni
giusnaturalistiche, lo Stato è il prodotto di un libero accordo (contratto) tra gli uomini che
serve a tutelare i loro diritti. Questi diritti sono diritti naturali, quindi già esistenti in natura,
non vengono creati da nessuno e, nel momento in cui viene a formarsi lo Stato, essi devono
essere trasformati in diritti positivi che abbiano valenza all’interno dello Stato e che nessuno
può violare (Costituzione).
Ne consegue che:
- Il potere dello Stato è limitato
- Se vengono violati i diritti naturali viene meno la causa del contratto e un contratto
senza causa è nullo, quindi lo Stato non è più legittimo e si trasforma in tirannia. A
questo punto è legittimo per i cittadini reagire, disubbidendo ai comandi dello Stato.
Nelle moderne democrazia la sovranità è affidata al popolo e nessuno, quindi, può
appropriarsene senza il consenso del popolo stesso. Bisogna aggiungere che anche la sovranità è
limitata, è limitata dai diritti fondamentali dell’uomo. Per garantire tale limitazione, non è
sufficiente dividere il potere in una pluralità di organi, ma bisogna circoscrivere l’ambito di
validità della legge, cioè sottrarre al potere del legislatore una serie di comportamento che
vanno riconosciuti liberi per natura.
È facile intuire, a questo punto, che esiste un profondo legame storico-politico tra democrazie
e esperienza giusnaturalistica; ma è possibile questo legame anche sul piano teorico? Questo
non è possibile, però non vuol dire far crollare tutto ciò che abbiamo detto riguardo le
democrazie.
A differenza del giusnaturalismo, che ammetteva solo valori assoluti, i valori relativi rimangono
il punto fermo delle democrazie e permettono di distinguerle dai regimi autocratici.
Il conflitto tra democrazia e autocrazia si basa proprio sulla contrapposizione tra assolutismo
e relativismo; il primo rispecchia una visione religiosa del mondo, il secondo, invece, esprime
una visione laica.
Per l’assolutista esistono valori assoluti che superano i limiti della conoscenza umana e si
rilevano solo all’eletto, cioè colui che oltrepassa la conoscenza empirica per giungere al Bene.
Il relativista muove dai fatti, dall’esperienza positiva; tutto ciò che si trova al di fuori è
inaccessibile e quindi inconoscibile alla mente umana.
Il relativista afferma che è impossibile far derivare la conoscenza dell’Assoluto dall’analisi della
realtà, infatti una cosa è il mondo della realtà, altro è il mondo dei valori. A questo proposito
si distingue:
- Giudizio di fatto: che si esprime con l’enunciato “è vero che…” (giudizio descrittivo)
- Giudizio di valore: che si esprime con l’enunciato “è bene che…” (giudizio prescrittivo)
Un giudizio di valore deve derivare obbligatoriamente da un altro giudizi di valore, in una
catena lunghissima che arriva fino al valore ultimo che, dato proprio perché è ultimo, non ha
nessun fondamento: i valori ultimi non si fondano, ma si assumono. Ogni assunzione è relativa
al soggetto che la compite e da qui il relativismo etico.
Se invece, come dicono i giusnaturalisti, i diritti, le norme e i valori poggiano si ricavano da un
fatto (la natura umana), allora il loro fondamento è un fondamento concreto ed oggettivo e,
quindi, assoluto: da qui deriva l’assolutismo giusnaturalistico.
In questo modo, Kelsen spiega che il relativismo vuol dire che i valori non possono essere
provati come assoluti attraverso un’analisi razionale e scientifica che esclude la possibilità di un
giudizio di valore opposto. Proprio per questo Kelsen distingue una concezione metafisico-
assolutistica, che si collega all’atteggiamento autocratico e una concezione critico-
relativistica, che si collega all’atteggiamento democratico:
- Autocrazia: l’eletto, cioè l’unico che conosce il bene assoluto, deve guidare i comuni
mortali per portarli alla salvezza finale. Tutti devono seguirlo; i devianti, invece, sono
condannati alla perdizione e per loro vengono predisposti manicomi e prigioni.
- Democrazia: se non esistono valori assoluti, allora si accettano anche gli oppositori. La
democrazia moderna, infatti, è incentrata sul liberalismo politico (“ognuno deve
rispettare l’opinione politica degli altri”) e proprio per questo non esiste una
maggioranza assoluta, ma si da spazio alla minoranza che a sua volta potrebbe diventare
maggioranza.
La democrazia persegue una politica di compromesso, cioè fatta di continue discussioni tra
maggioranza e minoranza. Questo proprio perché il relativista non distingue Bene e Male
assoluti, ma Bene e Male relativi, da qui la sua propensione a conciliare punti di vista
contrastanti, nessuno dei quali può essere accettato integralmente con la negazione totale
dell’altro.
Il compromesso postula la tolleranza e, quindi, una completa apertura mentale che permette di
discutere di tutto con tutti.
8.La democrazia illiberale di Alain De Benoist. Bisogna fare una distinzione fondamentale tra:
- democrazia, che è una “crazia”
- liberalismo, che è una tecnica di limitazione del potere
Il potere viene limitato, non solo quando si impongono determinate procedure (limitazione
formale), ma soprattutto quando si sottrae al titolare del potere una serie di diritti, riconosciuti
liberi e che, quindi, non possono essere né proibiti né comandati (limitazione materiale).
La democrazia moderna si fonda sullo Stato liber-costituzionale e per questo viene definita
liberal-democrazia che, a differenza della democrazia democratica degli antichi, pone dei
limiti (diritti di libertà) che nemmeno la sovranità popolare può violare.
Alain de Benoist tratta proprio l’argomento della democrazia, affermando che essa è tale solo
quando si fonda sul personale e assoluto governo dei cittadini, e non sul dominio impersonale
della legge.
Per Benoist, i cittadini sono coloro che discendono dalla stessa stirpe e che condividono la
stessa cultura; proprio la presenza di valori comuni permette anche eguali diritti politici, i
quali permettono di partecipare alle decisioni collettive in modo tale da difendere i loro diritti
civili.
Egli, quindi, è sostenitore di una comunità organica, dove i cittadini sono molto vicini tra loro e
questo li aiuta a cooperare per realizzare il bene comune. Ma, a causa del volume della
popolazione e delle dimensioni dei territori, questa meta sembra difficile da raggiungere.
Allora, cosa tiene unita la comunità, fatta di cittadini che si ispirano a valori differenti? È
proprio la democrazia liberale che, garantendo i diritti di libertà, tutela il dissenso, ed è il
dissenso che legittima la pluralità di valori e di interessi materiali.
Altro punto debole di De Benoist è il non aver citato l’economia di mercato, come se questa
non fosse stata la causa principale della disgregazione dell’unità sociale; invece non è così: o si
sopprime il mercato oppure non si potrà mai raggiungere une democrazia organica.
A differenza dei marxisti, che denunciano il mercato proponendo la statizzazione in